A gentile richiesta…

… anche perché non fa parte del libro di racconti (Linda e altre storie). Alcune amiche l’hanno letto facendo parte del mio focus e mi hanno pregato di pubblicarlo. Ispirato ad alcuni fatti di cronaca. Mi piacerebbe conoscere anche i vostri commenti e le vostre critiche. Buona lettura.

© Lucio Salis 2007

SEGRATE

Miran era un bullo. Era nato bullo. Ora aveva 24 anni e li portava a spasso con arroganza.
Era alto e ben modellato, spalle larghe, vita stretta da ballerino di flamenco, muscoli evidenti, gambe robuste e leggermente arcuate. Camminava quasi danzando, facendo ondeggiare i glutei alti e forti chiusi nei jeans neri molto stretti. Aveva anche un bel viso tenebroso, con sopracciglia forti e ben disegnate e due occhi chiari che ti ridevano in faccia o miravano oltre; un naso dritto leggermente all’insù e una bocca carnosa sempre atteggiata al sorriso beffardo. Strafottente. La mascella quadrata e un collo da Davide di Donatello aiutavano a completare questo bel lavoro della natura. Aveva i capelli corti, castani e con un ciuffetto ribelle sulla fronte che sembrava a giorni una lametta pronta ad incidere, altri una piccola onda nell’atto di frangersi contro la riva. Peccato per i denti, piccoli, storti e cariati. Miran non lavorava. Viveva della sua prepotenza, di piccole estorsioni e di furti. Era a capo di una banda con tre elementi tutti più vecchi di lui. Due erano biondicci slavati e anonimi, il terzo, che sembrava il luogotenente, era uno stecco lungo lungo e arcigno con le braccia nodose e un naso a becco, una testa a forma di melone, rasata e piena di cicatrici.
Tranne che per le mamme o per le foto segnaletiche della polizia, alla fin fine, i bulli sono tutti uguali, nell’anima. Come i semi del carrubo che venivano usati dai Fenici come unità di misura dei diamanti. Nessuno di loro aveva mai letto Bertolt Brecht né una sua breve poesia, dove parlava di quanta fatica costi essere cattivi. No, ma quandomai?! Loro guardavano la tv trash e ammiravano tutta quella marmaglia e tutto lo zoccolificio che Berlusconi aveva messo in piedi con la famiglia Costanzo e i vari Lelemora. Miran sapeva bene che in Italia, nell’italietta di Berlusconi, non contava la cultura, non contava l’intelligenza e non contavano la serietà né la preparazione. Contavano l’arroganza, l’immagine (prima si chiamava giustamente apparenza), la cattiveria, il cinismo. E una bella fedina penale importante. Essere figli di puttana, insomma. E lui lo era. In tutti i sensi. E aveva anche cominciato presto ad avere rapporti sessuali colle giovani colleghe di sua madre; aveva tredici anni. Marchette gratis a volontà. A diciassette invece aveva esagerato con le sostanze proibite e stava per lasciarci la ghirba. A diciotto era scappato dalla comunità di un prete ladro, uno che stava spesso in televisione, e che aveva cercato di abusare di lui.
Però l’avevano preso quasi subito e si era sciroppato due mesi di buiosa: lo aveva conciato male, il prete, a calci e pugni. E queste cose, si sa, ai preti non si devono fare. Nessuno aveva creduto agli abusi. Anche se molti anni dopo, di quel vecchio prete e dei suoi strani rapporti coi ragazzi se ne sarebbe parlato sui giornali e dalle televisioni. Il prete, si sa, perde il pelo ma non il vizietto.

