Oltre tremila licenziamenti a merdaset: sfruttano chi lavora, ma il mafionano fattura miliardi.

– QUANDO SILVIO LICENZIA…

Gianfrancesco Turano per “L’Espresso”
Presidente-operaio o presidente-imprenditore, per Berlusconi il lavoro è sempre stato un dogma. “Sono un lavoratore tra i lavoratori, ho creato migliaia di posti di lavoro dal nulla”, diceva già nel luglio 1996 al congresso nazionale della Cgil. O ancora, una anno fa in polemica con Emma Marcegaglia: “Il posto fisso è un valore”.

Lavoro come slogan elettorale di un modello virtuale dove l’imprenditore guadagna, investe e produce nuova occupazione: decine di migliaia di posti per la Fininvest, un milioncino tondo per il resto del Sistema Italia. Eppure del milione di posti promessi nessuna traccia. E nemmeno le truppe della galassia del Biscione si sentono troppo bene.
Dalla fine del 2007 al 31 dicembre 2009 gli organici Fininvest sono passati da 21.201 dipendenti a 17.918. Significa 3.283 posti in meno, poco più del

 15 per cento della forza lavoro complessiva, ossia poco meno dell’8 per cento su base annua. Così fan tutti? Non proprio tutti e non proprio in questo modo. È vero che la crisi ha costretto molte aziende a ridurre gli organici, esternalizzare, delocalizzare, deconsolidare, e via elencando, per resistere al mercato recessivo.

COLOGNO MONZESE
Ma è anche vero che, se c’è un gruppo in salute nell’intera Penisola, questo si chiama Fininvest. Nello stesso periodo 2007-2009 in cui il presidente-imprenditore mandava a casa oltre 3 mila persone, il presidente-azionista incassava 410 milioni di euro di dividendi per sé e per i suoi familiari. Per l’esattezza, 210 milioni nel 2008 e 200 nel 2009, cifre che includono le società non controllate direttamente dal Biscione. Al premier è toccata la parte del leone con 251 milioni di profitti complessivi nel biennio. Di che fare sognare le orde di giovinette rapite dal suo fascino.

Ancora una volta, va detto che la Fininvest non è l’unica società a tagliare con una mano e guadagnare con l’altra. Ma va aggiunto che non tutte le imprese hanno a capo il capo del governo.

Naturalmente, la cura dimagrante Fininvest procede sotto traccia come un intervento di chirurgia estetica. I tre pilastri dell’impero (Mediaset, Mondadori, Mediolanum) hanno subito i tagli in modo diverso. La subholding delle televisioni ha subito una flessione molto forte degli utili dai 459 milioni del 2008 ai 272 del 2009.

Banca Mediolanum
L’anno scorso sono finiti fuori dal gruppo circa 500 dipendenti. Quelli di Medusa Multicinema, che non è più una controllata perché Fininvest ha solo il 49 per cento contro il 51 di Alessandro Benetton, e quelli di Medusa Film, che rimane controllata al 75 per cento ma attraverso il filtro di altre società.

In Mediaset c’è stata finora l’unica protesta clamorosa. È accaduto in gennaio quando truccatori e parrucchieri, esternalizzati da Mediaset a Pragma service, hanno messo in scena il primo sciopero dei dipendenti. Nove mesi dopo, le garanzie sull’impiego sono state mantenute. Nessun licenziamento.

Il settore trucco e parrucco continua a lavorare prevalentemente con Mediaset. Ma resta il timore che la procedura venga ripetuta con altri gruppi di lavoratori che fanno capo alla produzione come scenografi o tecnici. Più che il licenziamento vero e proprio, l’utilità dell’operazione sta nella riduzione progressiva dei costi.

 Ad aprire la strada dell’outsourcing sono stati i musicisti che infatti oggi sono pagati, in valore nominale, poco più di 15 anni fa, quando la tariffa giornaliera era intorno alle 180 mila lire. Nella produzione Mediaset “Io canto”, una sorta di Sanremo per bambini e ragazzi presentato da Gerry Scotti, un primo violino prende 180 euro al giorno e uno strumento di fila 150, all inclusive.

