Zingaretti, non hai capito una mazza. Il tuo è il solito piagnisteo obsoleto, di certa sinistra morta nel 1975, zeppo di flagellazione e luoghi comuni che sono anni luce lontani dalla realtà. Non sarai mai un leader e tanto meno puoi essere un’alternativa a Matteo Renzi: troppo oltre.

Il manifesto di Zingaretti per il rilancio del centrosinistra

Dobbiamo aprire insieme una fase nuova e partecipata di rigenerazione profonda del campo di forze politiche, sociali, culturali associative del centrosinistra: c’è bisogno di coraggio.

Ecco il mio articolo su ‘Il Foglio’, 20 marzo 2018

Spero che la direzione nazionale svolta qualche giorno fa sia l’avvio di un confronto (da svolgere nei prossimi mesi con gli iscritti e gli elettori) ampio, non reticente, vendicativo, opportunistico

La sconfitta che abbiamo subìto è drammatica. Siamo passati, dopo 5 anni di governo, dal 25% al 19% dei consensi. Si tratta, inoltre, dopo il referendum e la tornata amministrativa, della terza sconfitta consecutiva. Il crollo è sostanzialmente simile nell’intero territorio nazionale.

È il carattere di questa sconfitta che brucia e ci impone di riflettere con spirito di verità: il voto, anche contro di noi, è stato un voto popolare. Un tempo si sarebbe definito “di classe”. Non in quanto espressione di una classe omogenea e politicamente cosciente; ma in quanto espressione della parte del paese più sofferente, emarginata e priva di forza: non sono solo gli ultimi; sono anche i penultimi e pezzi consistenti del ceto medio che va via via scomparendo. E non chiama in causa solo questioni di reddito, ma generazionali e anche di qualità della vita, dei servizi, della sicurezza sociale, della solitudine percepita a fronte dei grandi processi che investono l’Italia e il mondo. Sono convinto che anche nel voto del No al referendum costituzionale, al di là del merito, si era già evidenziata questa frattura: la scelta del Sì percepita, come il voto civile e ragionato dei garantiti e quella del No come espressione di una rabbia che cresce dal basso.

I 5 Stelle e la Lega hanno raccolto i frutti di questo sommovimento. In modo diverso: ma entrambi semplificando messaggi demagogici, accattivanti, irrealistici; fondati su una risposta diretta alle paure, vecchie e nuove, dell’elettorato italiano. E’ del tutto evidente che il nostro posto è all’opposizione; anche se non dobbiamo smettere neppure un momento di fare politica. La mischia è oggi: non abbiamo possibilità, purtroppo, di ricostruire le nostre strategie dentro un cappa di vetro. Occorre per questo battagliare senza cedimenti sui contenuti e sui valori con le forze politiche che hanno vinto e che hanno il dovere di proporre una soluzione per il governo dell’Italia; e allo stesso tempo, avere coscienza che l’elettorato che si è spostato sui vincitori è in grande parte un nostro elettorato che progressivamente dobbiamo saper riconquistare e con il quale dobbiamo instaurare un dialogo. La lettura dei flussi, positivi per noi, sulla vittoria nel Lazio è in questo emblematica.

Non c’è da meravigliarsi che il risultato elettorale sia stato segnato da una esplosione di rabbia. La crisi in questi anni ha colpito duro. Sono cresciute come non mai nella storia del dopoguerra le disuguaglianze. I dati di Banca Italia ci dicono che un italiano su quattro nel 2016 è a rischio indigenza. Da anni i redditi operai e del lavoro dipendente si sono ridotti nel potere di acquisto, mentre le ricchezze finanziare, immobiliari e i profitti sono enormemente aumentati. Al contrario di quello che è successo nei trent’anni gloriosi della democrazia europea, la forbice tra chi sta sotto e chi sta sopra è diventata larghissima e insopportabile. Il disagio riguarda le periferie materiali, ma anche quelle che qualcuno ha chiamato le periferie dell’anima. Perché, ormai, tranne la fascia più alta e privilegiata della popolazione, la percezione della solitudine e dell’abbandono si è diffusa in una vita moderna senza qualità e priva di reti umane e civili.

Questa condizione ha logorato la dimensione di “comunità” come condivisione di valori e pratiche positive e lasciato il campo alla ricerca di identità motivate dalla paura.

La questione che dobbiamo indagare con coraggio è: perché al contrario di quanto è avvenuto generalmente (tranne nella fase dei totalitarismi degli anni ’30), la rottura sociale non l’abbiamo saputa interpretare noi? Perché non siamo riusciti a tramutare la rabbia in speranza?