Il vecchio non ne voleva sapere di cadere. Miran l’aveva trascinato dal letto fino al salone e continuava a colpirlo con pugni alla testa, ginocchiate e gomitate ai fianchi e allo sterno… niente. Si era chiuso a riccio e badava a stare in piedi e a sputazzare sangue misto a saliva. Forse, come un pugile alle corde, aspettava il momento buono per reagire.
“Dove sono i soldi, stronzo? Ti ammazzo! Dimmi dove sono i soldi e ce ne andiamo.”
Niente.
La vecchia dalla camera da letto prese ad urlare ancora più forte, di testa. Misha, il lungo, le stava infilando una bottiglia di birra tra le gambe, mentre le bloccava la gamba sinistra tra collo e spalla con un braccio e la destra a terra con un ginocchio. Rideva e sbavava, lui. Miran si voltò furibondo e, attraverso la porta aperta, fece un imperioso segno al compagno perché la facesse tacere. Per tutta risposta Misha mollò la bottiglia e assestò un poderoso gancio al mento della donna. Silenzio. Si era distratto però, Miran. Il vecchio gli portò una fortissima testata al mento che lo stordì per qualche secondo.
Non abbastanza da permettere al padrone di casa di agguantare un pesante alare nel vicino camino. Il bullo lo colpì con un calcio proprio sotto il braccio che si allungava, quindi alla milza e solo a quel punto l’anziano padrone di casa mise le ginocchia a terra. Un altro violento calcio alla testa lo fece stendere del tutto. Fuori, nella campagna, un cane rispondeva concitato all’abbaiare di un altro cane più lontano. Miran rovistò le tasche dei vestiti del vecchio e le borse della donna, ficcandosi nelle tasche del giubbotto di pelle soldi e anelli. Poi attaccò i cassetti del mobile in salone e della camera da letto. Gettò a terra pile di asciugamani e lenzuola e frugò voracemente dietro e sotto le pile di maglie e maglioni nel grande armadio. Gli altri avevano appena finito di ficcare in due capaci borse tutto quello che a parer loro avrebbe fruttato un po’ di euro, mentre uno dei biondini stava cercando di sodomizzare la vecchia ancora inerte. Miran prese il tipo per i capelli della nuca e lo strattonò, ordinandogli collo sguardo perentorio di uscire. L’altro biondino, prima di lasciare la casa isolata, pisciò abbondantemente sul letto matrimoniale.
Il raid aveva fruttato a malapena qualche pizzata e qualche dose di coca.
Alcune sere dopo furono più fortunati. Un’altra villetta isolata, a qualche chilometro più a nord, sempre nelle campagne del milanese, ma una coppia più giovane e più ricca. E più stupida. Sì, avevano dovuto tagliare la gola al dobermann che si era avventato silenziosamente su uno dei biondini, che era stato il primo a scavalcare il muro di cinta; avevano anche trovato difficoltà a forzare una portafinestra. Ma proprio sul tavolo del saloncino, ben impilati, stavano in bella vista sedicimila e cinquecento euro. Il ricavato della vendita di un carico di sementi che il compratore aveva portato qualche ora prima. Erano le due del mattino. La campagna era silenziosa, a parte un gufo o una civetta che emetteva il suo verso nascosto tra le fronde. Entrarono con un certo fracasso e bloccarono subito la donna che era accorsa seminuda, brandendo maldestramente un fucile da caccia coi cani abbassati. La immobilizzarono, le ordinarono di stare zitta e Miran le puntò la doppietta alla testa mentre la spingeva verso la camera da letto. Lei prese a singhiozzare in silenzio e a implorare sottovoce.
“Vi prego, non fateci del male… Mio marito sta molto male… ha appena avuto un brutto incidente. Prendete tutto quello che volete, ma non fateci del male.”

Miran fece cenno ai suoi di rovistare in giro, mentre spingeva la giovane signora sul lato sinistro del letto e guardò minacciosamente il marito, che giaceva dall’altra parte, spostando le canne del fucile nella sua direzione. L’uomo gemeva, disteso con una gamba ingessata e la febbre alta. Sul tavolino da notte una parata di medicine e un bicchiere d’acqua, un rosario appeso a una fioca lampada. Nel cassetto, un mazzo di chiavi, due preservativi e almeno ventimila euro in contanti e assegni.
Miran intascò tutto, poi passò il fucile allo spilungone affinché tenesse a bada il malato. Ma Misha preferì poggiare il fucile in un angolo e servirsi del lungo coltello a scatto. Si sedette su una poltroncina di fianco al letto, mentre Miran dall’altra parte si abbassava i pantaloni e avvicinava il volto della giovane donna al suo membro eretto. La donna non oppose nessuna resistenza. Basita dal terrore, aprì la bocca e sporse addirittura la lingua. Pochi movimenti e il ragazzo le allagò la gola e i capelli. Il padrone di casa, colla punta del coltello alla gola, non fece nessun movimento, sgranò solo gli occhi e continuò a sudare freddo e a tremare, mentre gli altri tre delinquenti, dopo aver infilato il bottino della razzia in una valigia e due borsoni, violentarono a turno la giovane moglie dalle grandi poppe. Lei ansava, gemeva, e si scostava continuamente i lunghi capelli che le lacrime gli appiccicavano agli occhi.