Questo significa che i vari musicisti napoletani scritturati a Cologno Monzese hanno 180 euro per pagarsi tasse, vitto e alloggio. Il loro impegno di lavoro varia fra le sei e le dieci ore. Potrebbero andare più vicino a casa, per esempio a Roma dove si registra “Amici”, presentato da Maria De Filippi e prodotto dalla Fascino Pgt (50 per cento di De Filippi e 50 per cento della stessa Rti-Fininvest).

Ma lì danno 90 euro per gli strumenti di fila. Sono le 180 mila lire degli anni Novanta. Fascino non risulta fra le controllate Fininvest. Dal 50 per cento in giù una società non rientra nei conti della casa madre. Lo stesso, a maggior ragione, vale per Endemol Italia. Qui il gruppo della famiglia Berlusconi è proprietario di un terzo delle azioni attraverso un giro complicato di società estere fra le quali la spagnola Mediacinco e l’olandese Endemol Bv.

ENDEMOL
Anche a Endemol la parola d’ordine è tagliare. La struttura del personale dipendente è abbastanza agile con 183 unità in organico, di cui 42 a tempo determinato. Il ricorso alle prestazioni esterne in questo settore è fisiologico. Ma non tutti i collaboratori sono uguali. Le star della fiction o Fabio Fazio, conduttore del format Endemol “Che tempo che fa”, sono ossi duri quando si tratta di stabilire i compensi.

 Ben diverso è il discorso con i tecnici o, magari, con i ballerini. In genere, la compressione maggiore riguarda l’intrattenimento che infatti ha un margine molto più alto della fiction (nel 2009 22,6 milioni contro 2 milioni di euro). Sono i dannati dietro le quinte di “Affari tuoi”, della “Prova del cuoco” o del “Grande Fratello” a pagare il prezzo di una morigeratezza che ha portato 4 milioni di utile netto nel 2009, nonostante il gruppo multinazionale sia gravato da 3 miliardi di dollari di debiti con oneri finanziari in proporzione.

Fra televisione e finanza, all’inizio del 2010 si è chiusa anche l’esperienza di Alboran, il canale aziendale al servizio di Mediolanum comunicazione e della banca di Ennio Doris e Silvio Berlusconi. Sono finiti a casa circa 50 free lance della tv tematica che produceva spot con slogan come “Io non ho paura” e “Inauguriamo l’ottimismo” su sfondo di bella gente in convention al Forum di Assago.

Un’autentica tempesta, con l’uscita di 548 unità dovuta “alla razionalizzazione della rete di vendita del mercato Italia del gruppo Mediolanum”, ha colpito il settore dei promotori finanziari. Qui l’impatto della crisi è stato molto duro, con patrimoni privati impazziti fra scudi fiscali, crollo delle Borse, derivati e audaci colpi dei vari Bernie Madoff. Ma i 2 mila in organico alla sede della banca non sono stati toccati, come Doris aveva promesso, e non ci sono state proteste imbarazzanti contro il proprietario.

Berlusconi è notoriamente sensibile alle manifestazioni del partito dell’odio. Che arrivano da dove meno lui si aspetta.

Prima della chiusura per i Mondiali di calcio in Sudafrica, San Siro era diventato l’epicentro della contestazione. Gli ingratissimi tifosi milanisti hanno esibito per mesi striscioni insultanti per condannare la politica di risparmio imposta al club e per invitare la proprietà a vendere a qualche abbiente sceicco.

Il Milan è lo specchio di Silvio. Uno specchio molto caro. A detta dello stesso Berlusconi, la squadra è costata 237 milioni dal 2005 al giugno 2010. Poi c’è stata la crisi politica con i finiani, la minaccia di elezioni anticipate. E sono arrivati Zlatan Ibrahimovic e Robinho, altri due con cui è difficile trattare da posizioni di forza. Ibra è costato 24 milioni, con una dilazione di un anno sul pagamento e una distribuzione in tre rate da 8 milioni.