C’è certamente una specifica responsabilità nostra; della sinistra italiana. Il Pd è stato un grande tentativo di innovazione. La sua ambizione iniziale fu quella di adeguare non solo i programmi, ma le forme politiche, i rapporti dei cittadini con le istituzioni e la democrazia. Oggi, possiamo dire che nel corso degli anni questa ambizione si è affievolita fino quasi a spegnersi. E’ prevalso l’assillo, pure comprensibile, per il governo. A tutti i livelli. Sono emerse le ambizioni di ceti politici, con ricche storie alle spalle, ma incapaci di combinarsi insieme e di fondare un inedito organismo politico unitario. Così si spiega il moltiplicarsi delle correnti, delle ambizioni per carriere personali, di un’ansia a ciclo continuo per conquistare postazioni di potere e istituzionali. Noi che avevamo sognato l’avvio di una fase della politica più fresca e umana, siamo ripiombati nei riti vecchi ed estenuanti del passato, anzi a volte peggiori perché giustificati esclusivamente da logiche personali e promossi da figure di scarso radicamento sociale.

La combinazione di un profilo esclusivamente di governo, inevitabilmente concentrato sulla responsabilità e sul rispetto delle compatibilità, e la degenerazione delle nostre pratiche concrete ci hanno allontanato sempre di più dal sentimento del popolo.

Da qui nasce la percezione diffusa di un nostro atteggiamento altezzoso, autoreferenziale, sordo, rispetto ai conflitti e ai movimenti sorti anche in contrasto ad alcune nostre scelte di governo. E nasce anche un racconto troppo ottimistico sui risultati che pure abbiamo ottenuto dirigendo il paese; ma che raramente, o almeno in modo non sufficiente, hanno cambiato con rapidità la vita vera delle persone.

Via via siamo apparsi un corpaccione privo di anima e sorretto solo dall’esercizio del potere. Nonostante il decisionismo di Renzi, abbiamo affrontato la prova elettorale in modo confuso e diviso. Tra mille incertezze e senza forza d’animo. Forse per la prima volta nella storia della sinistra italiana del dopoguerra abbiamo chiesto il voto senza avere una proposta chiara di governo per il futuro dell’Italia. E ciò che colpisce nei giorni successivi al voto è la difficoltà di una reazione rispetto alla profondità della sconfitta subita. Come se l’assenza troppo prolungata di una battaglia culturale, di formazione delle coscienze, di costruzione di un senso comune di sfida quotidiana per l’egemonia ideale nei territori, ci avesse gettato in un deserto difficilmente attraversabile, una volta perduto lo scettro del comando.

La responsabilità di ciò che è accaduto è solo di Renzi? Dire questo, sarebbe non vero, ingeneroso e, per tutti, auto assolutorio. La crisi ha radici lontane. Il discorso meriterebbe un’analisi impossibile da svolgere in queste poche pagine: essa, tuttavia, sta nella difficoltà che l’insieme delle forze democratiche e progressiste hanno avuto nel rigenerare la democrazia italiana dopo il crollo dei partiti di massa e la fine della prima Repubblica. Senza più le vecchie ideologie e i vecchi canali di comunicazione con i cittadini, e con la fine di vecchie certezze e consolidati miti, non siamo riusciti a rigenerare una lettura critica della società, più moderna ed efficace. Non abbiamo retto la potentissima offensiva materiale e di pensiero del neoliberismo, che in Italia ha avuto la variante insidiosa di Berlusconi.

Io non lo votai, ma è doveroso riconoscere che a un certo punto, Renzi ha riacceso una speranza, ha mosso le acque, ha messo in campo l’ambizione di un rinnovamento generale della Repubblica, ha riappassionato il popolo, sembrando poter unire radicalità di pensiero, innovazione e allargamento dei nostri confini mentali ed elettorali.

Con pacatezza dovremo ragionare del perché questa spinta si è esaurita in così breve tempo: tra divisioni, recriminazioni, errori, fanatismi reciproci.Fatto sta che di fronte alle difficoltà (per certi aspetti inevitabili) nell’azione di governo e nel rapporto con diverse categorie di lavoratori, Renzi si è via via isolato, ha ristretto a pochi la plancia del comando, ha sottovalutato suggerimenti e critiche sincere, ha fatto delle sue scelte un credo astratto da perseguire ad ogni costo, si è allontanato, in nome del suo riformismo “radicale”, dalla vita del paese reale. Così ha perso l’empatia, la capacità di movimento politico, lo spazio di una riflessione e di un confronto negli organismi dirigenti capace di correggere il corso delle cose.

La sconfitta subita è certamente la combinazione di questi due elementi: una crisi che viene da lontano e un passaggio contingente nel quale il nostro leader da grande valore aggiunto si è trasformato in un bersaglio politico di una moltitudine di forze avverse. Ora, come ha detto nella sua buona relazione in direzione Martina, occorre ripartire con umiltà, collegialità e inclusione. Nella consapevolezza che lo stesso Renzi resta una energia fondamentale del Pd, anche nel futuro.

Non sono solo le responsabilità specifiche della sinistra italiana ad averci portato a questo punto così negativo. C’è un quadro europeo ed internazionale che mostra come la maggior parte del movimento socialista democratico sia in grande difficoltà. Abbiamo subito colpi ovunque: in Spagna, in Francia, in Germania. I segni di una controtendenza ci sono stati solo nel Regno Unito, dove comunque non abbiamo conquistato il governo.

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