Berlusconi, cazzaro indegno

BERLUSCAZZO: «Democrazia ferita, i giudici vogliono cambiare i governi»

°°° Spara la solita minchiata del giorno, poi mostra il sangue finto. Tutto il mondo sa che, per fargli uscire una goccia di sangue da tutta quella plastica e dallo strato inumano  di cerone, bisognerebbe colpirlo con un machete ben affilato e partendo da molto lontano.

b.sangue finto

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Il premier e l’Italia vanno a puttane

ALCUNI TITOLI DALLA STAMPA (BENEVOLA) DI OGGI. e NON PARLIAMO DELLA STAMPA E DELLE TV STRANIERE… DA ACCAPPONARE LA PELLE.

– L’anno scorso 1.120 vittime del lavoro
Tir investe operai: un morto e 5 feriti

– Rai, Garimberti porta il caso Tg1 in Cda
Il varietà di Crozza scompare da La 7

– Tremonti dai commercianti critica le banche
E Berlusconi non ci va: “Ho il torcicollo”

– Istat, vendite al dettaglio in calo dello 0,6% sull’anno

– Ocse rivede le previsioni al rialzo
Ma in Italia la situazione peggiora

– G8 all’Aquila con l’allarme terremoto

– Annunci sul web, organi in cambio di soldi
Videoinchiesta. “100 mila euro, affare fatto”
Fegato, midollo, sangue: su internet le offerte di chi, travolto dai debiti, vende parti del proprio corpo. Malgrado la legge lo vieti. E’ la classe media piegata dalla crisi

– Giornalisti e magistrati: no al dl intercettazioni

– Pestata dal branco, c’è identikit dei colpevoli
Napoli, una giovane aggredita a pugni e calci per aver difeso degli amici gay. Rischia di perdere un occhio. Caccia agli aggressori.

°°° Ecco, amici miei, un piccolo spaccato del degrado che questa italietta ha subìto in un solo anno di governicchio scellerato. Queste sono alcune delle notizie che i telegiornali di regime NON danno, oppure danno in modo artatamente subdolo e incomprensibile: ben lontano dalla portata degli eventi reali. Per esempio… avete visto un solo Tg italiano che dedichi qualche minuto al giorno per raccontarci le vicissitudini dei terremotati? Per monitorare le loro reali condizioni di salute e di assistenza da parte degli organi competenti? No, vero? Beh, in uno Stato civile e democratico sarebbe IL PRIMO SERVIZIO ad andare in onda, ogni giorno, fino a soluzione del problema. Ma questo è uno Stato civile e democratico? No, certo. Qui, tolti Santoro, Travaglio, e pochissimi altri… chi si sognerebbe di fare il giornalista per davvero?


VIVIAMO AVVOLTI DALLA NEBBIA

nebbia

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Regalo

VI PIACCIONO I RACCONTI EROTICI? Questo è un soggetto per un film. BUONA LETTURA:

Copyright © Lucio Salis 1993
Riproduzione vietata

CARMELA

Carmela guardò la sua figuretta allo specchio. Era in piedi, nuda, e la sua sfarzosa sala da letto tutta bianca e rosa era inondata dal sole mattutino. Si passò lentamente le mani sui fianchi asciutti; non un filo di cellulite, non una smagliatura. La pelle bruna, i seni piccoli e sodi, il ciuffo ordinato e scolpito del pube. Sì, pensò, niente male. Aveva appena ventisette anni ed era già da qualche mese a capo una temibile cosca. Era una femmina d’onore. Mente strategica e, nei primi tempi di militanza, anche implacabile ed infallibile tiratrice aggregata ai gruppi di fuoco. Rispettata ormai dagli altri capi e temuta per la sua scaltrezza e per la sua ferocia, andava dritta per la sua strada. Da un mese abitava nella villa bunker blindata e super protetta, 24 ore su 24, da marchingegni elettronici e da una ventina di picciotti armati sino ai denti, che stravedevano per lei. Intoccabile,. Inavvicinabile. Cominciò a vestirsi. Si fece ancor più bella e desiderabile. Solitamente, faceva venire alla villa una parrucchiera di sua fiducia. Quella mattina aveva deciso di uscire dall’isolamento e andare lei in città. Non voleva dare nell’occhio, anche se la cosa era abbastanza impossibile. Nonostante la sua posizione ed il rispetto reverenziale di cui godeva, erano pur sempre alle falde dell’Etna e non in pieno Sahara. Dopo un’ultima occhiata soddisfatta al grande specchio, aprì la porta della sua stanza. Subito, i due uomini di guardia in fondo al corridoio, scattarono in piedi pronti ad accompagnarla. Uno dei due scese velocemente lo scalone, quasi scivolando, ed uscì nel parco ad impartire degli ordini. Due macchine blindate si misero in moto e si accostarono alla scalinata d’ingresso. Altre quattro auto identiche alle prime e con la stessa targa erano già in moto davanti al pesante cancello. Una grossa moto Honda che fungeva da apripista, identica ad altre due che sostavano all’ingresso del viale, si avvicinò con appena un leggero fruscio al cancello di ferro in fondo al viale d’accesso. I tre uomini di guardia, due giovani e uno sui cinquanta, smisero immediatamente di giocare a pallone e si avvicinarono a parlottare coi due tizi della prima moto. Tutti aspettavano che Carmela montasse sulla seconda Lancia Thema davanti alla scalinata, per azionare il dispositivo d’apertura del cancello. Lei arrivò e finalmente i tre cortei si misero in moto. Ognuno prese una direzione diversa. Meglio essere prudenti. La moto e le auto con a bordo la boss attraversarono una provinciale deserta e una periferia altrettanto deserta. Raggiunsero senza problemi il pretenzioso salone, troppo addobbato per essere in una zona periferica, e uno degli uomini scese ad aprire la portiera per far scendere la boss. Altri tre uomini erano già scesi e scrutavano i paraggi con noncuranza. La Honda arrivò silenziosamente sino all’incrocio e parcheggiò. I due soldati smontarono e si liberarono dai caschi. Anche se non si notava niente, tutti gli uomini erano armati di tutto punto e nei bauli dei mezzi c’era una vera e propria Santabarbara. Non erano in guerra al momento, ma la prudenza non era mai troppa. Troppi soffioni dell’ultim’ora. E appena un boss sapeva di bruciato, troppi erano pronti a prenderne il posto. Quando un albero cade, per grosso che sia, tutti fanno legna. Carmela entrò nel locale, non appena un suo uomo addetto al controllo ne fu uscito per dare la via libera. Come convenuto, non c’erano altre clienti. Venne accolta dal rispettoso calore di Anna, la sua parrucchiera di mezza età, mentre la giovane assistente Isa la salutò chinando appena la testa. Carmela venne fatta accomodare e Isa cominciò a farle lo shampoo. Sentendo le mani della ragazza che le massaggiavano i capelli e la cute, ebbe un brivido di piacere. Isa aveva vent’anni ed era la più bella ragazza del circondario. Era fidanzata con un giovane meccanico da più di un anno e non erano mai andati oltre i baci e qualche palpatina superficiale. Taciturna e discreta, somigliava in maniera impressionante a Claudia Cardinale ventenne. Carmela era pazza di Isa, da quando l’aveva centrata nel mirino del suo sguardo, e la voleva a tutti i costi. Anna sospettava qualcosa del genere: da quando la ragazzina era entrata a lavorare da lei, qualche mese prima, e Carmela l’aveva notata, era stato un susseguirsi di “Come sta Isa? Dove sta Isa? Che fa Isa?” Ogni volta che andava da sola alla villa trovava Carmela agitata e seccata per il fatto di non vedere la giovane aiutante. E partiva colle domande. Anna avrebbe potuto vedere susine nascere da un banano e non si sarebbe stupita. In un primo momento aveva cercato a modo suo di proteggere la ragazzina, poi, temendo ritorsioni, aveva cominciato a cedere. Sperando di ingraziarsi ancora di più quella cliente d’oro, le aveva intonato all’orecchio una dolce melodia: Isa era ai ferri corti col ragazzo e, a causa di questo, anche coi suoi famigliari. Ecco perché Carmela aveva deciso quella visita in città: poteva essere un buon momento per l’attacco. In realtà, Isa era insofferente in famiglia perché i suoi le negavano anche un minimo di libertà ed era un po’ in freddo con Rosario proprio perché a lui non bastava più vederla così poco, e farci ancora meno. Anna le spuntò appena i lunghi capelli neri ancora umidi e applicò dei bigodi, quindi prese il casco a rotelle che Isa aveva avvicinato e lo applicò. “Una mezz’oretta!” gridò, chinandosi, e sparì nel retrobottega. Isa accostò uno sgabello e un carrellino pieno di attrezzi per la manicure, prese posto sul trespolo accanto a Carmela e le sorrise. Lei porse la mano, che Isa le fece mettere a bagno nell’apposita vaschetta con acqua tiepida, sapone liquido e bicarbonato. Anche lei sorrise e la fissò. La ragazzina abbassò gli occhi.
– Scotta? – chiese, indicando il casco. Carmela piegò all’ingiù gli angoli della bella bocca e scosse impercettibilmente la testa.
– Ti trovi bene qui? – chiese. La ragazzina ci pensò un attimo:
– Abbastanza. – dopo un po’ aggiunse: – Non è che c’è tutto sto lavoro in giro.
– Ci verresti a lavorare da me?
– Parrucchiera? – si accorse subito di aver detto una sciocchezza e strinse le labbra. Tolse la mano di Carmela dalla vaschetta e cominciò a lavorare.
– Che belle mani che avete. – disse, quasi a scusarsi.
– Grazie. Sono più belle le tue, però… così bianche… Allora? Ci verresti? Mi fai da dama di compagnia. Una specie… Non ho sorelle. Ho solo un fratello e lavoro con tutti maschi… Che dici? Ti pago bene.
– Non so… – fece una smorfietta. Era decisamente spiazzata. Carmela capì di aver trovato un varco e spinse a fondo:
– Ti do duemila euro al mese. Vitto e alloggio. Bella vita, bei vestiti… Allora?

Isa rise piano e guardò verso il retrobottega:
– Qui guadagno quattrocento euro.
– Vuoi che ci parlo io coi tuoi?
– Non so… – altra smorfietta. – Mi piacerebbe. Glielo dico io a mia mamma.
– Brava. Con Anna ci parlo io. Puoi cominciare pure domani, se vuoi.

Due giorni dopo, accompagnata da uno dei soldati, Isa si presentò al portone della villa. Aveva un borsone da ginnastica colla sua roba e il suo cuore batteva come un tamburo.
Ad Anna fu consegnata una busta con cinquemila euro in contanti, che intascò soddisfatta e riconoscente. Nello stesso momento, Carmela stava facendo visitare la villa alla giovane amica. “Intanto, cominciami a dare del tu. Completamente.” Le aveva detto subito. La condusse prima nella sala hobby: trecento metri quadri di giochi, tra un luna park e un casinò. Strumenti per un’orchestrina su un palchetto d’angolo. Dall’altra parte del salone si accedeva al piccolo cinema privato, tutto in rosso e completamente insonorizzato, con una ventina di poltroncine comodissime. Sempre dal sotterraneo, si scendeva al bunker antiatomico, dotato di provviste, cucina, armeria, sala operatoria modernissima, due confortevoli camere con una decina di letti ciascuna, due stanze da bagno e una camera matrimoniale con servizi e caveau annessi. Lì c’era il tesoro della cosca. Ma il bunker venne escluso dalla visita. Salirono al pianterreno dove, tra un “Oh!” di sorpresa e l’altro, Isa ammirò uno sterminato salone delle feste riccamente arredato, corridoi in marmo che portavano ad una grande sala da pranzo, con annessa anche una saletta più intima e riservata, e bagni e cucine che avrebbero fatto invidia a qualunque buon ristorante. Quindi fu la volta del piano superiore. Quattro camere da letto, tutte arredate con gusto sopraffino e tutte con sala da bagno privata e completa di sauna e idromassaggio. C’erano anche altre cinque porte chiuse, le stanze dei soldati e i loro spogliatoi. Ma quelle vennero saltate. Passarono al solarium, completo di sauna finlandese, palestra, sala massaggi, e centinaia di piante esotiche che contornavano un acquario enorme e bellissimo. C’era anche un fornitissimo bancone bar e quattro tavoli da pranzo, sotto un pergolato. Durante tutta la visita, due dei soldati avevano seguito le ragazze con discrezione e avevano provveduto a richiudere le porte che Carmela lasciava aperte. I due picciotti si appoggiarono al bancone, mentre le due donne si affacciarono alla terrazza, da lì si potevano vedere sia la piscina olimpionica che la piscina coperta, i due campi da tennis, il campetto di calcio completo di porte, le immense voliere popolate da ogni variopinta specie di volatile, le scuderie e giù, verso il limitare di un boschetto, il maneggio. C’era un uomo che faceva passeggiare un baio e gli accarezzava il collo possente. Isa era estasiata e non aveva parole. Carmela se la mangiava cogli occhi, fiera dell’impatto avuto, e già pregustava l’ora X. La prese per mano e la condusse nella sua stanza. Tra la camera e la sala da bagno, c’era un ordinatissimo spogliatoio fornito quanto un negozio del centro di Roma o Milano. Fece scorrere l’anta di un armadio a muro e aprì un cassetto, dentro c’erano una cinquantina di costumi da bagno di ogni foggia e colore.
– Ti va una nuotata? Scegliti quello che vuoi. Dai, non stare così imbambolata! Provatene qualcuno.

Isa stava lì, colla bocca aperta, ancora sconvolta. Troppe cose belle tutte insieme.
– Ehi! Dico a te! Questa è casa tua, adesso. Mi capisti? E’ roba anche tua. Andiamo! – si mise a frugare e ne scelse uno. – Tie’, provati questo. Abbiamo le stesse misure… Questo nero ti dovrebbe stare una favola. E sveglia! –
La incitò, ridendo. Isa, per tutta risposta, le si aggrappò al collo e scoppiò in un pianto dirotto. Era gioia? Non che Carmela se ne preoccupasse, lei badava a stringere quel corpo e a carezzarlo il più possibile, rassicurante. Poi le prese il viso tra le mani e la baciò teneramente sugli occhi allagati.
– Cosa c’è, piccola? – sussurrò col broncetto. – Cosa c’è? Va tutto bene… Ci penso io a te, ora. Mi capisti? Ci sono io qui. Dài, lavati il viso e andiamo in piscina.
La fece voltare e le diede una sculacciata. Prese alcuni costumi e la guidò verso il bagno. Le lavò il viso e glielo asciugò con una immacolata salvietta di lino, quindi cominciò a sbottonarle la camicetta. Isa continuava a piangere di gioia e di dolore. Pensava a tutta quella magnificenza e alle mani nere e callose di Rosario, e a quanto le sarebbe piaciuto se ora al posto di Carmela ci fosse stato lui. Gli avrebbe donato la sua purezza, su quell’immenso letto col baldacchino bianco e rosa. Era nuda. Perfetta. Fuori impazzava il solleone di giugno e lì, in quel vasto bagno fresco e ventilato, Carmela vedeva come l’aveva sempre sognato quel corpo stupendo e desiderato. Le si seccò la lingua, mentre posava il primo dei reggiseni sul petto di Isa. Lei, imbambolata e frignante, lasciava fare.
– Ci facciamo una bella nuotata e poi un buon pranzetto. A proposito, cosa vuoi mangiare?

