Marco Damilano per “l’Espresso”
Sa, presidente, Gianni Letta è bravissimo. Mi costa poco meno di Kakà, ma pazienza… Era il 7 maggio, Silvio Berlusconi a colloquio con Giorgio Napolitano al Quirinale si ritrovava a magnificare al solito le qualità del suo sottosegretario: governante eccezionale e per di più, massima soddisfazione, suo dipendente.
Un mese e mezzo fa, un tempo felice. Oggi Silvio e Gianni sono ancora insieme, ma separati da una invisibile cortina di sfiducia. Alle cene di palazzo Grazioli, il sottosegretario era abituato ad arrivare dopo le nove di sera e ad andarsene intorno alle undici, quando arrivavano le dame e cominciavano le danze.
Negli ultimi mesi, poi, ha deciso di non farsi vedere più neppure nella prima parte della serata: meglio essere prudenti, viste le compagnie non sempre degne di uno statista. Ma nessuno sembrava accorgersi della sua assenza: era ancora la stagione del Berlusconi onnipotente, padrone d’Italia, con il gradimento del 75 per cento degli italiani, almeno nei suoi sondaggi.
Oggi invece al primo piano di palazzo Grazioli sventola un moscio tricolore, Apicella non suona più, Berlusconi si ritrova in perfetta solitudine nel momento più difficile della sua avventura politica e umana. È un leader politico sotto ricatto, diffidente perfino nei confronti degli amici di sempre, con la corte dei nuovi favoriti pronta a soffiare sul fuoco per scalare posizioni: il deputato-interprete Valentino Valentini, il deputato-segretario Sestino Giacomoni, il deputato-avvocato Niccolò Ghedini. Un uomo sotto assedio, che vede spegnersi la tradizionale buona sorte, l’ottimismo, “il sole in tasca”.
“Si è trasformato in un Re Mida all’incontrario: quello che tocca sporca”, lo dipinge con ferocia chi gli è stato vicino per anni e ora non se la sente più di seguirlo. Dopo aver infilzato a lungo un avversario dopo l’altro, il Cavaliere per la prima volta si sente preda di una caccia grossa, dove sono in tanti a voler sparare il colpo di grazia.
Nella stretta cerchia dei berluscones le voci si rincorrono. Complotti interni e internazionali: i servizi italiani e il prefetto Gianni De Gennaro (“sciocchezze”, replica un sottile conoscitore dell’ambiente: “Branciforte è una brava persona, Piccirillo è un servitore dello Stato, De Gennaro non ha grandi poteri”), anzi no, la Cia, Barack Obama che si vuole sbarazzare del leader italiano, troppo amico dei russi, scenari alla Ken Follett agitati da un esperto del ramo, Francesco Cossiga. I poteri forti: Berlusconi ha pestato i piedi alle banche, Cesare Geronzi si vendica. Luca Cordero di Montezemolo scalda i motori con l’associazione Italia Futura, pronta a partire il 1 luglio.
Fantasmi, come quello di una giovane misteriosamente scomparsa dalle parti di villa Certosa. Assurdo? Certo: ma a invocare Wilma Montesi, la ragazza ritrovata morta sulla spiaggia di Capocotta negli anni Cinquanta, è un ministro in carica, Gianfranco Rotondi.
Lo spettro di un 25 luglio berlusconiano: “Alla caduta del Duce ci fu un solo suicida, il direttore dell’agenzia Stefani Manlio Morgagni, oggi chi potrebbe imitarlo? Sandro Bondi?”, scherza macabro un deputato di An.
E le previsioni catastrofiche sul G8 dell’Aquila che avrebbe dovuto consacrare la figura internazionale del Cavaliere: ecco invece le voci di capi di Stato che vorrebbero evitare di farsi fotografare con il premier. E le first ladies che potrebbero disertare l’evento. Anche se, a spaventare davvero il Cavaliere, sono incubi molto più consistenti: l’inchiesta di Bari, i contatti tra l’amico del premier Giampaolo Tarantini e il capo della protezione civile Guido Bertolaso, fronti che potrebbero aprirsi in altre procure, da Firenze a Napoli.
“Dobbiamo tornare a fare politica. Possiamo finire in molti modi, ma non così”, si dispera fino alle lacrime su un divano del Transatlantico la deputata Beatrice Lorenzin, pasionaria azzurra che è arrivata a Montecitorio dalla militanza nelle borgate romane, il contrario della velina. Non può finire così: con l’inedito duello Silvio-Patrizia, lui sull’house organ ‘Chi’ che da vero signore si vanta di non aver pagato una donna (“non sarebbe una conquista”), lei, la sdoganatrice del termine escort, che lo smentisce via agenzia.
Con la fila delle ragazze che ostentano farfalline e tartarughe, ognuna con il suo regalino da esibire e una indimenticabile serata con Papi da raccontare. Con l’Italia mai così screditata a livello internazionale, come dimostra il flop della candidatura del ciellino Mario Mauro alla presidenza del Parlamento europeo. Berlusconi ne aveva parlato per tutta la campagna elettorale, il settimanale ‘Tempi’ gli aveva già dedicato la copertina (“Il Presidente”), niente da fare, anche Mauro ha pagato la vicinanza a Silvio, il re Mida all’incontrario.
