Il nano sempre più nella cacca

Il premier e la strategia del caos
di Marco Bucciantini

L’autunno del patriarca non è sempre circondato di ragazzine. Berlusconi è solo e preoccupato, ad Arcore. Sente i fedelissimi per telefono, Bonaiuti, Ghedini, Letta. Legge i giornali e si arrabbia, guarda le tivù e si rasserena appena un po’: i telegiornali mettono la sordina al caso Noemi. Si può ancora campare di rendita con la strategia della riduzione del danno, che resta l’ordine di scuderia.

«Ma bisogna trovare una via d’uscita», fa sapere. In pratica bisogna confezionare una storia credibile, inattaccabile. Ma lo staff frena, «aspettiamo, per ora il danno è limitato». Si temono altre rivelazioni che screditerebbero questa nuova, congegnata versione dei fatti. Lo stallo logora il premier, tentato dalla controffensiva “umana”, annunciata alla Cnn («riferirò in Parlamento, sarà un boomerang per la sinistra»), e abbozzata con l’intervista al Mattino del padre di Noemi, Benedetto Letizia, nella quale difende l’onore («mia figlia è illibata») e introduce un tassello: «Berlusconi ci è stato vicino quando è morto nostro figlio, nel 2001».

Nuove verità che – se prese alla lettera – servono solo a trasformare in menzogne quelle precedenti. Sull’origine della conoscenza fra la famiglia (e Noemi) e il premier («lei era piccola – fa il padre – io le dissi di chiamarlo papi: suonava meglio di «nonno»).

A TUTTO CAMPO
Per giorni Berlusconi ha tolto dal tavolo le sue bugie servendo i media con nuovi argomenti, e i più vari. E banalizzando l’accaduto, riducendolo a gossip con le foto pubblicate dal suo settimanale “Chi” per poi accusare gli avversari di servirsi – appunto – di gossip. Per distrarre l’opinione pubblica ha attaccato a tutto campo. Domenica, allo stadio, ha licenziato Ancelotti in diretta. Ieri si è servito dei mezzi di comunicazione locali, inibiti da cotanto zelo: il presidente del consiglio di questo Paese ha esternato su Radio Radio (frequenza romana che si occupa di sport), sull’emittente televisiva sarda Videolina, di proprietà dell’amico Sergio Zuncheddu, quindi alla capitolina Tv9, su Odeon Tv e infine è intervenuto a Rete 8, televisione teatina a corto raggio d’utenza. Rimestando così dozzinalmente i temi da essere contestato: ai romani ha detto che la città «per lordura sembra una capitale africana» (e ha indispettito Alemanno).

Agli abruzzesi ha promesso un’ampliamento dell’Università, per rilanciarla dopo il terremoto. «Che dice? Ma se dobbiamo razionalizzare i corsi…», lo ha corretto il rettore Di Orio. Perfino su Obama ha azzardato: «A giugno andrò a parlare con lui su ciò che dovremo discutere e votare al G8». Un’uscita solitaria, nessuno alla Casa Bianca lo aspetta, non ci sono conferme di questo vertice a due.

L’ATTACCO E L’ATTESA
Fosse filato tutto liscio, il diversivo, la banalizzazione dei fatti (esemplare, in questo senso, l’intervento di Giuliano Ferrara sul
Foglio, che si sostituisce al premier rispondendo alle dieci domande proposte da Repubblica e canzonando così l’esigenza d’informazione del Paese) sarebbero bastati per scivolare via verso le elezioni. Ma l’intervista dell’ex fidanzato di Noemi costringe il premier a muoversi. Timoroso. L’annuncio di querela della famiglia Letizia verso Gino Flaminio resterà tale: nessun avvocato troverà conveniente trascinare in tribunale la vicenda. E il previsto coinvolgimento della famiglia Letizia (padre, madre, Noemi) è per ora contenuto all’intervista al Mattino.

Berlusconi è un generale arroccato che aspetta di capire l’effetto mediatico degli argomenti avversi. Consapevole che finora la vicenda «è passata su mezzi di comunicazioni lontani dal suo elettorato, come internet e i giornali nazionali», concorda Klaus Davi, esperto di comunicazione. «Il passaggio televisivo è molto blando». Ma è a rischio la tenuta dell’immagine di uomo-famiglia, cavallo di battaglia fin da quando, 15 anni fa, stampò e divulgò in tutte le caselle postali del Paese «Una storia italiana», quella sua e della famiglia. «Può destabilizzarlo Veronica, che ha scatenato la vicenda e poi si è appartata. Una sua nuova reazione consumerebbe il voto femminile, zoccolo duro del consenso del Cavaliere. E poi la Chiesa: se i vescovi si risentissero…». Per Davi, dunque, senza colpi di scena il tono resterà basso. Altrimenti ci sarà sempre un Porta a Porta o un Parlamento da piegare ai propri comodi.

°°° Queste ultime notizie non fanno che confermare quanto sia pedofilo, inaffidabile, e cazzaro questo miserabile ominide. BLEAAAH!