Isa sembrò tornare in sé in quel momento. Fece spallucce e finalmente un largo sorriso le colorò il volto. Carmela sorrise a sua volta, complice, e le fece cenno di aspettare ; staccò un telefono interno dal bordo dell’immensa Jacuzzi incassata nel pavimento di marmo, premette un tasto e attese, senza distogliere lo sguardo da quel ciuffetto di peluria biondiccia. Dio, cos’era!
– Mari’, che si mangia oggi? – una vocina gracchiò e Carmela cominciò ad annuire, mordicchiandosi le labbra. – Aspetta un momento – disse, e si rivolse ad Isa:
– Ti piacciono gli spaghettini alla pescatora, le oratine… il pesce insomma? – Isa annuì con forza e prese ad indossare un costumino bianco di seta. Carmela approvò con una smorfia di soddisfazione e tornò all’interfono:
– Allora, Mari’, ottimo così. Pronto tra un’ora.

Chiuse la comunicazione. Maria era l’unica donna presente nella proprietà, oltre a loro due; aveva sessant’anni ed era una cuoca superba. Le avevano ucciso il marito e due figli, a Trapani, una mattina di tredici mesi prima. Senza motivo, per una lite da bar. Loro non erano dell’onorata società, ma umili pescatori che si erano sempre fatti i fatti loro. Sua sorella, sposata e residente a Catania, era andata a piangere da Carmela. La giovane boss, conosciuta la storia e avuto il consenso del capofamiglia e del capo mandamento locali, era andata personalmente con tre dei suoi dall’altro capo dell’isola, le aveva regalato la vendetta e se l’era portata a casa. Maria si era dimostrata subito grata e affettuosa come e più di una mamma. Faceva funzionare la casa come un orologio.
Isa era di una bellezza e di un’eleganza indescrivibili. Carmela si spogliò velocemente e finse incertezza nello scegliere uno dei quattro costumi rimasti, per permettere alla ragazzina di ammirare il suo corpo perfetto. Centro! Isa la riempì di complimenti. Carmela, soddisfatta, indossò un Parah nero. Gaie come bambinette, prese per mano, corsero verso la piscina. Si tuffarono mille volte. Fecero belle nuotate ristoratrici, poi si abbandonarono esauste e sorridenti sui lettini accanto agli ombrelloni gialli, vicino al tucul – spogliatoio di legno e frasche. Il costumino bianco di Isa, così bagnato, era diventato trasparente. E Carmela la trovava sempre più golosamente intrigante. Pensava a come corteggiarla con successo, non avrebbe sopportato un suo no. Ma non voleva nemmeno impiegare una vita a conquistare la sua fiducia e il suo cuore. E quel suo corpo divino. Il sole non le aveva ancora completamente asciugate, quando Maria si fece sulla porta della cucina e agitò un braccio nella loro direzione. Carmela, dopo uno schiaffetto sul ginocchio dell’amica, si diresse alle vicine docce esterne prontamente imitata da Isa. Poi entrarono nel tucul, indossarono un ricco accappatoio di spugna e andarono a tavola. Non si era visto un solo uomo in giro. Ce n’erano almeno quindici appostati, ma non se ne scorgeva uno. Ordini precisi del capo. Mangiarono con buon appetito, soprattutto Isa, che non perdeva occasione per fare complimenti alla cuoca e magnificare tutto. Erano due buone forchette. Poi Isa insistette per preparare il caffè personalmente e fu molto fiera del risultato. Andarono di sopra per un riposino. Carmela le assegnò la camera attigua alla sua, dove predominava il turchese tra i colori pastello e c’erano stucchi veneziani al posto della stoffa da parati. Le mostrò il guardaroba. Conteneva ancora pochi capi, ma alle sette sarebbe arrivato un furgone col meglio dei capi taglia 42, regolarmente griffati. Ma questa sarebbe stata una sorpresa. La merce faceva parte di un carico diretto a due negozi del centro, che suo fratello ed altri tre dei ragazzi avevano “dirottato” alcuni giorni prima. Il furto di interi Tir era una delle attività marginali della famiglia. I cassetti con la lingerie invece aveva provveduto lei stessa a stiparli il giorno prima. Andava pazza per la biancheria intima di classe e, naturalmente, aveva scelto per la sua Isa i pezzi più eccitanti. Lasciò volutamente sola la ragazzina elettrizzata e raggiunse la propria stanza. Si sarebbe sciolta da sé mano a mano. Si liberò dell’accappatoio e si allungò languidamente sul letto. Prese un telecomando dal cassetto del comodino e azionò l’oscuramento delle vetrate blindate. Prese un altro telecomando e, magicamente, le tende si aprirono e un video wall apparve sulla parete di fronte; e nello schermo di due metri per uno e cinquanta apparve Isa che si provava, civettuola, alcuni capi di biancheria davanti al grande specchio della sua stanza. C’erano sei microcamere ad alta definizione disseminate nella stanza della ragazza. Carmela se la godette per un po’, poi rimise a posto le tende e cominciò a toccarsi. Dedicò l’orgasmo alla piccola Isa. Circa mezz’ora dopo, il suo pisolino venne interrotto da una telefonata di lavoro. Mezzasalma, da un cellulare coperto, la chiamò al numero tre: aveva dodici cellulari, numerati ed intestati a persone insospettabili; a seconda del settore, i suoi vice avevano un numero solo per entrare in contatto diretto con lei, quello. La notizia era pesante: una squadra dei ROS aveva scoperto il covo di suo fratello Antonino e sarebbero andati a prelevarlo all’alba. Lei disse semplicemente: OK, e chiuse. Antonino sarebbe arrivato alle sette col carico dei vestiti, l’avrebbe nascosto alla villa. Chiamò Valenti e gli ordinò di ripulire il rifugio di suo fratello a Catania.
– Vale’, naturalmente ci stanno le baby sitter che fanno il loro lavoro. – disse a conclusione. E Valenti capì che la casa era sotto controllo degli sbirri. Si sarebbe regolato. Carmela sapeva che poteva fidarsi della perizia e dell’esperienza di Valenti e considerò la cosa fatta. Indossò un kimono bianco di seta e andò a rinfrescarsi il viso. Dal bagno comunicante udì il canto melodioso di Isa, aveva una vocina splendida e intonata. Bussò alla porta, blindata, che divideva i due locali, poi senza indugio posò la sua mano aperta sul calco della sua stessa mano: era il terzo da destra in mezzo, tra i ventuno calchi che ornavano la parte laccata della porta, e questa magicamente e silenziosamente cominciò a scorrere. Si poteva aprire soltanto così. Si trovò davanti la ragazza, sorpresa e intenta a coprirsi alla meglio. Stava provando qualche abitino davanti alla grande specchiera. Quando vide che si trattava della padrona di casa, Isa si rilassò e si misero a ridere contemporaneamente. Carmela la pregò di continuare, si accomodò sul divanetto di midollino laccato bianco, tra due giganteschi ficus, e giocarono alla sfilata. Molto, molto eccitante. Anche Isa, infine, indossò un kimono simile a quello che portava lei, nero con ideogrammi rosa, e passarono il resto del tempo a chiacchierare sul letto di Carmela. La ragazzina si aprì e sfogò colla nuova amica un po’ dei suoi crucci. L’altra ascoltava interessata e preparava il suo piano d’attacco. Intorno alle sette, il cicalino informò che c’erano visite. Mandò Isa a vestirsi per la cena, col telecomando regolò l’intensità dell’aria condizionata, indossò jeans e Lacoste in tinta e scese. Era arrivato Antonino coi vestiti. Fece portare gli stander carichi in camera sua e si appartò col fratello. Antonino, un giovanottone di trentuno anni bello e massiccio, ascoltò con irritazione. Il suo colorito olivastro e già abbronzato dal sole marino, sbiancò per la rabbia. Lei lo riportò alla calma, ora paziente, ora aspra. Non sarebbe stata la fine del mondo scomparire per qualche tempo. Le acque si sarebbero chetate. Gli affari prosperavano e lui se ne sarebbe stato tranquillo al coperto, fintanto che gli uomini non avessero preparato un altro rifugio sicuro per lui in città. Alla villa non c’era nulla da temere, da parte degli sbirri almeno: Carmela era incensurata, come il fratello, e loro non sospettavano nemmeno che fosse addirittura un boss. Anche la copertura eccellente, che la dava come azionista di svariate aziende nazionali e internazionali, tutte floride e in espansione, la preservava da sospetti e visite inaspettate. Cenarono insieme sulla terrazza e anche Antonino rimase piacevolmente colpito da Isa. Dopo cena, gustarono una copia regolare di un film appena uscito nelle sale e a mezzanotte si ritirarono. Isa baciò con affetto e gratitudine la sua amica, davanti alla porta aperta della sua stanza. Carmela ricambiò l’abbraccio, ma decise di non andare oltre. Fu dura prendere sonno, a pochi metri da quel corpo da favola. Ricacciò più volte l’impeto di andare nell’altra stanza. La ragazzina le era entrata nel sangue, ma sarebbe stato prematuro e rischioso farsi avanti ora. L’avrebbe spaventata. L’avrebbe perduta per sempre. Provò a guardare una cassetta lesbo, di solito la eccitava e pensava lei a calmarsi. Si frugò quasi con rabbia e venne in maniera quasi dolorosa. Finalmente crollò. Sogni agitati. La mattina dopo, impartiti alcuni ordini, andò a sfogarsi in piscina. Venne raggiunta, intorno alle dieci, da una Isa preoccupatissima: non sapeva se si sarebbe dovuta presentare prima, né quali fossero i suoi doveri.
– Che devo fare? – chiese, maltrattandosi le mani, ritta sul bordo della piscina. Quella sortita rimise Carmela di buon umore. La guardava sputacchiando l’acqua che le entrava in bocca, tenendosi a galla con un leggero stile rana:
– Cosa devi fare?! Intanto, levati subito quella roba e metti un costume.
– E poi?
– E poi, niente. Vieni a farti una nuotata.
– Ma io… Il mio lavoro qual è? Che devo fare?
– Esistere. – scandì Carmela e si inabissò. Isa restò incerta e ammutolita, senza muovere un solo muscolo, finché Carmela non riemerse e le spruzzò dell’acqua addosso, ridendo.
– Allora?! Vuoi fare notte lì? Vai a metterti un costume… o buttati nuda. Dài!

Isa, come in trance, entrò nel tucul e ne uscì col costume bianco del giorno prima. Nuotarono, fecero la doccia, giocarono maldestramente a tennis scalze e scarmigliate. Passeggiarono fino al maneggio, poi fecero una breve gara di corsa fino alla piscina. Fecero un’altra doccia tra le risate e salirono in terrazza per il pranzo. Carmela era raggiante, le avevano comunicato persino l’esito positivo di un grosso affare che aveva in ballo da mesi, a Milano. Isa viveva quelle ore come sospesa, sempre in preda a una specie di vertigine. Ancora non si rendeva pienamente conto della “fortuna” che le era capitata. Sul tavolo troneggiava un secchiello d’argento imperlato, col ghiaccio e una bottiglia di Tattinger appena stappata. Carmela riempì i due bicchieri. Antonino stava a un altro tavolo con alcuni dei ragazzi, oltre un’alta siepe di rosmarino e alloro piantati in mezze botti di rovere, anche loro festeggiavano. Il bel fratellone aveva avuto l’ordine di distribuire a tutti un cospicuo soprassoldo. I soldati mangiavano in una sala apposita, oltre la dispensa. Erano sole. Isa non si abbandonava ancora.
– Brindiamo! – fece allegra Carmela, facendo tintinnare i calici. Isa assunse un’espressione della bambina sorpresa a combinare qualche marachella e bevve un sorso, strizzando gli occhi e arricciando il delizioso nasino:
– Buono! – ammise. Poi fece un ampio gesto colla mano:
– Ma… tutto questo… Non so… Cioè… Se poi mi vuoi dare anche tutti quei soldi di… di stipendio che hai detto… Non riesco a rendermene conto. Non capisco… Questo non è un lavoro, è meglio di una vacanza da ricchi. Non lo capisco…