Nel giro di qualche mese, Miran e i suoi si erano potuti permettere un paio di grosse auto. Auto rubate all’estero e dalle targhe taroccate, che avevano ottenuto da uno del giro grosso per una manciata di euro. Avevano comprato anche un paio di pistole pulite, scarpe e jeans di marca. Erano fichi, ora, e frequentavano le discoteche e i pub alla moda. Anche prima di andare a fare qualche colpo.

E proprio in uno di questi locali Miran aveva adocchiato una splendida brunetta che lo attizzò parecchio. Non era sola però. Lei era sui trenta portati benissimo. Una figura snella e ben proporzionata, con un bel culo e tette sode. Evidenti e prepotenti sotto la T-shirt estiva. Begli occhioni e belle labbra sorridenti e un nasino impertinente fatto apposta per strofinargli contro il suo pisello semiduro. Prima di baciarla e di cacciarle un palmo di lingua in gola. Era stato il primo pensiero del bullo, quando se la trovò a tu per tu mentre cercava colla banda un tavolo libero e lei tornava da quello che doveva essere il bagno delle donne.
Il suo ragazzo non era granché, lo pesò subito Miran. Un mollusco figlio di mamma che non meritava certo un bocconcino del genere. Ma era lui che la gnocca baciava in un tete à tete molto intimo. Era il lobo del suo orecchio che lei mordicchiava, mentre gli sussurrava chissà quali sconcerie… Tu ballerai sul mio cazzo, le promise Miran fissandola in modo impertinente dal suo tavolo, a tre metri di distanza. Lei aveva incrociato per un attimo gli occhi e non era rimasta indifferente. Aveva avuto come una breve scossa, un piccolo brivido. Non guardò mai più da quella parte per tutta la sera. Nella penombra, alla seconda birra, Miran si accarezzava il cavallo intenzionalmente, senza smettere di fissarla. Gli era venuto durissimo e sperò che lei se ne accorgesse. Un uomo dal cazzo duro cambia espressione. Il testosterone parla per lui. Ma lei niente, non lo guardò più. Forse evitava volutamente di volgere gli occhi dalla sua parte. Forse aveva recepito il messaggio, ma non voleva rogne, col suo maschio presente. Il bullo decise che non se la sarebbe fatta scappare. Poco prima delle undici, la coppietta si alzò e si preparò a levare le tende. Miran si alzò anche lui, disse qualcosa a Misha e uscì dal locale, lasciando i compagni al tavolo. Si diresse verso la macchina. Mise in moto e si portò davanti all’uscita del parcheggio. Eccola! La luce nell’abitacolo era accesa e lei si stava ravviando i bei capelli, guardandosi allo specchietto di cortesia, mentre il suo ragazzo guidava, rideva e parlava. Miran accese una Marlboro e si mise sulla scia della Punto.
Guidarono per circa un quarto d’ora, poi la Fiat deviò per una stradina laterale che sembrava una via di penetrazione agraria. Miran spense i fari e rallentò. Quando le lucette rosse posteriori della Punto sparirono oltre una curva a sinistra, procedette a zig zag in folle per la leggera discesa, sfruttando al massimo l’inerzia. Non voleva essere scoperto. Né voleva allarmare la coppietta col rumore del motore. Giunto all’imbocco della curva, fermò l’auto e scese, senza richiudere la portiera. Proseguì a piedi, guardingo, tenendosi a ridosso dei cespugli di oleandro. Eccoli laggiù. Avevano fermato l’auto sotto alcuni alberi frondosi, a una cinquantina di metri sulla destra. La curiosità era troppa e la libidine voyeristica anche. Miran, come un Navajo sul sentiero di guerra, si avvicinò alla Tipo senza fare il minimo rumore. La mezzaluna estiva era velata da strati di umidità e regalava una luce perfetta per le intenzioni del bullo. Veramente Miran non aveva ben chiaro il da fare. La voglia era veramente fortissima, ma non era deciso al cento per cento. Era a un metro dalla vettura e vedeva solo delle ombre indistinte. Decise di trovare riparo dietro un oleandro alla sinistra dell’auto: se fosse arrivata qualche altra automobile, sarebbe stato difficile scorgerlo e gli occupanti della Tipo non potevano assolutamente vederlo. La curva dove aveva fermato la sua macchina era abbastanza ampia per permettere a un’altra vettura di passare agevolmente. Forse era stata studiata per permettere a trattori e camion di manovrare. Non vedeva niente. Non sentiva nulla. Che fare? Aprire di botto la portiera e aggredire l’uomo? Non a mani nude: i due avrebbero potuto difendersi, gridare, richiamare altre persone. C’erano delle palazzine e delle case rurali intorno. Nulla da fare. Avrebbe dovuto rimandare. Tornò silenziosamente sui suoi passi e salì in auto. Manovrò senza chiudere la portiera e, rimessosi nella giusta direzione, accese i fari e cercò una postazione per poter seguire la Tipo, quando i due amanti avessero deciso di rientrare.

