Io, giornalista “a lezione” dalla polizia
così la Cina lotta contro la rivoluzione
Il vento della protesta terrorizza Pechino. Stretta sui cronisti stranieri. Regole surreali: per parlare con chiunque, ad esempio, serve un’autorizzazione dal nostro corrispondente GIAMPAOLO VISETTI
PECHINO – Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d’ufficio. Scomodo, nel caso di un’urgente necessità, ma accettabile, dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all’improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile.
Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall’improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell’ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d’acqua lasciate a metà.
http://www.repubblica.it/esteri/2011/03/03/news/parlare_con_cinese-13114221/?ref=HREC1-1