Si portò i pugni sotto il mento, poggiò i gomiti sul tavolo e attese, guardando la sua ospite. Carmela si pulì le labbra, bevve un altro sorsetto di champagne e agitò le palme aperte davanti al viso:
– Non c’è proprio niente da capire. – disse – E’ così semplice… Io sono molto ricca… E molto sola. Non ho amiche. Tu mi piaci, sto cominciando ad affezionarmi… Niente… Voglio fare qualcosa per te, in cambio della tua amicizia, del tuo affetto, e della tua… fedeltà. Ti sembra strano? Per me non è strano. Tutto questo… Tutto il resto che ho… è inutile se non lo divido con qualcuno. Lo voglio condividere con te. Tutto qui. E adesso mangia i gamberoni ché sennò si freddano e diventano uno schifìo. Anzi, attenta a me, guarda come si fa… vedi? Devi togliere questa schifezza, questa strisciolina nera che hanno sulla schiena. Questa è la cacca… mi capisti?
– Non ci posso credere! – ridacchiò Isa, alle prese con un bel gamberone arrosto. Scuoteva la testa, toglieva la strisciolina con l’aiuto di un coltello, rideva in silenzio e ripeteva:
– Non è possibile… Non ci posso credere mai! –
Dopo il secondo gamberone, si accorse che Carmela la fissava soddisfatta. Come un genitore che gode della soddisfazione del proprio bambino per aver appena ricevuto un bel regalo. La fissò anche lei e le domandò a bruciapelo:
– Ma perché dividere questo con me e non con un uomo? Tu sei bellissima, intelligente, ricca, allegra… Puoi avere tutti gli uomini che vuoi… possibile che non hai un ragazzo?
– Mangia! – Non parlarono più per tutto il pranzo. Isa era certa di aver toccato un tasto dolente e non ebbe il coraggio di approfondire. Forse una forte delusione, pensò, forse… Ma non era affar suo. Carmela si immerse nei suoi pensieri e lasciò quasi tutto nei piatti.
L’atmosfera si rasserenò subito dopo il caffè. Che preparò Isa e porse all’amica, accompagnato da una carezza solidale ai suoi capelli ancora umidi. Carmela abbozzò un sorriso triste e ricambiò sfiorando il braccio della ragazzina. Poi la prese per mano e se la portò in camera sua, lasciandola allibita: dai sei stander di due metri ciascuno pendevano gli abiti più belli che avesse mai visto. Corse al bagno a lavarsi i denti, tornò, e la ragazza stava ancora come l’aveva lasciata, in trance.
– Sono tutti nostri. – le disse, accoccolandosi sul letto. – Provateli e scegli quelli che ti piacciono di più. Isa si fece scivolare l’accappatoio e cominciò a perlustrare su e giù l’esposizione. Aveva un culetto alto e sodo da brivido e i seni colla punta rivolta verso il cielo. Si cominciava a notare il segno del costume sulla pelle ambrata. Man mano che l’estemporaneo show room andava avanti, Carmela continuava a bagnarsi sempre di più. Ora Isa era nuovamente nuda e stava scegliendo un altro capo. Carmela era al culmine. Scivolò fuori dall’accappatoio e si appiattì sul letto a pancia sotto e dimenando piano il culetto. La voleva, la voleva, la voleva! Sfregò il clitoride gonfio contro una piega del lenzuolo.
– Basta ora. – mugolò col viso schiacciato contro il lenzuolo di lino. – Vieni qua, fammi un massaggio alla schiena.
Isa le aveva detto il giorno prima di essersi appena diplomata a un corso di massaggio estetico. La ragazza, felice di poter essere utile, corse a lavarsi le mani. In bagno, scelse una crema adatta e tornò di corsa. Rimase ancora una volta interdetta: Carmela ora era sul dorso, gambe larghe e ginocchia sollevate, e si stava masturbando furiosamente.
– Che fai lì? – il suo tono era roco e imperioso. – Avvicinati. Qui! Vieni qui! – Le tese la mano libera. Isa, ingobbita, scosse la testa incredula e fece dei passetti indietro.
– Avanti! Che aspetti? Non ti mangio mica… E’ una cosa bella. Vieni qua. Ma insomma… – Visto che quella stava impalata contro il pesante tendaggio del muro, scese dal letto e andò a prenderla. La trascinò a forza, la sdraiò e le fu addosso, bloccandola col suo peso, cercando famelica la sua bocca.
La maschera non aveva retto. La maschera era caduta. Carmela era una persona nuova e terribile, una persona che faceva paura e annichiliva la povera Isa. Le ficcò prepotentemente la lingua tra le labbra e prese a mulinarla. Contemporaneamente, le ficcò due dita nella fighetta, ma era asciutta e le fece male. Isa si divincolava come poteva, per puro istinto di conservazione, ma la forza di Carmela era la forza di un bruto infoiato. Carmela scese a leccare quella fica agognata, ma si beccò una ginocchiata sul naso. Rimasero entrambe per un attimo bloccate: Isa perché la sua era una mossa fortuita e non voluta, stava solo cercando di divincolarsi; Carmela perché non si aspettava una risposta tanto irruente ed irriverente. Si fissarono ansanti per un lungo momento. Gocce di sangue rosso, quasi nero, caddero sul lenzuolo candido. La boss ridivenne tale. Una belva impazzita. Andò in bagno senza levare gli occhi di dosso alla preda, mise una salvietta sotto l’acqua fredda e se la pressò sulla nuca, tenendo la testa rovesciata all’indietro. Sempre colla testa piegata, si avvicinò alla Jacuzzi e sollevò la cornetta del telefono interno:
– Antonino. Lo voglio subito da me! – ordinò. L’interlocutore gracchiò qualcosa, ma lei fu perentoria: – Non me ne frega un cazzo se è in piscina! Lo voglio qua ora. Subito!
Isa, raggomitolata su se stessa, piagnucolava tremante:
– Rosario… Rosario mio… che mi ficero? Che mi vogliono fare?

Due minuti dopo, bussarono alla porta della stanza. Carmela andò ad aprire e si trovò suo fratello di fronte, in slip da bagno, intento ad asciugarsi. Lo fece entrare e gli indicò la ragazza sul letto. Richiuse la porta a chiave.
– Prima ti sei fatto il bagno tu, mo’ fai fare un bagno al tuo biscotto. Ti piaceva, no? Fottila!

Antonino, imbarazzato, prese a sfregarsi la testa con più vigore. Sua sorella andò in bagno per lavarsi via il sangue dal naso e dal petto. Indossato il kimono, si guardò allo specchio e si ravviò nervosamente i capelli. “Stronza!” sibilò. Tornata in camera, spinse vigorosamente il ragazzo verso il letto.
– Avanti! Che aspetti?! Mi diventasti frocio? Fottila! Fottila sta stronza!

Isa cercò di coprirsi col lenzuolo e, tenendo un braccio proteso, implorava:
– No! Questo no!… Vi prego… Ma che vi fici? Ti prego, Carmela, sono vergine… Sono ancora vergine!
Antonino recuperò padronanza e sorrise in modo cattivo. I suoi slip azzurri si tesero sul davanti. Se ne liberò velocemente usando entrambe le mani e si sdraiò sulla ragazza. La poveretta provò ancora a dibattersi, ma il giovane era duro; inoltre Carmela la teneva saldamente per i polsi. Non riusciva a penetrarla: troppo asciutta e non stava ferma un secondo. La sorella imprecò e gli ordinò di tenerla lui per le braccia, lei scivolò ad immobilizzarle le gambe. Passò le sue braccia forti sotto il bacino di Isa e la tenne ferma:
– Ora te la preparo io. – disse, e prese a leccarla. Soddisfatta, anche perché la resistenza della ragazzina si era fatta sempre più debole, si impegnò per parecchio tempo in quell’attività che aveva sognato per mesi e mesi. Quando cominciavano a farle male le mandibole, tornò ad occuparsi dei polsi. Questa volta Antonino la infilzò al primo colpo. L’urlo lacerante non venne inteso da nessuno al di fuori di quella stanza. Tutta la casa era blindata ed insonorizzata, ma anche se non lo fosse stata nessuno avrebbe “sentito” niente. Il sacrificio avvenne molto rapidamente. Il giovane sgusciò appena in tempo, alcuni schizzi di sperma raggiunsero addirittura il viso di Isa e il seno di sua sorella. Anche lui si teneva quella voglia in canna da tempo. Adempiuto il suo compito, Antonino venne immediatamente congedato. Carmela, seduta sul letto, prese a carezzare i capelli di Isa e con tono suadente la rimproverò:
– Vedi? Mi hai costretto a diventare cattiva. Io non volevo… Io ti amo… Non voglio farti del male. Isuzza…Mi credi? Io ti amo e voglio farti felice. Voglio vederti felice. Ti voglio coccolare e voglio che tu fai un poco felice a me. Lo so che adesso mi odi… Per quello che ti ho fatto. Ma pensaci… Pensa quanto stai bene con me se fai da brava…

Isa non aveva più lacrime. Il bruciore tra le gambe era nulla se confrontato col bruciore che sentiva all’altezza del cuore. “Perché a me?” si chiedeva. “Che ho fatto io di male? Che ho fatto a questa gente? Voglio morire.” Tremava come una foglia e gemeva piano.
– Perché mi respingi? – continuò Carmela? – Non sono bella? Non ti piaccio? Pensa a come possiamo essere felici. Non ci faremo mancare niente… Ti chiedo solo di essere dolce con me. Soltanto un poco di dolcezza… La prima volta che farai l’amore con me e mi farai soddisfatta, ti intesto una bella casa a Catania. Così ci mandi ad abitare la tua famiglia e la togli da quella catapecchia. Promesso… Sei contenta?

Si avvicinò alle sue labbra, ma Isa si ritrasse schifata e impaurita. Carmela le mollò un poderoso manrovescio:
Ahn! Ma allora non capisci! Non vuoi capire allora! Ora mi hai rotto i coglioni! Vedrai che ti domo. Ci puoi giurare che ti domo!
Indossò jeans e maglietta e uscì, chiudendola dentro. Prima chiuse il pannello colla rastrelliera che conteneva i cellulari e disattivò gli apparecchi normali. Isa era prigioniera. Carmela raggiunse di buon passo il maneggio, calzò giusto un paio di stivali e dei guanti leggeri e si sfogò con una lunga galoppata. Poi fece una doccia e dedicò un po’ di tempo agli affari. Cenò col fratello, al quale ordinò di tenersi a disposizione e, anche se superfluo, gli intimò di glissare su qualunque argomento riguardasse la ragazzina. Sapeva bene che tra uomini… Giocò un po’ a biliardo coi ragazzi e, intorno alla mezzanotte, tornò in camera sua con una tazza fumante di buon brodo ristretto. Il brodo l’aveva preparato Maria, lei aveva solo aggiunto una sostanza che avrebbe ammorbidito un puledro da rodeo. Era una specie di Valium non in commercio in Italia. Trovò Isa sotto le lenzuola, gli occhi sbarrati e in preda al tremore.
– Bevi questo, ti farà bene. Maria ha detto che se mangi, agitata come sei, rivedi tutto. Questo ti farà bene e ti tirerà un po’ su. Forza… giuro che non ti tocco. Se non vuoi, ti lascio in pace. Avanti!
Le porse la tazza. Isa, seppur riluttante la prese e mandò giù l’intero contenuto. Poi ricadde e si coprì. Batteva i denti.
– Voglio tornare a casa mia. – riuscì ad articolare. Fece una smorfia di dolore e ripeté la frase.
– Ti fa male… lì? Appena starai meglio, te ne potrai andare. Adesso fammi vedere dove ti fa male. – la scoprì. La ragazza non si era neppure lavata. Non si era proprio mossa dal letto. Carmela chinò il capo di lato e le sorrise:
– Andiamo a darci una lavata, su… Ti do un buon sapone intimo, che ti disinfetta e ti passa tutto. L’aiutò ad alzarsi e la sorresse fino al bidet. Isa era docile come un agnellino. La pozione cominciava a fare effetto. La pupilla era dilatata. Praticamente la lavò lei. Con grande piacere. La riportò quasi di peso sul letto e stette un po’ ad ammirarla. Si avvicinò per controllare i danni: le allargò le grandi labbra, ma non vide niente che non andasse. Non aveva perso nemmeno sangue. Isa era come tramortita. Decise di approfittarne e si mise a leccarla dolcemente. Nonostante non provocasse nessuna reazione nella ragazzina, lei si era bagnata tutta. Salì e si mise a cavalcioni sul viso di Isa. Le strofinò la fica sulla bocca semiaperta.
– Tira fuori la lingua… leccamela. – le disse piano. Isa eseguì, come un automa. Visto che funzionava, Carmela cambiò posizione e diede via ad un sessantanove. Estenuante. Piano piano, la fighetta di Isa cominciò a cambiare odore e sapore: si stava bagnando di piacere. Carmela ebbe un orgasmo violento, ma fu costretta ad aiutarsi colle dita. La lingua della ragazzina era meccanica e monotona. “Le avrebbe insegnato lei…” Finalmente, anche Isa ebbe il suo bell’orgasmo. Strinse le cosce e agitò i piedi in su e in giù. Ebbe un sospiro di piacere che fu musica per le orecchie di Carmela.

La storia andava avanti da oltre un mese ormai. Solamente una volta, smaltito l’effetto della sostanza, Isa si era ribellata e Carmela aveva deciso di punirla facendola stuprare ancora da Antonino. E questo era bene che accadesse quando la ragazzina era ben lucida: se ne sarebbe ricordata. Ultimamente, Isa, volente o nolente, aveva avuto parecchi orgasmi durante le sollecitazioni della lingua e delle dita di Carmela. La boss, peraltro, aveva provveduto a tranquillizzare la famiglia di Isa ed a fargli pervenire una busta con cinquemila euro e un biglietto della ragazza. Biglietto scritto sotto effetto della solita sostanza. Arrivò una telefonata da un altro dei suoi vice: c’era bisogno della presenza di Carmela ad un summit che si sarebbe tenuto a Palermo, la settimana successiva. La boss organizzò meticolosamente la trasferta. Chiamò anche “U Lebbrosu”, un pappa che le doveva un favore, e gli ordinò di farle trovare una bella ragazzina nuova e disponibile, nella casa che avrebbe costituito il suo rifugio durante la permanenza nella capitale. “Contaci.” Fu la risposta dell’uomo. “Sempre a disposizione.”
Aveva bisogno di una fighetta attiva e consapevole. Questa gatta morta la stava annoiando. Non c’era più traccia d’amore in lei. Se amore era stato e non solo desiderio di possesso. Otto giorni dopo, partì per Palermo. Si portò solamente due uomini di scorta, non voleva dare nell’occhio. Partirono appena buio e arrivarono prima di mezzanotte. Aveva lasciato Antonino a guardia di Isa, con disposizioni precise. Se la scopasse pure a volontà, ma lei non avrebbe mai dovuto lasciare la stanza. Davanti al motel Conca d’Oro trovarono l’auto civetta ad attenderli. A bordo, due uomini che fecero appena un cenno di saluto e partirono. Fecero strada fino a una masseria diroccata, in aperta campagna, che sembrava abbandonata da tempo. Naturalmente non era così: dentro era tutt’altra cosa. U Lebbrosu era già lì per rendere omaggio alla boss. Consegnò una cassa di Tattinger a uno dei suoi uomini e a lei disse in un orecchio che il pensierino era già in camera. Salutò con reverenza e scomparve, accompagnato da uno degli uomini del posto. L’altro uomo rimase a disposizione e mostrò a Carmela delle luci oltre l’aranceto: era l’altra masseria dove avrebbe avuto luogo la riunione del giorno dopo. Trecento metri, non di più. I tre uomini si sistemarono all’inizio dell’ala abitabile, mentre a Carmela fu indicata la camera padronale, in fondo al corridoio. Lei aprì la porta con una certa emozione. Trovò una stanza moderna e confortevole. Chiuse la porta blindata e si guardò in giro: non vedeva nessun pensierino. Il letto era intatto e cambiato di fresco. Stava già per essere assalita da un’ondata di stizza, quando una pesante tenda si aprì e lasciò passare due splendide creature. Viva l’abbondanza! Una negretta stupenda sui diciotto e una biondissima ragazzina slava avanzarono verso di lei. Indossavano soltanto biancheria intima di gran classe e profumi adeguati. U Lebbrosu la sapeva lunga. La biondina andò a baciarle le mani e le disse, in un italiano quasi corretto, che erano in due perché lei potesse scegliere a seconda dell’umore e del desiderio. Carmela fece una risatina e le disse:
– Perché scegliere? – passò il resto della notte a farsi coccolare. Per quanto ne sapeva, avrebbe dovuto trattenersi almeno tre giorni. Hai voglia!