Lo svedese ha un ingaggio annuale da 9 milioni di euro netti, cioè lo stipendio più alto della serie A. Robinho è costato 18 milioni di transfer e prende 4 milioni netti per esibirsi, a tutt’oggi, a livelli da licenziamento per giusta causa.

La svolta a 180 gradi nella gestione dei rossoneri ha avuto qualche conseguenza familiare. Quando si tratta di investire in calciatori, il partito dei figli vede Piersilvio su posizioni piuttosto tiepide. Marina è nettamente contraria. Ancora in tempi di cordoni stretti, nella primavera scorsa, la figlia maggiore del premier aveva affermato che le società di calcio devono attenersi alle regole della buona gestione economica. Quando mai, bisognerebbe aggiungere.

Ma allora il Milan aveva dietro un Pdl unito e ampiamente maggioritario. Così, Marina poteva permettersi di cancellare il contributo per l’affitto ai giocatori minacciando di piazzarli negli squallidi tuguri – si fa per dire – di proprietà di Milan Real Estate. Fra i tagli annunciati, c’era l’appartamento rimasto a disposizione di Kakà anche dopo la sua cessione al Real Madrid per 65 milioni di euro a giugno del 2009.

Tra i figli di Veronica Lario, che ha esternalizzato il marito e a sua volta ha lasciato la residenza di Macherio, c’è stato un cambiamento. Dopo una fase di indifferenza generale, Barbara si è detta disponibile per un ruolo dirigenziale nel club e ha fatto debuttare in tribuna vip a San Siro il figlio Alessandro, 3 anni, in occasione dell’incontro con il Catania del 18 settembre. Il Milan, del resto, fa parte dell’asse ereditario alla stessa stregua di Mediaset, Mediolanum e Mondadori. Non produrrà reddito ma offre una visibilità senza uguali. Almeno finché si vince. E vincere licenziando, nel calcio, è difficile.

2 –MONDADORI CHIUDE BOTTEGA…
Giulia Cerino per “L’Espresso”

Fuori tutto. Anzi, fuori 25 dei 37 dipendenti con contratto a tempo indeterminato della Mondadori di via del Corso 472 a Roma. Per loro si prospettano due anni di cassa integrazione. Il multicenter ha chiuso i battenti il 19 settembre. Eppure gli affari non andavano così male. L’affitto per i 2 mila metri quadrati era di circa un milione di euro l’anno.

Una cifra ammortizzata da un fatturato tra gli 8 e i 10 milioni. Perché fare le valigie? Non è stato facile farselo spiegare. Durante le trattative, nella bacheca del multicenter appariva un avviso sindacale che pregava i colleghi di “non rilasciare interviste perché non autorizzati”.

“Circa tre anni fa”, racconta uno degli ex dipendenti, “Mondadori ha acquistato l’immobile di via del Corso. Due anni dopo ha deciso di vendere i locali a Vittorio Tabacchi di Safilo e di pagare l’affitto con un contratto di sei anni”. Prima dell’estate, la sorpresa. Claudio Ricci, rappresentante della Cgil-Lazio, comunica ai lavoratori che via del Corso chiuderà perché Tabacchi ha chiesto il cambio di destinazione d’uso e un aumento del canone.

“Il contratto d’affitto”, dice l’ex dipendente, “non era scaduto. Forse c’era qualche clausola particolare, ma non si saprà mai perché la Cgil non ha chiesto all’azienda di vedere il contratto. Forse per nascondere che dietro c’era una buonuscita di circa 30 milioni di euro”. Alle accuse risponde Ricci che rivendica di essere riuscito a “sostituire la mobilità con la cassa integrazione”.

Per ora, di certo c’è solo che al posto del multicenter approderà la multinazionale americana Gap. Il gruppo di Segrate, invece, riaprirà all’Eur, a dispetto della delibera comunale del 2006 che tutela le librerie e stabilisce di “fermare le trasformazioni che penalizzano le vocazioni originali del centro storico”. Anche il Mondadori multicenter di via san Vincenzo, a due passi dalla fontana di Trevi, ha chiuso bottega in fretta e furia. I 10 dipendenti saranno assorbiti dal gruppo di ristorazione Cremonini.

B-Pappone

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