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I Dimenticati

Balsorano, tra gli sfollati che aspettano una casa dal 1915
di Marco Bucciantini

Quando Lucia scendeva dal paese vecchio verso la valle tenendosi alla sottana della madre, sentiva sempre i vecchi preoccuparsi per quelle case aggrappate alla terra della Marsica. In quei giorni, Giovanni Giolitti supplicava gli interventisti di evitarsi guai con l’Austria. Nessuno fu ascoltato, Balsorano venne giù, l’Italia entrò in guerra, Lucia finì in questa casa bassa e quadrata, fatta di mattoni forati e cemento, costruita simile ad altre duecento dal Corpo reale del genio civile. Aveva sette anni. Adesso ne ha 101, un dente solo, nel mezzo alla bocca sempre sorridente, un filo di peluria bianca sul mento, una memoria intermittente ma affidabile. “Crollava tutto, mamma prese in braccio mia sorella più piccola, e mi tirò fuori di casa a pedate. Corremmo giù per la collina e ci salvammo. Fossimo passati per la strada saremmo morti: si sbriciolò, inghiottì tutti”. Il terremoto del 13 gennaio del 1915 cancellò la vita nella terra dei cafoni di Silone. Il cuore del Fucino cessò di battere, la morte sghignazzò per ore, ovunque, scrisse il sindaco di Tagliacozzo (altro paese di queste mezze montagne) in una lettera disperata al ministro dell’Interno. Fra i marsicani, se ne salvò uno ogni dieci. Questo fu il dazio anche di Balsorano, paese in odore di Ciociaria. I paesi dalla montagna furono spostati a valle, vicino alla ferrovia, sul greto dei fiumi. I pochi sopravvissuti furono sistemati nelle baracche costruite in fretta, provvisorie ma tenaci, solide.

Un secolo “tampone”
Quelle baracche sono ancora la casa di settanta marsicani. Alcuni la tengono per appoggio, vivendo altrove per lavoro (Roma, Frosinone, Avezzano). I più ci vivono: l’Italia che sanguina all’Aquila ha ancora ferite aperte ovunque e deve costruire la casa agli sfollati del 1915. Il sindaco Francesca Siciliani giusto sabato scorso, 24 ore prima della tragedia che ha straziato l’Abruzzo, ha incontrato l’assessore ai Lavori Pubblici della Regione “per chiedere di accelerare il recupero urbanistico di questa zona”. Per chiudere, dopo 94 anni, una parentesi aperta per un attimo. In questo paese, una parentesi è per sempre. Sono casette di 40 metri quadri circa, una camera da letto è di sei metri quadri, ma le famiglie hanno aggiunto qualcosa, davanti, di lato, dietro, dove c’era spazio. “Qui ci stiamo in sette”, ci fa accomodare Luigia Tuzzi, uno dei cognomi cardini di questo paese di tremila abitanti: o si chiamano Tuzzi, o Buffone, o Razzauti. Tetti bassi che d’estate le trasformano in un forno. Qualcuna ha ancora il cesso all’esterno. Ogni vent’anni (nel 1959, nel 1979, nel 1999) si sbloccano i finanziamenti per un’edilizia popolare che permetta di abbattere questi monumenti al terremoto, o meglio, alle infinite ricostruzioni, qui come in Belice, in Irpinia, a Messina. Ma l’ultima volta su 74 appartamenti 20 rimasero sfitti: la gente non si muove. Per affetto, per abitudine, perché sono anziani e preferiscono queste case rasoterra. E perché dovrebbero andarsi a pagare un affitto, basso, risibile, ma qui si fanno i conti: lavoro ce n’è poco, qualcosa nell’edilizia, la Tuzzi Costruzioni ha assorbito molti ragazzi e li ha portati sulle ferrovie in Lombardia.

Monumenti d’Italia
Santina legge il calendario delle messe e si prepara per quella delle quattro e mezzo. Luigia è incerta se stendere il bucato. Guarda il cielo cambiare colore, lascia i panni nella tinozza. Anche le baracche cambiano colore: i Razzauti le hanno dipinte di rosso acceso, e hanno le finestre di alluminio. I Tuzzi mantengono le persiane di legno e l’intonaco grigio. La giovane Jessica (Buffone) passeggia in tuta, annoiata, “non so che fare, non studio da sei anni, non c’è lavoro”. I suoi genitori hanno ereditato la casa dai nonni: in molti se la tramandano, come unico bene da lasciare. Altri la vendono. Il gruppo di Luigia (lei, il marito, il padre che guarda una piccola tv, lo zio allettato, il figlio) ha acquista la casa per 150 mila lire, 35 anni fa, da una famiglia che si trasferì nelle case popolari.“E mo’ duve te-n-r’ueeè”: e adesso dove vai, dice Michele, vedovo, che spazza la strada. Anche lui – sono cinque famiglie in tutto – si è comprato la baracca da altri compaesani. A loro il comune dovrà dare una piccola somma d’esproprio, se e quando riusciranno a sistemarli altrove. Le campane annunciano la messa del giovedì santo. Don Riccardo sta preparando la predica, fa un cenno cortese per negarsi, ha un naso d’altri tempi. Due bar chiudono la piazza sugli angoli, c’è il pronto soccorso, ci sono le scuole fino alle medie, un campo di calcio spelacchiato, ragazzi che prendono a pallonate il Municipio, la caserma. C’è un paese vero, con una ferita indelebile. Quando le campane tacciono, comincia a piovere.

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