Antonino, in bermuda amaranto e canotta nera, aprì la porta della camera di Carmela con una mano, con l’altra spingeva un carrello carico di cibarie, sui due ripiani, ed un secchiello con ghiaccio e Tattinger. Erano da poco passate le nove di sera. Sua sorella mancava da due giorni ed erano due giorni che lui trasgrediva ai suoi ordini: non aveva più drogato la bella Isa. Non l’aveva più sfiorata. Aveva riservato il piacere a quella sera: la voleva ben sveglia. Era un bel ragazzo, cazzo! Le donne morivano per lui. Come poteva questa respingerlo e fare la smorfiosa?! Lei lo accolse piangendo. Cominciò ad implorarlo affinché la lasciasse tornare a casa sua.
– Perché no? – convenne lui: – Basta che la smetti di piangere e di fare la stupida. Siamo nel 2000 e tu fai ancora tante storie per una ficcata! Tu fai l’amore con me, bene… Ci divertiamo e, quando mi fai contento, se vuoi te ne puoi anche andare.
Lei parve rifletterci sopra. Antonino, che scemo non era, provò a sciogliere i dubbi della ragazza:
– Di che hai paura? Questa volta non ti voglio violentare. Carmela non c’è… Ah, ah! Certo che l’hai fatta proprio incazzare a mia sorella! Ma io sono diverso. Lei quando s’incazza senza cuore diventa. Io no… Se tu collabori, sarà bellissimo e piacerà molto anche a te. Vedrai. E nessuno ne saprà mai niente.
Mentre parlava suadente, il giovane apparecchiava il tavolino accanto al paravento cinese. Si misero a mangiare e lui fu servizievole e tenerissimo. Lei rifletteva in fretta. Quei pochi attimi di lucidità doveva sfruttarli a fondo. Decise di cedere. Avrebbe preferito ucciderlo. O morire. Ma bevve mezza bottiglia di champagne e fu pronta al sacrificio. Accettò persino di prenderglielo in bocca e di seguire tutti i suoi consigli per fare un pompino di gran livello. Era ubriaca persa e nulla aveva più importanza. “Finisci presto.” Pensò.
Avrebbe rivisto i suoi. Avrebbe presto rivisto Rosario e l’incubo sarebbe finito. Se ne sarebbero scappati all’estero, magari. Lontano. Non avrebbe più voluto avere niente a che fare con quella gente. Il ragazzo la stantuffò a lungo e poi finalmente le venne sulla pancia e sul seno. Le spalmò ben bene lo sperma sulla pelle vellutata e la invitò la leccarglielo per bene. Lei eseguì. Naturalmente, una volta soddisfatto, Antonino si preparò ad andarsene, lasciandola con un palmo di naso. Ma lei era risoluta, doveva solo conquistare un po’ della sua fiducia, poi gliel’avrebbe fatta pagare. A Tutti e due. Gli sorrise e , prima che lui chiudesse la porta, gli chiese:
– Lo facciamo anche domani? Avevi ragione tu, così è diverso. Così mi piace.
– Lo vedi? – le strizzò l’occhio e uscì soddisfatto. Una volta chiusa la porta, lei fu presa da una furia incontenibile. Cominciò a buttare all’aria tutto quello che le capitava. Finalmente le venne l’idea giusta. Uscita dalla doccia, trovò quello cercava: un pesante sottovaso di marmo. Era un po’ più grande di un piatto e bello pesante. La mattina successiva, vestita come il giorno che aveva messo piede in quella casa maledetta, aspettava che Antonino arrivasse con la colazione. Aspettava dietro l’uscio, col sottovaso ben stretto tra le mani. Lui non si accorse di nulla. Un colpo secco, un rumore sordo, e il giovane si accasciò senza nemmeno un gemito. “Spero di averti ammazzato.” Pensò freddamente Isa e, con molta cautela, uscì dalla casa.
– Attraversò il retro del giardino e si diresse, quasi senza respirare, verso il boschetto. Riuscì non si sa come a non essere vista da nessuno. Salendo sopra un vascone rovesciato e reggendosi ai rami di un vecchio olmo, riuscì a scavalcare l’alto muro di cinta. Era fatta. Rischiò di rompersi le gambe nel salto, ma riuscì ad ammortizzare bene il peso del corpo. Due ore dopo era tra le forti braccia di Rosario. Lui ebbe non poco da combattere per convincere il suo datore di lavoro a lasciarlo libero per il resto della giornata, alla fine la spuntò. Salirono sulla vecchia vespa e si allontanarono verso il mare. Lungo la strada, Rosario si fermò per comprare dei panini e delle bibite fredde. Una volta sulla litoranea, prese per un sentiero che portava alla caletta rocciosa che conoscevano in pochi ed era quasi sempre deserta. Nessuno. Isa gli raccontò tutto, tra le lacrime. Piansero a lungo tutti e due. Ricompostisi, fecero l’amore per la prima volta. E fu bellissimo. Il posto era completamente deserto, tranne una barchetta al largo, così i ragazzi decisero di fare il bagno nudi. Si asciugarono al sole e mangiarono i panini. Avevano deciso, di comune accordo, di tenere la bocca chiusa. Conoscevano i rischi. Però se ne sarebbero andati da quel posto di merda. Al più presto. La madre di Isa si ammalò gravemente e il progetto venne rimandato, almeno sino a quando non si fosse ristabilita.

Quasi due mesi dopo, migliorata la salute della madre e rimarginate un po’ le ferite dell’anima, Isa stava uscendo da un cinema del centro con Rosario. Ancora ridevano per il finale comico del film appena visto. Erano allegri e spensierati e non si accorsero di una potente auto che frenò e per poco non li investì. Per loro, distratti e troppo presi dalla loro intimità, fu una cosa da nulla, giusto un “vaffanculo” del ragazzo all’indirizzo dell’autista. Ma dietro i vetri azzurrati della Lancia Thema lo sguardo assassino di Carmela li incenerì. La boss si era accorta di essere nonostante tutto ancora innamorata di Isa. Molto più di prima. Di notte ci piangeva. Non l’aveva fatta cercare perché ne avrebbe sofferto lei per prima. Ma quello smacco non lo tollerava. Preferire a lei quel cogghiunazzu! Strinse forte le mascelle, mentre i suoi occhi a fessura seguivano i due innamorati attraverso il lunotto posteriore.

Il venerdì successivo, un cadavere con la testa spappolata dalle pallottole venne trovato in una discarica abusiva di periferia. Il cadavere venne riconosciuto dai famigliari ed era quello di un giovane incensurato. Non aveva mai avuto nessun legame con la malavita. Un bravo ragazzo come tanti, gran lavoratore senza grilli per la testa. Era il corpo di Rosario Friccicanò. La polizia brancolava nel buio. Il commissario Crocitti ci aveva lavorato sopra anche quella notte. Niente. Buio. Crocitti era il miglior investigatore della Sicilia. Nessuna traccia. Nessun indizio. Buio. Disfatto, Crocitti alle nove del mattino stava lasciando l’ufficio per fare ritorno a casa; non si reggeva in piedi. Non fece nemmeno caso a quella ragazza che aveva quasi travolto sulla porta della questura. Eppure era una bellissima ragazza, anche se disfatta dal pianto. Somigliava in maniera impressionante a Claudia Cardinale giovane.

cavallona

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La stampa oggi… deprimente

Apri i giornali e vedi che esistono ancora i pirati. E rapiscono marinai italiani! Ma dove cazzo sono Tremal-Najk e Sandokan? Ma chi l’ha scritto questo film nel 2009? Ma soprattutto: chi cazzo ha messo due ebeti come burlesquoni e frattini al posto degli eroi della mia gioventù?
Una coppia di spostati tedeschi, pure giovani, va ad Aosta a mangiare la pizza… come il mondo sa, è ad Aosta che si deve mangiare la pizza. A Napoli, semmai, ci vai per gustare la fonduta… accompagnato da Apicella che fa tintinnare il suo sonaglio. PerBach! Lo sanno tutti. Ma questi due non vanno da soli, naaaaa: ci vanno coi tre figlioletti di lei. Dice la mammina: «Non potevamo sfamarli, così li ho abbandonati». Giustamente. Mica da un ciabattino, li hanno mollati in una fornita pizzeria! Poi, dicono “Usciamo a fumare” e spariscono. Non hanno pagato il conto, ma hanno lasciato una sontuosa mancia: tre bambini! Potevano farsi dare il resto in capperi e acciughe. Mollano i bambini e scappano. E come scappano? Con un’Apixedda!!! Minca. Bonnie & Clyde si staranno rivoltando nella tomba. Ibra vuole mollare l’Inter: “Voglio provare qualcosa di nuovo” dice. E c’è bisogno di scappare? Trombati la de filippi e il suo moglio: come fanno tutti quelli che vogliono fare carriera in tv e al festival di Sanscemo e non rompere i coglioni all’uomo moderno!
Marchionne litiga col commissario Ue, Verheugen… Ma come cazzo fai a litigare con uno che si chiama come una minaccia pesante?! Quello, già come si presenta: TI SPETTINA!
Minorenne ucciso, in due in manette:
«Accoltellato e sepolto in giardino»
Due italiani hanno ucciso malamente questo ragazzo croato e sono stati arrestati. Giustamente. Primo, perché non sono rumeni. Secondo, perché hanno seppellito la vittima in giardino. Ben gli sta! Se lo seppellivano in salotto, non li avrebbero mai presi. Certo… sarebbe stato un lavoraccio: smontare il pavimento in cotto, scavare, seppellire, riptistinare le mattonelle, pulire, lucidare… No, no. Meglio che li abbiano catturati. Almeno si riposano.
Ancora sangue e attentati in Iraq:
bombe in una moschea, 60 morti

Muoiono come le moschee in quel cazzo di Iraq. E poi l’assassino era Saddam…
Ma anche in Abruzzo non scherzano: Nuove scosse Grasso: vigilare sulla ricostruzione. Speriamo che non ricostruiscano come avevano costruito. Magari finisce di crollare tutto in pieno G20 e speriamo che burlesquoni venga beccato dai crolli senza il casco da scemo. Almeno gli sfollati saranno in pari. E l’Italia si potrà finalmente rialzare.
Napolitano, nuova difesa della Carta «Resistenza vive nella Costituzione»
Beh, bossi e burlesquoni ci si puliscono il culo con la bandiera, figuriamoci con la Carta. Ma che vuoi difendere? Riempila di vetrini!
A Vigevano, sacrestano con svastica, la diocesi: pronti ad agire.
Ad agire come? Deporteranno a Dachau tutti i bigotti?
A Frosinone, Ragazzino si lancia da una finestra
della sua scuola al terzo piano: morto. Morto? Cazzo… strano!
E pensare che fino a un metro dal suolo non si era fatto un cazzo.

Amici, e questo era solamente il Corriere della serva!!! Ma come cazzo li fanno i titoli questi qui?