Poco più di un’ora dopo era davanti a una palazzina senza pretese a Cernusco sul Naviglio. Miran fumava e si sentiva stanco morto. Si era infilato in un parcheggio nella piazzola alberata di fronte alla casa della ragazza. Dall’altra parte della strada, i due piccioncini si scambiavano le ultime effusioni.
La luce nell’abitacolo della Tipo era accesa. La ragazza aveva la portiera aperta e già un piede sulla strada. Miran vedeva tutto dallo specchietto retrovisore. Finalmente, dopo una breve corsetta, lei sparì dietro il portoncino e il ragazzo partì di gran carriera. Miran pescò con due dita il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e chiamò Misha. Gli diede appuntamento per il giorno dopo e chiuse la comunicazione. Scese dall’auto, si stiracchiò, e cercò di individuare l’abitazione della gnocca.
Una finestra si illuminò al terzo e ultimo piano e un’ombra prese a deambulare per la stanza. Miran sorrise soddisfatto. Accese un’altra sigaretta e se ne andò a casa.

Non era passato nemmeno un mese da quella sera. Mezzogiorno di un lunedì estivo, in un bar di Sesto San Giovanni, Miran sorseggiava un aperitivo alcolico mentre leggeva la cronaca locale su un quotidiano trovato sul tavolino. Leggeva e ghignava, mentre faceva roteare un piccolo cuoricino d’oro appeso a una catenina.

“MILANO – Violentata da quattro uomini, davanti al fidanzato, minacciato da una pistola. L’atroce episodio è avvenuto ieri sera a Segrate, in provincia di Milano. I due, entrambi 31enni, intorno alle 23 si trovavano fra via Cassanese e via Morandi, in un parcheggio, fermi nella loro auto a chiacchierare.

Improvvisamente, fuori dalla macchina, sul lato del guidatore, è comparso un giovane, armato di pistola, che ha costretto entrambi a scendere e a seguirlo su un’altra auto, dove attendevano altri tre uomini. Una volta sulla vettura i sequestratori, tutti stranieri e armati di pistole e taglierini, hanno portato la coppia in un campo di Cascina Soresina.

Approfittando della zona isolata, hanno costretto l’uomo a stare accovacciato sotto il sedile, minacciandolo a turno con una pistola, mentre gli altri, fuori dalla macchina, violentavano ripetutamente la donna. Dopo l’aggressione gli stupratori sono fuggiti derubando la coppia di 70 euro e dei cellulari.

Le vittime hanno raggiunto la caserma dei carabinieri di San Donato Milanese dove hanno denunciato la violenza. La 31enne, sotto choc, è stata accompagnata alla clinica Mangiagalli per le cure mediche. I due hanno descritto gli aggressori come stranieri sui 25-30, anche se non hanno saputo specificare se nordafricani o dell’Est Europa.”

Che stronzi! Non erano 70 euro, ma quaranta. I cellulari erano vecchi modelli ed erano finiti in un naviglio, perché rischiare? Non avevano parlato della catenina. Miran scolò il bicchiere, intascò il gioiellino, accese una Marlboro e si avviò con passo molleggiato verso la sua auto.

Condividi
  • Facebook
  • Digg
  • Google Bookmarks
  • Live
  • YahooMyWeb
  • LinkedIn
  • StumbleUpon
  • Twitter