L’Aquila: ecco la fotografia del peggior governo della Repubblica Italiana: ladri e incapaci.

JENNER MELETTI

L’ultimo cittadino dell’Aquila
“Così è diventata come Pompei”

L'ultimo cittadino dell'Aquila "Così è diventata come Pompei"

Parla il professore che ha deciso di restare nella città disastrata: “A Berlusconi importava solo di far dimenticare la tragedia e di costruire la new town. Così ci hanno praticamente costretti ad andar via. Ma troppi hanno accettato supinamente”. E di ricostruire nessuno parla più

L’AQUILA – E’ sempre un colpo al cuore, entrare nel centro storico dell’Aquila. Hai l’autorizzazione, la mostri ai soldati armati che per un attimo scendono dalla camionetta, ma ti senti un intruso. Ti sembra di entrare, non invitato, in casa d’altri, violando la loro intimità. Gli “altri” – gli abitanti di questa città fantasma – non ci sono. Ma puoi guardare i loro abiti nei loro armadi, la scatolette di tonno, i biscotti e i pacchi di spaghetti nelle loro
cucine. Puoi leggere i loro libri caduti da scaffali del Settecento o da librerie dell’Ikea, sopravvissuti al gelo e ai temporali di due inverni e di due estati. Tutto come in quella mattina del 6 aprile 2009, quando il terremoto era arrivato da poche ore. L’unica differenza, in questo film angosciante, è la colonna sonora. Quella mattina c’erano le sirene, le grida, le preghiere, le urla di madri che cercavano i figli. Oggi c’è il silenzio assoluto. E ti chiedi: perché qui è tutto come allora?

Cumuli di pietre, facciate tenute in piedi da puntellamenti costati centinaia di migliaia di euro (e del tutto inutili, perché si spenderanno altri soldi per togliere i tubi Innocenti e poi abbattere tutto, come si doveva fare subito). Anche i cani hanno lasciato la zona rossa, con le strade e le case dove abitavano i loro padroni. Oltre le transenne ci sono i volontari che riempiono le loro ciotole e i venditori di porchetta che alla sera gli buttano gli avanzi. In poco più di due anni, l’Aquila è diventata come Pompei. “E’ questo – dice Raffaele Colapietra, ottant’anni, docente di storia moderna e conoscitore di ogni pietra aquilana – il triste miracolo avvenuto nella nostra città. In soli due anni l’Aquila è diventata una nuova Pompei e il degrado aumenterà ancora, con il passare del tempo. Il centro storico non ci sarà più. Ci sarà “l’Aquila vecchia”, da visitare la domenica pomeriggio, se non si avrà niente di meglio da fare”.

Il professor Colapietra, che ci guida in questo viaggio nella città fantasma, è l’unica persona che non ha lasciato il centro storico. Ha continuato a viverci, da “abusivo”, per non lasciare la sua casa, i suoi gatti, i suoi libri. “Volevano mandarmi via, la Protezione civile mi ha spedito persino una psicologa arrivata da Milano. Ho detto no e basta e così nessuno si è più fatto vivo, nemmeno per offrirmi un aiuto. Ma almeno mi hanno lasciato in pace. Non si può dire che gli abitanti del centro siano stati deportati, perché non c’erano i mitra, come per gli ebrei. Semplicemente lo stesso giorno del terremoto il sindaco ha dichiarato che tutto il centro era zona rossa e la città è passata sotto l’autorità della Protezione civile. Chi usciva di casa – e l’hanno fatto tutti – quando ha cercato di tornare ha trovato i soldati armati. Il risultato lo vediamo camminando su queste strade. L’Aquila è un cimitero, semplicemente. Ma non per le macerie che vedi, ma per l’assenza degli abitanti”.

L’anziano docente – ancora impegnato in ricerche e conferenze in tante città italiane – spiega come e perché, secondo lui, si è arrivati a questo risultato. “Berlusconi è davvero un genio della propaganda e dello spettacolo. Ha capito che qui poteva giocarsi delle buone carte, mostrando a tutti che in 48 ore avrebbe fatto dimenticare il terremoto. Piani per le nuove case prefabbricate, hotel al mare… Si è presentato come l’uomo della Provvidenza. Il centro storico moribondo? Non gliene importava nulla. In tv c’erano le nuove case, con lo spumante sul tavolo. E così l’Aquila è diventata una città spappolata, senza una testa e un cuore”.

Ma la colpa non è stata solo del governo. “Troppi aquilani sono fuggiti, trasferendosi altrove a spese dello Stato. Questo è un atto inconcludente, perché senza il suo centro l’Aquila non avrà più senso. Il 2 febbraio 1703 ci fu un terremoto che provocò la morte di 2.400 degli 8.000 abitanti. Ma allora gli aquilani non fuggirono. In piazza del mercato si costruirono 50 baracche e tutti si impegnarono subito nella ricostruzione. Io credo che metà della popolazione, almeno, avrebbe potuto fare come me: restare qui, resistere. Con 3.200 euro, pagati di tasca mia, ho messo in sicurezza la mia casa che aveva avuto lievissimi danni. Alla sera guardo le case attorno, quasi tutte ritinteggiate e basta perché non avevano altri danni. Tutte le luci sono spente”.

Assieme al professore che non ha mai lasciato la sua casa, in questo viaggio nella città diventata un ricordo c’è un altro docente, Eugenio Carlomagno, 64 anni, direttore dell’Accademia di belle arti. Lui ha dovuto abbandonare la sua abitazione nella città evacuata il 6 aprile 2009 e non ci è più potuto tornare. “La mia casa non ha danni seri, potrei abitarci dopo lavori per poche migliaia di euro. Ma di fianco c’è un palazzo in cemento armato che rischia di crollarci sopra. La demolizione di questo palazzo è stata decisa già nel settembre 2009 ma ancora non si è vista una ruspa. E così io e decine di altri abitanti di questa via degli Albanesi siamo costretti a stare lontano. Io penso che il cinquanta per cento delle case del centro siano messe come la mia”. Nei giardini incolti gli arbusti diventano alberi e coprono le macerie. Come a Pompei.

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