titolisti1

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Francesco Cosfiga

1
LUCIO SALIS © Copyright 1994
LUCIO SALIS
LEI NON SA CHI
SONO STATO IO
Storie vere di ex uomini illustri, raccontate dalle loro zie
2
3
CAPITOLO PRIMO
FRANCESCO COSSIGA
4
Per lui, IL MEDITERRANEO E’ UN LAGO SARDO…
Il giudice Carnevale era un grande, mentre i giudici coraggiosi
e onesti erano “ragazzini” o gente “campata in aria”. Purtroppo è morta… saltando in aria.
Per lui, Mastella e Casini sono dei politici, Berlusconi è un imprenditore,
Papà Natale esiste e Andreotti meritava di diventare senatore a vita.
Lui parla di fetore, alludendo a Prodi, mentre il suo stesso naso impazzisce perché
non tollera di stare lì, fissato a quella faccia.
FRASI CELEBRI:
” In Italia non ci sono due Presidenti della Repubblica.
C’è un solo Presidente e sono io. O, almeno: così mi ha detto Andreotti…”
F.Cossiga
(Riferendosi a Craxi nel Dicembre 1990)
5
PROLOGO
Ora che sono passati molti anni dalla Presidenza di mio nipote,
posso finalmente dare sfogo alla VERITA’. Ho quindi deciso di dare
alle stampe questi miei appunti scritti in epoca non sospetta.
Devo, prima di tutto, ringraziare mio padre Bachisio (il “nonno pastore”
di cui ha parlato una volta in Inghilterra mio nipote Chicchinu (Francesco),
facendo anche una figura da provinciale… *poteva dire cow-boy) per avermi
permesso di utilizzare i suoi appunti e per avermi aiutata a ricostruire
la figura e l’opera di mio nipote. Per la figura ho impiegato due anni,
per l’opera due ore.
Tanto per cominciare mio padre non è mai stato pastore. Protestante sì.
Tant’è che ancora protesta sempre e non gli va mai bene niente.
Buon sangue non mente.
Per la verità, quand’era ancora giovane, sui settantacinque anni, e Chicchinu
era un frugoletto di quattordici anni, nonno Bachisio, così chiamerò d’ora in
avanti mio padre, aveva deciso di comprare delle pecore…
Dovete sapere che a quel tempo, in Sardegna, le scuole erano poche e la fame
tanta, (come oggi) perciò ogni padre, ogni nonno, ogni fratello maggiore,
non vedevano l’ora di mandare
i maschi piccoli della famiglia a custodire le greggi.
La pecora è la più grande industria della Sardegna (anche noi abbiamo
i nostri… agnelli! Questa battuta è di Previti. N.d.Z.); e poi ancora non c’era
la televisione a rubare preziose braccia all’agricoltura e alla pastorizia.
Più che tronisti proni davanti a Lele Mora, c’erano belle more che avizzivano
in casa e in chiesa aspettando per mesi il ritorno dei mariti.
Così, mentre tutti i coetanei del nostro ex Presidente erano costretti a custodire
le pecore, nonno Bachisio era stato costretto a comprare alcune pecore
per custodire Chicchinu. In questo modo, Chicchinu non era più solo.
Le pecore guardavano lui e lui guardava le pecore. Si guardavano per tutto il
giorno ed era molto bello. Non succedeva assolutamente niente.
Sembrava una riunione di Forza Italia quando non c’è il loro capo.
Forse era un presagio, chissà , un segno del destino.
Forse proprio allora mio nipote pensò di darsi alla politica.
Ma procediamo con ordine.
Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
6
Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
7
USI E COSTUMI
La Sardegna, è noto, vanta una civiltà remota.
Oltre seimila anni fa, mentre in tutto il mondo il massimo della residenza era “la grotta”, i sardi
inventarono i NURAGHI.
Da cui i milanesi copiarono il panettone.
Le grotte erano fredde e umide e infestate da ogni sorta di animali.
I nuraghi, si scoprì ben presto, erano freddi ma umidi. E infestati da ogni sorta di animali.
Ma i sardi, che erano astuti, lasciarono gli animali nei nuraghi e loro si adattarono a dormire fuori.
Davanti al fuoco, ma senza rompere i coglioni al prossimo con armoniche a bocca e country
melenso in texano stretto (scusate il linguaggio). Ecco perché da noi i coyotes non ululano.
Un progenitore del famoso architetto, certo Pansecu, decise che i nuraghi erano brutti. Oltre che
scomodi. Ma ormai erano più di ottomila, che fare? Tempo al tempo… Non più di trent’anni fa,
grazie agli insediamenti nella Costa Smeralda, sparirono quasi mille brutti nuraghi trasformandosi
come per magia in: fondamenta, recinzioni di ville, fondali granitici per piscine; insomma,
tutti i martamarzottisti e i berlusconisti della costa volevano il loro bel nuraghe personalizzato.
Un boom!
Gli altri brutti nuraghi, specialmente quelli posti vicino al mare, vennero accuratamente
mascherati alla vista da opportune palazzine abusive, villette a schiera, ecc. Soprattutto al nord
dell’isola. Non a caso a costruire queste meraviglie di cemento era l’Edilnord.
Anticamente, la Sardegna era difficilmente raggiungibile e i numerosi viaggiatori erano costretti a
lunghi ed estenuanti bivacchi, in attesa di qualche “legno” chi li trasportasse. Come oggi…
Era difficilissimo, quindi, anche lasciare l’isola.
Non avete idea di quanti eroi frustrati si siano dati al bere o abbiano preso la terribile via del FORMAGGIO
MARCIO (allora le Comunità non c’erano ancora e Muccioli, nonostante i suoi soci
Craxi e Moratti major, sarebbe morto di fame), per la delusione di non poter varcare il mare e
dimostrare al mondo il proprio coraggio in epiche gesta. Ecco perché nei libri di storia o nei
colossal cinematografici figurano tutti gli extracomunitari: Ben Hur, Solimano, Gengis Kan,
Sandokan, Erik il Vichingo, ecc. Ma non figura nessun eroe che si chiamasse Cuccureddu,
Porceddu o Zamburru!
Parlando di eroi, lo stesso Garibaldi è morto a Caprera! I libri di storia dicono che l’Eroe si ritirò
a Caprera…
NON E’ VERO!
Garibaldi era venuto in Sardegna, come tanti, per un week end, poi, non trovando modo di ripartire,
c’è rimasto. In tutti i sensi.
E qui sono rimasti anche tutti i suoi cimeli.
Forse non tutti sanno che l’Eroe dei Due Mondi era il più grande collezionista di cimeli di Craxi
e Spadolini.
Del primo, è custodito presso il museo Regio di Olbia un piccolo “Palazzo Marino di Milano”,
mirabile riproduzione lavorata a mano, donatagli per “grazia ricevuta” da un cognato balzato agli
onori della cronaca per essere molto “preso” da una dialettica col PM Di Pietro…
Di Spadolini, Garibaldi, conservava la superba collezione di conchiglie. Questa collezione era talmente
vasta che l’Eroe, non trovando in casa un posto capace di accoglierle tutte, teneva le
conchiglie sparse per le spiagge. Dove ancora si trovano e si possono ammirare. Basta spostare
qualche busta di plastica o qualche coccio di vetro o qualche lattina arrugginita; avendo cura di
rimettere tutto a posto, per non turbare l’ecosistema.
Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
La Sardegna, tradizionalmente, vanta un’economia basata sull’agricoltura e sulla pastorizia.
L’agricoltura sarda è governata dall’anarchia più totale: nel senso che in pianura cresce di tutto e
in maniera molto bella e disordinata. Casual.
Molti agricoltori prima piantavano cavoli, poi hanno piantato carciofi, poi hanno piantato tutto e
se ne sono andati a Torino per lavorare alla Fiat.
La terra sarda, dove c’è (c’è granito dappertutto) , è molto fertile. Per anni è servita anche a sponsorizzare
il Cagliari e la Torres per far arricchire i loro presidenti.
In tutto il mondo i funghi nascono sotto gli alberi, in Amazzonia i funghi sono alti quanto gli
alberi, da noi gli alberi nascono sotto i funghi. Anche perché abbiamo la tipica vegetazione
mediterranea: nana.
Altrove, sopra le fragole ci mettono la panna. In Sardegna, se non ci mettiamo il letame, col cavolo
che crescono!
Dove non c’è la terra c’è il granito, che si usa, nelle zone interne, come mangime per le galline al
posto del grano: in effetti le uova delle galline sarde sono molto più piccole ma dure! e le donne
sarde si lamentano sempre perché hanno tutte le padelle ammaccate.
Nelle zone costiere, invece, il granito, sotto forma di scogliera, serve per essere venduto a due lire
agli Aga Kan e al Cav. Silvio-Ciprietta, che ci fabbricano sopra tanti bei ghetti per sedicenti vip,
tante discariche per televisionari falliti e tante alcove per calciatori e veline.
Le vallette e Umilio Fede amano la Costa Smeralda. Ci vuole una certa inclinazione per fare il loro
mestiere e per essere invitati in Costa Smeralda, e loro questa inclinazione l’hanno nel sangue.
La pastorizia ha dei grandi vantaggi: i contributi regionali, i contributi CEE, e il fatto che, per
poter fare il pastore, non si ha bisogno di sondaggi nè di un attestato della Bocconi e tantomeno
di un portavoce come Bondi. Per ora…
Il pastore vive con le pecore e vanno molto d’accordo, anche se non si parlano. Anzi il pastore a
volte parla e i nipoti dei pastori, spesso, straparlano pure. Anche se questo non è il caso di
Chicchinu miu.
Si racconta di un umile pastorello, accosciato all’ombra di una quercia secolare regolamentare e
circondato dal suo gregge, il quale ha resistito per ore, in silenzio, agli assalti di un turista armato
di famigliola vociante e di apparecchiature fotografiche del valore di svariati milioni, che continuava,
regista “in nuce”, a bersagliare il povero bimbo di: “Guarda verso l’infinito… l’orizzonte…
così… più triste… sorridi… perfetto”.
Alla fine, il piccolo guardapecore esausto, ad un “Lo sai parlare l’italiano?” di troppo, ha risposto
annoiato:”Guarda che, se non metti a 100 DIN, ti bruci tutta la pellicola. O coglione!”
Un’altra risorsa della Sardegna è la pesca. Ma quella vengono a farla i pescatori di Mazara del
Vallo.
Gli stagni e il mare erano molto pescosi.
Nel settembre del 1947, un certo Antonio Melis (detto Ferdinando) pescò un’orata così grande,
che subito arrivò un fotografo da Sassari per immortalarla. Solo la fotografia pesava 4 chili!
Adesso se si riesce a pescare qualche pesciolino, questi attaccato alla coda ha già il verbale di non
commestibilità dei NAS.
Nonostante tutto, sono in aumento i pescatori dilettanti che si servono delle canne.
Alcuni se le fanno addirittura da soli, le canne, e Pannella li conosce tutti. Questi non prendono
mai niente, ma sono i più tranquilli. Nei pressi di Olbia, sono stati notati due pescatori dilettanti
che utilizzavano delle canne mozze. Avevano anche la matricola dei mulinelli abrasa. L’unica
cosa che hanno a portato a casa è stato un mega contratto d’appalto per la costruzione del portocanale
di Cagliari. Erano due siciliani di Forza Italia.
8
Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
La tipica imbarcazione sarda per la pesca si chiama “fassòni” ed è fatta di giunchi e asfodelo
intrecciati. I fassònis si riconoscono subito perché, mezz’ora dopo la partenza, si sentono le voci
dei pescatori che gridano, “Aiuto! Aiuto! Annego!”
A Santa Giusta c’è anche una straordinaria regata di fassònis che si tiene nel mese di Agosto. La
organizza il presidente della Pro Loco in pieno pomeriggio ed è sponsorizzata da ben due negozi
di frutta e verdura e una macelleria. Dicono che sia molto suggestiva. Peccato che nessuno veda
niente, perché di pomeriggio il sole ti picchia sugli occhi e…
Quand’era giovane mio nipote, lo scemo del paese non faceva l’assessore alla cultura, il sindaco
o il presidente della pro loco.
LE DONNE
Le donne sarde sono di poche parole. Anzi, solitamente, ne dicono soltanto una: NO.
E mio nipote lo sa bene.
In Sardegna il femminismo ci fa ridere, perché qui abbiamo sempre comandato noi donne. Esiste
da sempre il matriarcato. E lo tiriamo fuori ogni volta che ci fa comodo. Provate a chiedere a una
donna di Brescia o di Roma:
“Cosa fa suo marito?” Quella risponderà: l’idraulico, i medico, il ragioniere. Provate a rivolgere la
stessa domanda a una sarda… “QUELLO CHE VOGLIO IO.” Sarà la fiera risposta. Le sarde sono
riservate fino al momento del matrimonio. A quel punto si scatenano. Il matrimonio tipico sardo
si svolge così: dopo la cerimonia, mentre gli invitati mangiano, bevono e ballano (e i genitori litigano
per stabilire chi deve pagare il ricevimento), la sposina trascina il neomarito su per la camera
da letto. Chiude bene a chiave; si spoglia con una certa riluttanza e sistema bene i vestiti su
una cassapanca antica. Quindi ricupera lo sposino da sotto il letto o da sopra l’armadio e, dopo
averlo spogliato, sistema anche gli abiti di lui accanto ai propri. Infine, presi i suoi vestiti e quelli
del marito, apre la finestra e scaraventa tutto di sotto. Tanto, quando lui e lei usciranno da
quella stanza, quei vestiti saranno già belli e passati di moda!
Le donne sposate, raramente, si concedono avventure e danno poca confidenza agli estranei.
Un amico di Chicchinu è dovuto andare a letto per più di due mesi con una signora di Tempio,
prima di convincerla a fare un giro in macchina sola con lui.
Niente a che vedere con il libertinaggio di certe continentali, che fumano, dicono parolacce e si
fanno sorprendere dai mariti mentre si dibattono sulla moquette, senza niente addosso, tranne
l’idraulico.
Da noi nemmeno si usa la moquette. E l’idraulico, semmai, si mette sotto.
9
Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
LUOGHI COMUNI
Uno dei più vieti luoghi comuni che riguardano la Sardegna è che essa sia una terra dimenticata
da Dio. In realtà , io non credo che Dio se la sia dimenticata affatto: l’ha spostata apposta e la odia!
E comunque, dai tempi dei tempi, da un capo all’altro dello stivale, si è udito il minaccioso “TI
SBATTO IN SARDEGNA!” Quando qualcuno combinava qualcosa che non piaceva ai superiori,
veniva “sbattuto in Sardegna”…
Ci chiediamo: che cosa mai avranno combinato Simona Ventura, Briatore o Burlesquoni, che,
regolarmente, tutti gli anni vengono “sbattuti” qui per almeno due mesi?!
Per non parlare di Craxi, quello lo avevano sbattuto addirittura in Tunisia.
Altro luogo comune è che i sardi sono piccoli e scuri…
Tanto per cominciare, qui si usa lavorare. E quando in una famiglia nasce un figlio maschio c’è
gran tripudio: non è una bocca in più, ma DUE BRACCIA in più! Appena il frugolo compie
cinque o sei anni, gli si dice il fatidico “Cresci, cresci che vai a lavorare”.
Per questa ragione molti bimbi fanno un” tiè!” a manico d’ombrello e si rifiutano di crescere.
Eppoi, la bassa statura molte volte aiuta. Se sei latitante e sei alto, non ti puoi nascondere dietro
la vegetazione nana o dietro i muretti a secco di un metro e venti. Non solo… Prendiamo la
Brigata Sassari: quei ragazzi, in pratica, vincevano le battaglie da soli! Venivano discriminatamente
messi in prima linea, davanti a bersaglieri, alpini ecc. e, siccome il nemico sparava ad altezza
d’uomo, venivano colpiti molto difficilmente. Una carneficina tra i veneti e i friulani delle
ultime file.
SCURI… Il popolo sardo è, notoriamente, molto riservato ed educato.
Qual è la famiglia dove non succedono screzi tra coniugi? Anche da noi capita che ci siano discussioni
in famiglia, ma è costume che, prima di iniziare una breve disputa, i genitori mandino i
bambini a giocare in cortile o per strada. Ecco che, a forza di restare così a lungo sotto il sole, si
ottengono dei bei ragazzini molto abbronzati.
Chissà quanto litigano in Africa!
Ma come dice nonno Bachisio: ”Il mondo è bello perché è avariato!”
BANDITI SARDI… Si sente parlare, da almeno cento anni, di questa fantomatica “banda dei
sardi”. Prendi un giornale e trovi un titolone sparato a nove colonne: “Presa la banda dei sardi”.
Poi leggi: “… stamattina verranno interrogati dal Sostituto Procuratore i banditi catturati ieri grazie
ad una brillante operazione (omissis)… I sette malviventi, Gino Fontolan, Ambrogio
Brisighella, Roberto Diotallevi, Guido Pozzan, Osvaldo Procaccianti, Luigi Percuoco e Gavino
PUDDU.
UNO c’è n’è!!! Un sardo che si chiama PUDDU.
E magari è anche figlio di emigrati da generazioni!
Titolo sul giornale:
“ARRESTATA LA BANDA DEI SARDI”!
Devo ricordarmi di dire a Chicchinu di fare qualcosa per questo. Bisogna che metta in riga i giornalisti.
Bisogna “normalizzare”, come dice Previti.
Certe volte, sì, càpita che qualcuno dei nostri ragazzi col sangue caldo si lasci andare a qualche
gesto un po’ forte.
Ma, anche ieri, sulla cronaca di un popolare quotidiano è apparsa la notizia:
10
Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
“Preso un giovane (sardo) e denunciato a piede libero per porto abusivo di coltello”.
E ce l’aveva sì un coltello: ma conficcato tra le scapole, ce l’aveva! Questo, mi si passi il termine,
è razzismo bello e buono. Diamine! Eppoi, cosa vuol dire quel SARDO tra parentesi?!
Perché non scrivono (sardo) anche quando parlano della nomina a baronetto del fantino più forte
del mondo Frank Dettori? Solo per la cronaca nera si ricordano dei sardi. Perché non ci scrivono
mai: umbro, o milanese, o toscano… tra parentesi?!
Buoni quelli! I toscani. Sono quelli che parlano maggiormente male di noi sardi, però sono sempre
qui a fare razzìe. Appena si apre la stagione venatoria, i traghetti che partono da Livorno sono
pieni di cacciatori toscani assatanati: appena giungono in vista della nostra costa, cominciano a
sparare. Già dalla nave. A tutto quello che si muove, sparano.
Generalmente, si salvano solo i deputati sardi o gli assessori.
Tanto quelli… e quando si muovono, quelli?!
Questo succede perché il popolo sardo è molto ospitale.
Noi abbiamo sempre ospitato tutti, dai punici ai romani, dai mori, ai fenici agli spagnoli. E non
si può dire che i sardi siano invadenti. Anzi… INVASI da sempre siamo stati!
NONNO BACHISIO
Mio padre era così povero che lo mettevano persino sulle pagine gialle.
In Sardegna, allora, non c’era quasi niente: niente lavoro, niente sviluppo economico, niente
locali notturni… in pratica come adesso, solo che oggi c’è lavoro per i forestali, grazie ai numerosi
incendi, e ci sono le industrie. Chiuse.
Lui aveva ereditato un piccolo pezzo di terra. Terra tipica sarda: bruciata.
Ma era talmente fiaccato dalla povertà che non la lavorava neanche la terra, la mangiava così
com’era.
Già da allora qui c’era molta emigrazione.
Anche se qualcuno aveva escogitato la pensata di mandare le donne incinte a partorire direttamente
a Sesto S. Giovanni, a Torino, o addirittura in Belgio. Così i futuri operai nascevano già lì,
e via.
Anche nonno Bachisio era sempre in un altro stato: in stato di ubriachezza.
Lui beveva tanto per dimenticare. Si dimenticava di aver già bevuto tanto…
e così ricominciava.
Poi si lamentava. “Quando Galileo diceva: – Il mondo gira.- Tutti a gridare al genio. Quando lo
dico io che il mondo gira, tutti guardano in cielo e dicono che sono di nuovo ubriaco.”
Però anche lui…
Un giorno si presentò al bar col fido amico Carta, un noto imbroglione, e ordinò dieci litri di vermentino.
Il barista gli chiese se avevano portato un recipiente e lui, offesissimo: “Quale recipiente?! Io contengo
sei litri, lui almeno quattro! Recipiente, tzè!…”
La verità era che bevendo dimenticava l frustrazioni .
Dimenticava anche di tornare a casa.
“Mi sento un beone!” Fondò anche “La fossa dei beoni” e ne divenne presidente. Persone “alte in
grado”…
A novantatre anni voleva cambiare sesso. Non nel senso di Amanda Lear, ma perché ne voleva un
altro. Nuovo.
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
Mio padre è sempre stato un grande peccatore: ubriacone, donnaiolo, giocatore, manesco, ignorante
e presuntuoso. Secondo lui, il Mediterraneo è un “lago sardo”… E Chicchinu ha preso da
lui.
Però lui era buono. Sempre pronto ad aiutare tutti, specialmente le donne che s’offrivano. Ma non
era solo per il sesso; anche se, preso quello, lasciava perdere il resto. Non se ne lasciava scappare
una.
“Sa hemmina no cherèt fastizzàra, cherèt chirràd’a terra istrumpàda e coddàda.” diceva
(la donna non dev’essere corteggiata, va sbattuta per terra, bloccata e… perdonatemi, scopata a
raffica).
Quando rientrava, dopo una notte di baldorie, mia nonna lo redarguiva rassegnata:
”Ancora ubriaco sei?”
E lui. “Certo! Se non fossi ubriaco mica tornerei qui!”
Cercò in tutti i modi un lavoro qualunque. Si mise persino a fare lo stilista. Inventò lo stile casual.
Ma era troppo in anticipo sui tempi e i suoi clienti li chiamavano “pezzenti”.
Quando vide che non c’era verso di fare un lavoro onesto, si diede alla politica.
Oggi sarebbe come minimo presidente di qualche ASL o direttore di rete o di qualche struttura
alla RAI o imprenditore sorridente e incipriato. Allora si dovette accontentare di fare l’assessore
in un comune di mille anime.
“ASSESSORATO ALLA RICERCA SPAZIALE”, mandato inventato da lui. Niente a che vedere con
alta tecnologia o spazi siderali.
Il suo compito consisteva nel trovare ALTRO SPAZIO per mettere i fiaschi pieni e le damigiane,
che servivano da carburante durante le sedute di giunta.
Non vi era ordinanza che non venisse votata per alzata di gomito.
Era nata “l’ubriachezza politica” tanto cara a Craxi.
Nonno Bachisio era il più importante “sbronzetto nuragico” del mondo.
Gandhi disse “Dopo che sarò morto, crematemi.”
Lui ha riempito la casa di bigliettini:” Dopo che sarò morto, DISTILLATEMI”.
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
INFANZIA DI FRANCESO COSSIGA
Quando Chicchino nacque in casa non c’era nessuno.
Lo portò un gufo. Non trovando un camino, lo sganciò vicino al pozzo nero.
Suo padre era al podere. Coltivava una piantagione di ghiaia* (coi cavoli aveva smesso, per paura
che sotto qualche ceppo potesse nascergli un altro figlio). Sua madre era rifugiata da certi parenti,
perché non voleva responsabilità.
*Ecco spiegato il mistero dei “sassolini nelle scarpe”.
Quei sassolini Chicchinu li ha sempre avuti e, come si sa, i sassolini nelle scarpe fanno male ai
coglioni: certo, perché chi non è coglione SE LI TOGLIE!
E lui ha fatto benissimo a toglierseli.
Avrebbe dovuto cominciare molto prima, ma Andreotti e Craxi erano sempre stati molto evasivi
e non gli avevano ancora confermato che lui era veramente il Presidente.
Per quattro anni ha creduto di essere “in prova”.
Ma questa è un’altra storia, di cui vi parlerò più avanti.
Presi da rimorso, i genitori fecero ritorno a casa dopo tre giorni. Trovarono Chicchinu al telefono
che chiedeva le loro dimissioni al Telefono Azzuro, ma diceva “ghee-ghee” in sardo e non se ne
fece niente.
Per primi diciotto mesi mio nipote condusse una vita d’inferno. Si andava convincendo di non
essere amato da nessuno.
Diceva cose senza senso che non capiva nessuno, quindi, quando diceva “ghee” perché aveva
fame, cercavano in tutti i modi di farlo dormire; quando diceva “ghee” perché aveva sonno, lo
ingozzavano a forza di latte, caglio e carciofi.
Lui, meschinetto, strillava a più non posso e tutti dicevano “Non lo sa nemmeno lui quello che
vuole. Lasciatelo perdere.”
Si sentiva solo e abbandonato. Incompreso. E di notte, ripensando alle traversie quotidiane, versava
tutte le sue lacrime e strillava come Sgarbi. Anche perché aveva una fame bestia e nessuno
gli dava retta.
Il padre, un lavoratore duro e poco sensibile, soltanto per essere stato svegliato due o trenta volte
ogni notte dalle grida parossistiche del piccolo Chicchinu, dopo alcuni mesi, si rivolse alla moglie
con tono poco rassicurante “Fallo stare zitto quell’accidente, sennò te lo rompo!”
A modo suo gli voleva bene.
Per la verità si erano lamentati anche alcuni comitati di quartiere della Gallura e della Barbagia.
In quei giorni, per la prima volta, un certo Giulio Andreotti venne nominato sottosegretario a non
so quale Ministero.
La madre di Chicchinu, vedendolo in un cinegiornale, perse il latte e fu costretta a mandare il
piccolino a balia.
Oggi le balie non esistono più. Ed è un bene.
La balia del nostro paese, Assuntina, era un donnone di oltre un quintale che aveva già quattordici
figli suoi; tutti avuti dallo stesso uomo, ma non lo aveva mai voluto sposare perché, diceva, non
era il suo tipo.
Questo bel tipo era alto un metro e venti, più IVA, e aveva due sole passioni (oltre”quello”): bere
vernaccia e fumare “trinciato Italia”.
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
Tutte le sere tornava da Assuntina, ubriaco e puzzolente come una capra, e le montava addosso.
Lei lo lasciava fare, un po’ per timore delle sue reazioni (lui aveva il “vino cattivo “) un po’ per
non perderlo: l’aveva minacciata di fuggire con Brigitte Bardot se non lo avesse soddisfatto.
E i figli continuavano ad arrivare.
Chicchinu miu da quella balia non ci voleva andare. E piangeva. E, appena piangeva, tutti: “il
bambino ha fame, portatelo da Assuntina.”
Ma lui piangeva proprio perché non ci voleva andare! Era incompreso già da allora.
Ma come si fa ad attaccarsi a un seno gigantesco marrone e puzzolente di “trinciato Italia”?!
Tutti i giorni così. Lo portavano da Assuntina e quella lo ghermiva e gli ficcava in bocca un chilo
e otto di tetta tossica.
Morale: oltre che a piangere, Chicchinu miu cominciò anche a tossire.
Una brutta tosse. E catarro. La madre lo portò dal medico: bronchite asmatica.
“Ma suo figlio fuma?” chiese il medico. A sei mesi?!
Non bastava la bronchite, gli venne una strana malattia che di solito viene solo alle patate e cominciò
a riempirsi tutto di bolle e macchie.
Basta balia.
Dopo una lunga chiacchierata con nonno Bachisio, che la sapeva lunga, fu deciso di fargli cambiare
aria e di sottoporlo ad una ferrea dieta a base di pesce.
L’aria, nonostante tutto, non l’ha cambiata: ancora oggi conserva quella da gufo triste. Il fosforo
invece l’ha reso vispo e intelligente come nessuno.
“Fategli succhiare le teste – incitava alla sua maniera naive nonno Bachisio- ché la testa del pesce
contiene forfora.”…
E giù pesce, olio di fegato di merluzzo e spremute di gamberoni, con cioccolato e panna. E aglio,
molto aglio, per la circolazione e la pressione.
Suo padre non voleva, però, che il piccolo dormisse in camera con loro. Per via dell’alito. E
Chicchinu minacciò di sciogliere la camera.
Il genitore se la legò al dito e ogni sera, quando rientrava dalla sua piantagione di ghiaia, annusava
l’aria come un setter. Ma molto più rumorosamente.
“Cos’è questa puzza?” sibilava.
“E ‘ il pupo, ha fatto la cacchina.” minimizzava la moglie.
“Cacchina?! Cacchina, eh?! QUESTA E’ MERDA!!! Altro che “cacchina”! Il pupo!.. Questo non è
un bambino, è un contenitore di merda! Lo accarezzi e “plaft!”… lo dondoli e “plaft!”… Lo guardi
e “riplaft!” Ma che cazzo è?! Mangia grazia di Dio e caga merda! E non fa altro in tutto il giorno.
E anche di notte ! Mangia, piange e caga! Ma non lo vedi che quando ha finito di “fare la cacchina”
è sgonfio?! Una prugna sembra! Eppoi… – in un crescendo rossiniano, l’arcigno genitore, misurava
a grandi passi la stanza e roteava i pugni al di sopra della testa, fermandosi di tanto in tanto
ad indicare minacciosamente l’oggetto della sua ira. – Eppoi, quando lo devi cambiare, cambialo
dalla TUA tua parte del letto! Cappitto mi hai?! Dalla tua parte! Oppure portalo da tua madre.
Filo spinato ci metto sul letto, voglio vedere se oltrepassi il confine… Cacchina!”
Tutti i giorni la stessa storia. Ma a modo suo gli voleva bene.
In occasione di una visita di certi parenti, il padre di Chicchinu, che teneva molto alle apparenze,
decise di fare bella figura e pretese di prendere in braccio il pupo.
Non sapendo come funzionasse il “fagottino”, cominciò a passarselo da un ginocchio all’altro, da
un braccio all’altro, e su e giù, finché il fantolino non prese a vomitare.
Reazione istantanea: allontanamento, di scatto, del bimbo dai propri pantaloni. Nuca del neonato
pericolosamente vicina allo spigolo del tavolo. Urla della madre. Bestemmie del padre. Coro di
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
“ehhh, i bambini, si sa…” dei presenti.
Fine della pax.
Ancora nonno Bachisio. Redarguì suo figlio, spiegandogli che tutti i bambini hanno dei rigurgiti,
fanno la cacca (prodotto interno lordo, la chiamava lui) e piangono di notte.
“Se lo maltratti ancora, ti spacco la testa in otto parti uguali.” Concluse amorevolmente.
La notte successiva, al primo piantino del bambino, il padre si alzò, lo prese in braccio e cominciò
a cantargli un’antica nenia sarda, mentre lo dondolava.
“Su pippìu de sa mamma / an chi fèzzasa sa spràmma / oh, oh, oh…” (Piccolino della mamma/
fai la ninna, fai la nanna/ oh, oh, oh…)
Al terzo “oh” il piccolo si addormentò di colpo.
Anche perché l’astuto genitore aveva avuto l’accortezza di dondolarlo, tenendogli il capino a
meno di un palmo dal muro… SDUUUM! SDUUUM! SDUUUM!… I risultati ancora si vedono.
Altre volte, in analoghe circostanze, il bruto lanciava in aria il piccolo, lo riprendeva e lo rilanciava,
al grido di “istrullallààààh…”
E Chicchinu passava dal pianto al riso, riso stridulo e nervoso, e dal riso al sonno.
Anche perché tutto questo avveniva in mansarda. E le mansarde sarde sono molto basse…
A forza di “toc” e di “sduum” della testolina contro il soffitto basso, anche le rondini e i piccioni
abbandonarono i propri nidi. Un airone cinerino che aveva nidificato nei paraggi venne ricoverato
alla neuro di Tempio Paisania.
E venne il periodo delle prime paroline.
Tutti, in tutto il mondo, continuano pedissequemente a disorientare i bambini con una serie di:
biru-biri-ba-bah… oppure: ciribiribiripicchio!… che non vogliono dire assolutamente un beneamato
cappero.
Anche Chicchinu miu fu vittima di questi attentati, ecco perché, ancora adesso, stenta a farsi
capire dalla gente e viene spesso frainteso.
Prendetevela coi parenti e gli amici.
Tutti a cercare di farlo parlare il più presto possibile!
Anche suo padre si era accanito in questo esercizio:”Dì “babbo”. Dài, Checco, dì “papà”…
E parla, cazzo! Alla tua età io declamavo tutto Gozzano!”
Falso. Sono testimone io. Ha imparato a parlare a otto anni!
Una volta che Chicchinu imparò a parlare, non poteva aprire bocca ché il padre, subito:
“Stai zitto!”
Però, a modo suo, gli voleva bene.
I PRIMI PASSI. Non parliamo di quando, sempre lui, l’orco, cercava di insegnare a camminare al
piccolo. Di nascosto.
Chicchinu aveva poco più di sette mesi, un nasino da un chilo e un telo da bagno nelle braghe
(allora non c’erano i pannolini e Mike Bongiorno e Gerry Scotti si puzzavano di fame).
Allora… Il trucido appoggiava mio nipote al muro, si allontanava, si chinava e apriva le braccia:
”Corri da babbo. Vieni… Su, su…”
Spataplunfete! Tre dentini da latte: adieu…
“Testa di melanzana! Coglione! Alla tua età ero campione sardo dei tremila siepi.”
Manco per niente. Ha imparato a camminare, con un girello di ulivo grezzo, a sette anni suonati!
Una volta che Chicchinu aveva imparato a camminare speditamente, verso i due anni, e cominciava
a trotterellare per tutta la casa:
“Stai fermo!”
Chicchinu miu, piccolo frugoletto, è arrivato all’età di dieci anni convinto di chiamarsi “SMET-
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
TILA”.
Come ci hanno insegnato i padri della psicanalisi, Freud in testa, il comportamento dei genitori
durante l’infanzia dei propri figli lascia sempre una profonda traccia. Il comportamento becero
del padre di Francesco Cossiga lo abbiamo già visto in parte, ma è dall’adolescenza alla pubertà
del piccolo che egli manifestò tutto il suo sadismo.
Quando Chicchinu frequentava le medie, suo padre gli scriveva proditoriamente sul diario frasi
del tipo: ”Non sei nessuno” “Sei un fallito” “Ti odiano tutti” . Poi si lamentava che il figlio era insicuro
e ritardato! Durante un ricovero di mia sorella, qualche anno prima, il trucido era stato
costretto ad accompagnare Chicchinu a scuola (non era mai voluto uscire col piccolo:
“ Chissà cosa dice la gente!” si scusava); prima di uscire di casa, intimò al figlio: “Chiamami zio!”
Beh, il giorno trovarono tutti i compagnetti in cortile a godersi il sole. Tutti giocavano e facevano
capriole sull’erba. Lui costrinse il piccolo a giocare tra i fichi d’india e a fare le capriole in mezzo
alle ortiche: sempre erba è, disse. Poi lo schiavizzava. Lo mandava a fare le commissioni più
assurde, per fargli fare figuracce. Lo mandava in posti lontanissimi e gli indicava le strade sbagliate
per arrivarci, o i percorsi più lunghi e tortuosi.
Gli ordinava di comprare: un litro di olio di gomito… trecento lire di ombra di campanile, oppure
“un etto di zampette d’anguilla”… Tutti i bottegai del paese, capito il dramma del bambino, gli
davano delle amorevoli botte sulla nuca e lo mandavano in altre botteghe, sempre più lontane:
“Noi l’abbiamo terminato, prova da tizio che forse ne ha ancora…”
poi si giravano dall’altra parte e si piegavano in due dalle risate.
E manate sulla nuca, e botte della testolina al muro o sul soffitto per farlo addormentare… eppoi
dicono che è matto! Non parliamo poi dello scherzo del seggiolone! Quando Chicchinu aveva
due anni. C ‘era molta povertà, a quei tempi, e il seggiolone per il pupo era stato comprato di
ottava mano da alcuni zingari di passaggio (la stessa tribù alla quale, pochi mesi dopo, il maligno
genitore regalò il cavallo a dondolo di Chicchinu. Con lui sopra!).
In pratica, mio cognato, l’infausto genitore, si alzava di notte e, chiotto chiotto, andava in cucina
e segava a ? una gamba del seggiolone, già abbastanza malfermo di suo, poi tornava soddisfatto
a letto. Il giorno dopo scommetteva con gli amici sull’orario in cui il piccolo si sarebbe schiantato
al suolo. Si sedevano tutti di fronte al bambino, a bere, mangiare, e a parlare delle mirabolanti
avventure negli ovili, e gli lanciavano contro torsoli di pere, mele, noccioli di pesche…
Chicchinu si agitava, cercando di schivare i proiettili, il seggiolone manomesso cedeva e lui si
schiantava sul pavimento. Tutti quei colpi alla testolina fecero venire al pupo un’altra malattia
strana, che di solito viene solo ai tuberi, alle rape, a Gasparri, Calderoli e a Bondi. Durante le
vacanze estive, mentre gli altri bambini andavano alle colonie marine o montane, Chicchinu veniva
mandato a Vermicino o a Seveso. Solo una volta lo portarono al mare, allo scarico delle fogne
di Porto Torres e, mentre gli altri bambini costruivano castelli di sabbia, suo padre con la sabbia
gli faceva costruire case popolari…
A scuola, il suo nasino da un chilo venne ripetutamente gonfiato dalle botte dei compagni, presso
i quali mio cognato faceva circolare voci calunniose: ”Lo sai che mio figlio ha detto che tu sei
un po’ femminuccia?…Mio figlio mi ha detto che te le suona quando vuole…” eccetera. Andava a
cercare i compagni più grossi e grandicelli di Chicchinu e scatenava la loro rabbia. Poi, quando
il piccolo tornava pesto e con la melanzana sanguinante:
“Coglione! Le hai prese ancora. Alla tua età ero campione sardo dei pesi medi! Femminuccia del
cazzo!” e giù altre botte. Alla testa. SDUM! SDUUUUM! SDUM! Per tacere di quando aveva
attrezzato una bella altalena in cortile… Chicchinu fu molto felice per il pensiero del padre.
Povero ingenuo! L’altalena era a tre metri dal muro della cucina. In conci di granito. Già dal
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
giorno dell’inaugurazione, mio cognato fece sedere il figlio e gli diede una sola spinta: corremmo
in sette a staccare Chicchinu dal muro e lo accompagnai personalmente al poliambulatorio.
Tutte le settimane erano tre – quattro giorni di degenza. Anche le comunicazioni della scuola,
ormai, gliele mandavano direttamente all’ospedale. Quando mio cognato si prese una brutta
influenza e fu costretto a letto per dieci giorni, Chicchinu, senza altalena e spiaccicamenti contro
il muro, stava bene. Subito telefonarono dall’ospedale, preoccupatissimi e allarmati:
“Come mai non si è visto il piccolo Cossiga questa settimana? Non è che sta bene, eh?!”
Questo è stato il padre di Francesco Cossiga: un senzadio barbaro e cinico. Anche se, a modo suo,
forse, gli voleva bene. Potrei raccontare ancora tante cose, ma vi cito solo il suo motto prediletto,
che racchiude la sua filosofia di vita: “BABBO E’ MORTO, L’ASINA HA PARTORITO: CINQUE
ERAVAMO E CINQUE SIAMO”
LA MADRE
Contrariamente a tutte le donne sarde, mia sorella si dava del lei col matriarcato e col femminismo.
Completamente coartata dal marito, era usa obbedir tacendo e tacendo morir: di dolore, di
fame, di umiliazioni…
Ricordo una scena emblematica, indelebile nella mia mente. Quando Chicchinu aveva circa un
decinaio di anni, gli occhi grandi come uova al tegame, il naso già da un chilo, le gambe secche
secche e le ginocchia grosse come i nodi delle cravatte di Roberto Maroni, la sua famiglia versava
in grave stato di necessità. Il piccolo lo vestivano con gli abiti smessi dai “mustajònis”: gli
spaventapasseri. Una sera, il padre di Chicchinu era uscito per la solita partita a “chémin”, dietro
l’ovile di un amico. In centro, insomma. Il bimbo, povera stella, era seduto al tavolo di cucina
impugnando e battendo ritmicamente le posate sul tavolo; molto speranzoso. Sua madre, santa
donna, alta, segaligna e vestita di nero, cercava disperatamente di nascondere le lacrime. Evitando
di guardarlo, apriva e richiudeva mobiletti e rovistava invano nella vecchia madia: vuota. Il nulla
più desolato. Le ultime due uova le aveva fatte fuori il marito, con l’ultimo tozzo di pane nero,
prima di uscire. Chicchinu continuava a battere le posate sul tavolo, mandando avanti e indietro
i piedini sotto il tavolo e la sedia. Calzava vecchi stivali di gomma più grandi di sei numeri: si sa,
i bambini crescono, gli stivali no… Sbadigliava apertamente e seguiva con lo sguardo la madre.
Lei era una statua di sale. Si mordeva a sangue il labbro inferiore e le tremava il mento.
D’improvviso si voltò verso di lui e l’affrontò. Gli occhietti avvizziti e ormai senza più lacrime di
lei, contro gli occhioni sgranati, interrogativi, e drammatici del piccolo: roba da “Per un pugno di
dollari”. Musica di Morricone. Lei: un fremito incontenibile del mento, un singhiozzo represso
e un gettare la testa all’indietro, una mano sulla fronte a rinfoderare nel fazzoletto nero una ciocca
grigia anzitempo, per cercare coraggio e un contegno… Lui: improvvisamente bloccato, ingessato,
tratteneva il respiro e presagiva il peggio. Lei, con un filo di voce tremula:
– Chicchi’… ehm… Chicchinu… dì “merda”.- un tremito la squassava tutta, ma non si mosse di
un millimetro. Occhi negli occhi. Un duello infernale. Epico.
Morricone poteva lasciare il posto a Wagner. Lui, meschinetto, era allibito: una parolaccia sulle
labbra materne?! Ma com’era possibile?! Lei, prendendo coraggio, ma la voce era un soffio:
– Sentito mi hai? Ti ho detto di dire “merda”!-
Chicchinu deglutì rumorosamente, guardò me in modo indecifrabile, quindi tornò a fissare la
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
madre e, con compunzione, sussurrò: “Me – merda”. Lei, con una improvvisa e squarciante voce
di testa:
– Che cos’hai detto?! Ripeti!
– Lui, occhioni bassi e malinconici: “Merda”.
Lei si portò i pugni ai fianchi e prese a scuotere il capo:
– Ah! Ma bravo! Belle parole che dici! Davanti alla mamma e alla zia… Vergogna! Fila! A letto
senza cena! Così impari, brutto ineducato che non sei altro! –
Le ultime parole erano state sommerse dai suoi stessi singhiozzi e dal pianto accorato del piccolo
che correva via. Lei si era accasciata sulla madia vuota, lasciandosi finalmente andare allo sfogo
più completo:
– Povero figlio… – gemeva – Povero figlio mio…-
Io ero senza parole. Triste e sconcertata. Finii di mangiare la torta al gelato che mi ero portata da
casa, per merenda, e me ne tornai alla mia villetta. Più tardi, ripensando alla scena, qualche
lacrima mi cadde sull’aragosta al gratin che stavo preparando. Cenai di malavoglia.
Anni dopo, quando la situazione economica divenne meno drammatica, mia sorella preparò al
piccolo un tipico manicaretto nostrano: “S’olìa a sa sarda”
(Oliva alla sarda): prese una bella oliva e la mise dentro ad una quaglia, la quaglia la mise dentro
ad un tacchino, il tacchino dentro a un maialetto lattonzolo e, infine, il maialetto dentro ad una
pecora grassa. Poi andarono sul limitare del bosco vicino e scavarono una grande buca, nel terreno
argilloso, la rivestirono di mirto aromatico e vi posarono la pecora così farcita, quindi ricoprirono
con altro mirto ed altra terra la “tomba del manicaretto”.
Andarono a fare legna nel bosco, con la quale fare un bel falò sopra la buca.
(Questo è un antichissimo piatto sardo, detto “accarraxiàu” = sepolto: i sardi hanno inventato la
pentola a pressione seimila anni fa! E’ una prelibatezza super. Passata qualche ora, si scosta la
brace, si scopre la “tomba – forno” e si gusta il manicaretto.) Chicchinu e sua madre hanno provato
altre due volte a cucinare questo piatto. Non sono mai riusciti ad assaggiarlo: ogni volta che
tornavano con la legna, non si ricordavano più dove avevano sepolto la pecora…
Mia sorella è anche una donna molto cattolica e non ha mai usato contraccettivi. Sostiene:
“Perché andare contro i dettami del Papa? Quando vuoi fare certe cose con tuo marito e non vuoi
bambini, basta mandare i bambini dai nonni.”
E’ anche molto filosofa. L’altra sera, si guardava la tv insieme nella mia villa al mare; c’era un
servizio sulla fame nel mondo e lei fa:
– Ogni giorno muoiono 40mila bambini. Vedi che il Papa ha ragione a proibire gli anticoncezionali?
Così ne muoiono 40mila, ma ne nascono 150mila ogni giorno, tiè! –
Io questa filosofia non la capisco, però credo che sia molto profonda.
Vorrei terminare questo capitolo riportando testualmente una letterina, scritta da Chicchinu nei
periodi bui, a Gesù Bambino:
.
“ Caro Gesù Bambino,
quest’anno ti voglio chiedere cose da Arcore, anche se so già che sono soltanto sogni e queste cose
non le potrò mai avere.
1) Vorrei un paio di calze nuove, di quelle moderne che hanno anche la punta al posto del buco,
l’elastico, e che non si infilano subito tutte dentro gli stivali di gomma. E che non si buchino
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
subito, anche dietro, dopo due o tre anni che le porto.
2) In casa mia siamo tutti vegetariani, mangiamo radici, perché “FA PIU’ SCENA” dice mio babbo
(la carne la mangia solo lui perché è ammalato: il dottore ha detto che la sua malattia si chiama
“FILL’E BAGASSA” ). Ma io vorrei assaggiare, almeno una volta, una bella bistecca di carne: anche
se è peccato mortale e mi potrei ammalare pure io. Eppoi, ho quasi dieci anni!
3) Vorrei un maglione di lana, anche se GIUSTAMENTE, come dice mio babbo, la neve ed il
vento freddo del mattino fanno tanto bene alla pelle. Ma la scuola è lontana e io ci vado a piedi,
perché qui in paese non ci sono ancora i taxi (quando li metteranno, mio babbo ha detto che mi
ci manderà. Ogni volta che glielo chiedo, mi ci manda…) Ogni mattina, perdo sempre le prime
due ore di lezione: perché il gelo mi fa sentire un pochettino male e, appena perdo i sensi nel
piazzale, mi portano piano piano a Sassari, all’ospedale “SIAMOPIENI”, in sala rianimazione.
Quando non mi fanno entrare al “SIAMOPIENI”, ci tocca andare fino ad Alghero, alla pia clinica
“VATTENEVIA” e allora perdo anche le prime tre ore. Meno male che io imparo subito! Intanto
ho imparato a cadere sul naso: così non batto più la testa. Però il naso se ne va su e giù per conto
suo e, anche quando una cosa mi piace molto, sembra che faccio lo schizzinoso.
4) Vorrei un albero di Natale di cioccolato, con tante polpette di carne appese e qualche pollo
(anche crudo ); e vorrei guarire da questa brutta malattia che mi fa venire voglia di mangiare.
Persino di sera! Anche se so benissimo che:
“ Non si dice FAME ma APPETITO e avere una di queste due cose è da maleducati.”
come dice mio babbo.
Tanti baci dal tuo amichetto
Francesco Cossiga
P.S. Perché, quando dico queste cose alla mia mamma, lei si mette a piangere?
DALLA SCUOLA ALLA PRESIDENZA
Francesco Cossiga, Chicchìnu miu, è sempre stato coerente e deciso. Quasi quanto Berlusconi,
Anna Falchi, Fini, Mastella, Buttiglione e Feltri. Appena terminata la scuola dell’obbligo e si trovò
a dover scegliere un indirizzo di studi, andò dritto come un fuso ad iscriversi all’Istituto per
Geometri. Poi a quello per Ragionieri; poi al Nautico; poi a Danza Classica… Tutto in una settimana.
Poi si prese un esaurimento nervoso e rimase in perenne stato confusionale. Gli venne
anche una malattia originale, che di solito colpisce soltanto le carrube e Castelli della Lega.
Sua madre lo iscrisse al ginnasio, insieme col suo cuginetto Enrico Berlinguer. Ignorò nonno
Bachisio e i suoi ricordi nautici. Tirava una brutta aria in Marina per i Cossiga: durante la guerra,
mio padre fece più danni del nemico. Aveva fatto affondare quattro dei nostri sommergibili:
si coricava ubriaco e pretendeva di dormire con l’oblò aperto.
Al ginnasio, Chicchìnu conobbe e frequentò un fascio di compagni oggi eccellenti o ex- eccellenti:
l’ex – symbol Lino Jannuzzi, già scopatore di Marina Ripa di Moana e capo di Giuliano
Ferrara (e basta.), che vendeva a tutti “in esclusiva” i compiti copiati da Biagi; Corrado Carnevale,
giudice di sedia al campetto da tennis: siccome i sardi sono velocissimi e non vanno d’accordo
nemmeno in due, le partite le giocava sempre uno da solo e questo amico giudice faceva vincere,
regolarmente, la pallina (quando si dice l’onestà…). Frequentò il rugginoso Paolo Guzzanti che,
non esistendo ancora la Terza Rete Rai né Minoli, era riuscito a far assumere figli e parenti lon-
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
tani come presidi e bidelli (familiarmente, chiamati “bidè”, alla romana o all’amatriciana).
Chicchinu strinse anche di più i rapporti coi cugini Berlinguer Enrico (che negava di conoscerlo)
e Segni Mariotto (che già muoveva il naso meglio di lui) e cominciò, già da allora, a raccomandare
il nipote Gianfranco Agus, per le recite scolastiche del pomeriggio di Raiuno. Ogni settimana,
per ritemprarsi dalle fatiche scolastiche, insieme coi suoi amici noleggiavano un pullman
ed organizzavano delle gite. Il pullman, guidato da un certo Milvio Berlusconu di Arzachena,
arrivava puntualissimo: certe volte alle cinque, alle cinque e venti, alle sette e dieci… A volte
l’autista diceva che era stato frainteso e non arrivava per niente, oppure arrivava e diceva che gli
servivano seimila miliardi: i prezzi erano aumentati…
Mai una gita!
Decisero di cercare un altro pullman e si rivolsero ad un olivicoltore di Ossi, un certo Produ, costui
arrivava sempre puntualissimo, alle cinque! Loro arrivavano alla spicciolata, salivano a bordo,
e cominciavano a decidere la destinazione. Chi voleva andare di qua, chi voleva andare di là, chi
poco poco più a sinistra, chi in fondo a destra… Intanto, mangiavano, bevevano, e votavano. “ In
campagna!” “No, al mare!” “Giriamo cento città” “Andiamo dove ci sono le querce” “No, dove ci
sono gli ulivi”… e continuavano a bere e a cantare dei cori stonatissimi. Anche perché ognuno
cantava una canzone diversa. Alle 22, puntualmente, il buon Produ li scaraventava di malagrazia
giù dal pullman e ognuno tornava a casa sua.
Tutte le “gite” così.
Non riuscivano ad andare d’accordo. Da giovani.
Segni girava per i locali, beveva, mangiava, diceva: segni, e se ne andava.
Cossiga era entrato in un locale, aveva bevuto e mangiato, aveva detto :
cossiga e si era preso una botta in testa dal padrone:
“Che cazzo dici?! Chi ti conosce? Paga!”
Enrico Berlinguer, pur basso di statura, era sempre all’altezza della situazione e girava a testa alta,
perché era uno benvoluto e rispettato da tutti. Chicchìnu girava a testa alta per scoprire chi cazzo
fosse a lanciargli i vasi dai balconi e i gavettoni di piscia, ogni volta che usciva.
Invidioso di Enrico, per fargli un dispetto, decise di iscriversi alla DC (le tessere di GLADIO non
erano ancora pronte e quelle della P2 andavano via come il pane). Col solito piglio deciso,
Chicchìnu si inserì tra i dorotei. Poi decise per i fanfaniani, poi per i morotei, quindi, decisissimo,
si attestò coi basisti. Però gli piaceva anche la corrente gavianea. E non aveva neppure niente
che non andasse la corrente andreottiana… Si laureò in meno di quindici anni. Memorabile fu la
frase che rivolse a sua madre, in occasione della sua festa di laurea:
“Mamma, in che cos’è che mi sono laureato, ieri?”
E vennero i primi amorazzi. Mai consumati. Cambiava così spesso i luoghi e gli orari degli appuntamenti,
che le ragazza preferivano uscire con qualcun altro. Egli stesso non ricordava mai dove
avesse dato gli appuntamenti e non trovava mai nessuno. Intanto però si allenava a baciare. Lo
faceva con una di quelle bottiglie di latte dall’imboccatura larga; a volte le riempiva di carne macinata
tiepida e si produceva in altro tipo di allenamenti… più spinti.
Un giorno, casualmente, conobbe la futura moglie in un ascensore che si era guastato. Dopo sei
anni, le dichiarò il suo amore: “Ti amo per quello che sei.” Le disse. Era ricca.
Per fare carriera, non volendo legarsi alla mafia (anche perché la mafia non lo voleva), come tutti
i volenterosi fu costretto ad emigrare. Si trasferì a Roma. (Lui ha cercato di far trasferire prima i
vari Ministeri e poi il Quirinale a Sassari, ma non c’è stato verso.)
“Anche il cardinale di Cracovia, per fare il Papa, è dovuto emigrare.” gli hanno detto.
“ Ehmbé?! Che sono un semplice Papa, io?” ha risposto. Ogni tanto riaffiora il carattere di suo
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
padre.
Dopo una breve, memorabile, parentesi al ministero degli Interni (qualche maligno disse che
avrebbero dovuto internare lui già da allora), eccolo finalmente PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!!
Già da Ministro degli Interni ha contribuito a cambiare molto: il colore delle auto della Polizia,
per esempio. “Ha tolto un poco del già scarso verde che c’è nelle città” hanno commentato le
solite malelingue. Tutti ad accusarlo ed a manifestargli contro. Fatelo voi! Quant’era malinconico
quando fu costretto ad ordinare ai celerini di riporre (o nascondere meglio) i manganelli! Certo!
C’erano stati migliaia di operai e studenti con le ossa rotte: teste rotte, braccia e gambe ingessate…
ma almeno non si drogavano! Prova tu a farti una pera sul braccio ingessato! Questa era PREVENZIONE!
Che fastidio mi dava vedere il nostro cognome scritto su tutti i muri con la “ K” e le
“SS”alla Terzo Reich! Va bene che siamo di origine tedesca: von Kossighen, e allora?! Mio nipote
parla e straparla in tedesco come in italiano. Invidia?
Se è per questo, parla anche un altro centinaio di lingue. A gesti. E comunque parla sempre
meglio di De Mita (quanto parla male quello! Parla male di tutti: persino di mio nipote e di
Berlusconi…)
Ogni tanto, mi telefona e ricordiamo i bei tempi del Quirinale: specialmente gli ultimi due anni.
Quanto gli manca! Che bello, svegliarsi alle quattro del mattino e chiamare subito Paolino
Guzzanti! Certe volte era stanco e allora sbagliava numero:
“Pronto? Sono coso, passami a coso… Il Presidente Cossiga sono, passami Guzzanti, ajò! Come?!
In che senso, scusi? Famiglia Merli? E che cosa ci fa lei in casa di Guzzanti a quest’ora? Come?!
Sbagliato numero? Io? Ma sbagliato sarà lei! Come?… in che senso? No, lì ci va lei! Maleducato!”
Parlato con Guzzanti, chiamava subito Sgarbi. Non si dicevano nulla per due ore, tranne insulti
e parolacce, ma chiudevano felici e contenti. Certe mattine, invece, chiamava Boncompagni. Non
col telefono, ma col CB
“Roger…roger… Andy Capp chiede di entrarre, cappitto mi hai?” “Vieni avanti cret… Andy”
“Roger… Andy Capp sonno. Ma te Gianni sei? Satiro due… Satiro due? Stavo dicendo, no? Scusa
il doppio senso, ma te Gianni sei? Di una questionne fondamentalle parlarre ti devvo. Te, brutto
maialle, da quando faccevvi il cruciverbone a Domenica in, che mettevi orizzontalli tutte quelle
fighette verticcalli, prometti sempre ma non mantieni mai! Mandane qualcunna anche qui. Qui
Rinale a voi studio centralle! Ah, ah! Beh, adesso chiudo, ché non devvo farre nulla, sennò faccio
tardi. Già ti richiammo. Ciao!”
Verso le sette e mezzo rifornimento di sassolini nelle scarpe, una controllatina al piccone (c’era
sempre un corazziere che glielo indicava, perché lui non aveva mai visto un picco dal vivo e a
volte picconava con una falce…). Altre mattine invitava a colazione qualche amico: Guzzanti,
Sgarbi, Jannuzzi o Gelli (uguale), Funari, Cirino Pomicino, Ridge, Dallas, Cip & Ciop… Alle sei
del mattino! Questi, in coma, con la cravatta nel caffellatte, gli dicevano sì, sì, e si credevano più
intelligenti di lui. Pian piano perse quell’abitudine e anche gli amici. A tutti offriva il pane tipico
sardo “la carta da musica”, ma quelli preferivano la carta di credito e scivolavano verso Craxi.
Tanto, a quei tempi, la musica la faceva sempre lui; e senza l’intermediazione di Berlusconi.
Poi cominciava ad esternare.
A tutte le ore. Sparava anche qualche… cavolata (scusate), tipo quando disse che “noi sardi ridiamo
dentro”. Sì, è vero, non siamo molto espansivi, ma in quanto a ridere dentro… non lo fa nemmeno
Flavio Carboni! L’amico di Gelli, Calvi, Berlusconi e Sindona. Sembra proprio una frase alla
Gianni Bella, quello che scrisse l’inno dei carcerati: “Non si può morire dentro”.
Ore 13 pranzo. Da solo. Ogni tanto mi invita, ma io odio le scene isteriche. Vi ricordate? Ogni
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
due minuti minacciava di sciogliere le Camere. A tavola, diventava rosso a macchia di leopardo
e strillava: “Io lo sciolgo quando voglio questo cazzo di burro! Io lo sciolgo come mi pare questo
nodo alla cravatta!” Poi, meno male, arrivavano Gigi e Andrea, Pippo Franco e Forattini per
scrivergli le nuove battute e, quando erano pronti, veniva Pingitore per fargli la regìa dei nuovi
sketch che avrebbe recitato in TV o alle conferenze stampa.
Ore 16 conferenza stampa. Ormai arrivavano sempre meno giornalisti; tutti in ritardo, svogliati,
scoglionati. Qualcuno si portava le parole crociate, qualcuno il videogioco tascabile, altri si radevano
col rasoio a pile o si tagliavano le unghie dei piedi e fischiettavano, mentre Chicchìnu parlava.
Non si finiva mai prima delle 18. Andati via i giornalisti (che si intruppavano all’uscita come
se stessero scappando da un incendio, e certe volte qualcuno si faceva pure male), il Presidente
cominciava a fare le sue telefonate private. Retaggio paterno: cambiava voce e seminava zizzania,
chiamava Craxi e lo faceva litigare con De Mita; Chiamava Spadolini e lo metteva contro Cirino
Pomicino… Poi lo sgamarono e dovette smettere.
Ore 20,10 si sedeva davanti alla Tv a vedere le sue partecipazioni speciali a Blob. Cenava. Da solo,
mestamente, si guardava nei TG, nelle apparizioni a reti unificate. Se non gli avevano dedicato
abbastanza spazio, metteva su una cassetta dove c’era solo lui e si applaudiva, sbandierava, saltava,
consumava dieci bombole – sirena, faceva la ola con l’accendino…
Ore 24 pigiama con le paperette, pancerina, fascette elastiche del Dr. Gibaud, poi si inginocchiava
per le preghierine. Lassù si voltavano dall’altra parte, chiedeva sempre le stesse cose: più
potere, più considerazione, più rispetto, meno tic… Quindi si abbracciava stretto stretto il
cinghialetto di peluche, guardava il ritratto di Pertini, che era l’unico ormai che lo stava a sentire,
dall’alto della sua cornice, e gli diceva:
– Caro Sandro, fatta te l’ho! Sonno diventatto più poppollare di te. La gente, anche se la chiamo
“comune”, benne mi vuole. Beh, ciau e buon etterno ripposo. –
In effetti, e non perché sono sua zia, Chicchinu è stato più popolare di Pertini.
Anche perché era a tutte le ore in televisione, come Berlusconi adesso. E, come Berlusconi, parlava
solo lui. (Non è nemmeno vero che con la moglie non si parlano, è che lei non vuole interromperlo.
Da quarant’anni!)
Pertini andava in televisione all’alba: vi ricordate Vermicino? La gente dorme. Eppoi, Chicchinu
è più tempista. Pertini andava sul luogo delle disgrazie DOPO che queste erano successe.
Chicchìnu arriva sempre PRIMA che succedano! Nooo?!
Diventa ministro degli Interni e subito rapiscono e uccidono Moro. Da Presidente, va in visita
ufficiale a New York e il giorno dopo ci fu il crollo di Wall Street; si sposta a S. Francisco e, appena
riparte lui: BRUUUM!!! il terremoto; va a Huston a vedere la partenza dello Shuttle: avarìa e
la navetta non decolla. Se ne torna disgustato in Italia, mentre gli americani si sfregano le mani e
altro… Viene in vacanza in Sardegna e scoppia un incendio globale, appena lui riparte per Roma.
Va in visita ufficiale in Inghilterra, saluta la Tatcher: una settimana dopo, quella perde le elezioni
e sparisce. Va a Berlino e crolla un muro… ma tanto era vecchio e anacronistico. Andate a rileggervi
i giornali: E’ TUTTO VERO!!! Che poi, Chicchìnu miu, era preveggente, altro che Silvan! Vi
ricordate di quando ha esternato il dubbio:
“ Ma, in caso di guerra, chi comanda? Io o il Presidente del Consiglio?”
E tutti a dire “ Ma sei scemo?! Ma quale guerra? Sono 45 anni che non ci sono guerre qui…” E
non ti salta fuori Saddam Hussein?!
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Capitolo I
LEI NON SA CHI SONO STATO IO
La verità è che mio nipote è stato veramente un uomo di Stato. E quando succedeva qualche disgrazia
era perché lui c’era STATO… Certo, faceva anche qualche gaffe. Mi ricordo di quando
Umilio Fede aveva i suoi orgasmi, durante la guerra del golfo, che morirono anche alcuni militari
italiani, ma i piloti prigionieri Cocciolone e quell’altro tornarono salvi e Chicchìnu gli
ricevette al Quirinale. C’ero anch’io. Mio nipote ebbe poco tatto, perché, abbracciando i due
piloti, gridò: “CHI NON MUORE SI RIVEDDE!”
Povero Chicchinu miu! Quanto gliene hanno dette: “Parla troppo. Parla di tutto e non sa niente.
Parla di niente perché è l’unica cosa di cui sa tutto. Parlasse delle cose che sa su Gladio, la P2,
Moro, i servizi deviati, le stragi…”
La verità è che, da quando non è più Presidente, sembra il buon samaritano: ha cercato di salvare
il culo ad Andreotti, nominandolo senatore a vita; è andato a fare visita a Craxi, al Raphael, per
solidarietà e per festeggiare il voto compatto del vecchio parlamento contro l’autorizzazione a
procedere nei suoi confronti: hanno brindato con Berlusconi, Ferrara e Intini e poi l’hanno aiutato
a fare le valige…
Adesso è amico di Fini e Berlusconi: sentirete ancora parlare di lui.
Anche se: dagli amici mi guardi Iddìo…
Prima di chiudere, voglio fare le ultime precisazioni: non è vero che se verrà rieletto Presidente
(come vogliono i suoi amici), i tiratori scelti dei NOCS hanno l’ordine di sparargli a vista.
Non è vero che, da piccolo, quando giocava a nascondino coi compagnetti, una volta è rimasto
per sette giorni e sette notti nascosto dietro un cespuglio: perché NESSUNO si era sognato di
andarlo a cercare!
Non è vero che è permaloso.
Non è vero che è lunatico, come diceva Montanelli. Non è vero che è matto e malato di protagonismo.
Ha solo un debole per i colapasta e per gli specchi, casa sua ne è piena.
Se avesse degli amici veri, ve lo potrebbero confermare.
E comunque, se non ce la fa a tornare al Quirinale, può sempre diventare Presidente Onorario de
SU POPULU SARDU.
Tutto questo per ristabilire un minimo di verità (e per dimostrare che sono più brava a scrivere
di quella smorfiosa di Grazia Deledda).
Con affetto da zia Peppa.

cossiga1

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Aiutamo I TERREMOTATI !!!


“In Abruzzo c’è bisogno di sangue…soprattutto O negativo 06 491340 numero dell’AVIS della regione Lazio a cui si sta appoggiando l’Abruzzo. Se siete lontani da Roma, andate nel centro AVIS della vostra città. Saranno loro poi a mettersi in contatto con la sede regionale laziale!” Mi raccomando, ragazzi. Io ho 62 anni e non mi vorrebbero nemmeno, inoltre sto a circa due ore di curve da Cagliari… ma chi è in loco, si precipiti a donare il sangue! Grazie.

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