La caduta è stata appena bloccata dalla vittoria del centrodestra al ballottaggio per la provincia di Milano, per soli quattromila voti, però, e con il centrosinistra che ha superato la coalizione Pdl-Lega in città. Ma il tritacarne si è rimesso subito in azione. Alimentato dalle ambizioni personali dei tanti che fiutano l’odore dell’animale ferito, la precoce fine del berlusconismo, se non ancora di Berlusconi, dopo appena un anno di legislatura, reclamano il loro pezzetto di eredità, si preparano al dopo. Il più rapido a farsi avanti è stato il ministro Claudio Scajola, con un’intervista al ‘Corriere’.
In apparenza di solidarietà con il premier, in realtà carica di richieste e di condizioni. La più pressante: “Rilanciare il Pdl strutturandosi meglio sul territorio”. Quando hanno letto queste parole in via dell’Umiltà hanno sospirato: “Ci risiamo. Berlusconi è in difficoltà e Claudio si candida alla guida del partito…”. Lo scontento dei parlamentari verso il triumvirato che guida il Pdl non si può più arginare. I due ex Forza Italia, Bondi e Denis Verdini, entrambi toscani di Fivizzano, ex vicini di casa a Roma, in piazza dell’Ara Coeli, non si parlano più, alle riunioni se c’è uno manca l’altro.
Il terzo del trio, il post-missino Ignazio La Russa, è sbeffeggiato quotidianamente dagli amici di An. “I triumviri o quadriumviri hanno sempre fatto una brutta fine: ai tempi di Mussolini uno è caduto dall’aereo, uno è stato fucilato, un altro è diventato partigiano. Tutte cose che non auguro a La Russa”, ridacchia l’ex capo della segreteria di Gianfranco Fini Donato Lamorte. Di certo, il Pdl, il primo partito italiano, si è rivelato più permeabile di palazzo Grazioli: porte girevoli, gente che va gente e che viene, candidature imbarazzanti, nomi arrivati nelle liste per le elezioni europee o amministrative senza nessuna trafila o competenza.
E a immolarsi per difendere il leader-fondatore dalle accuse delle escort sono rimasti il solito Daniele Capezzone e la coppia dei Beni culturali, il ministro Bondi e il sottosegretario Francesco Giro, il bunker del Collegio romano, li chiamano nel partito. Così in tanti invocano un cambio di rotta immediato: un segretario organizzativo al posto di Verdini-Bondi-La Russa da nominare subito, entro l’estate, una macchina da guerra da mettere in campo subito, per non farsi cogliere impreparati quando arriverà il terremoto politico più sconvolgente degli ultimi anni.
Le prossime settimane, infatti, decideranno il futuro di Berlusconi. Prima il G8, ad alto rischio flop. Poi le leggi più delicate da varare entro la pausa estiva, a partire da quella sulle intercettazioni approvata dalla Camera e ora in discussione al Senato. Infine, il passaggio più a rischio, la sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano che impedisce i procedimenti a carico del premier fino alla scadenza del mandato: una bocciatura della Consulta sarebbe letale per il Cavaliere, in una maggioranza dove ognuno gioca la sua partita, come se la legislatura fosse al capolinea e non all’inizio.
C’è il presidente della Camera Gianfranco Fini, sempre più compreso nel suo ruolo istituzionale. Pronto a passare da un convegno sul parlamentarismo con la tedesca fondazione Adenauer a un incontro a Madrid con il think tank dell’ex premier Josè Maria Aznar, dalla benedizione per l’associazione ‘Italia Decide’ presieduta da Luciano Violante al lavoro sul ‘patriottismo costituzionale’, tra frasi di Habermas, Daherendorf, Piero Calamandrei, Giuseppe Mazzini e Rousseau: “La patria non esiste senza virtù”. Citazione perfetta per un aspirante inquilino del Quirinale, soprattutto ora che il candidato naturale, Berlusconi, su vizi e virtù manifesta qualche segnale di evidente confusione.
Con i suoi interlocutori il presidente della Camera giura di non essere disponibile per eventuali governi istituzionali, in caso di caduta di Berlusconi: la sua strada lo porta verso il Colle più alto, ogni deviazione rischia di allontanarlo dall’obiettivo. Per questo, segretamente, tifa perché Berlusconi resista ancora un po’ al suo posto: un premier ferito, azzoppato, per mandare avanti la legislatura di qualche anno. Non a caso, dopo la polemica sulle veline in lista che provocò la reazione della signora Veronica Berlusconi, il sito della fondazione finiana Fare Futuro è rimasto silenzioso: meglio non infierire ora che il risultato di far precipitare Silvio tra i comuni mortali è stato raggiunto. Mentre l’ex sdoganato Fini, al contrario, sta ascendendo tra i padri della patria.
Silenzio condiviso dall’altro big della maggioranza, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Non ha speso una parola per difendere Silvio. È toccato a un amico, un deputato veneto del Pd, raccogliere il suo sfogo nell’emiciclo di Montecitorio: “Mi parli di federalismo? Ma non vedi che qui sta crollando tutto…”. E in pochi ricordano che la rottura con Berlusconi si è consumata non sulla politica economica, ma su un terreno più politico.
Durante la seduta del Consiglio dei ministri chiamato ad approvare il decreto che avrebbe imposto l’alimentazione a Eluana Englaro, lo scorso gennaio, Tremonti fu l’unico ministro a mettere in guardia sulle conseguenze del provvedimento: “Attenzione, se Napolitano non firma il decreto andiamo dritti allo scontro istitzionale”. Berlusconi non gradì per niente, e da allora Tremonti è entrato nella lista nera dei potenziali traditori. Ma anche in testa ai possibili candidati per la guida di un governo di emergenza nazionale in caso di caduta di Berlusconi, con l’appoggio di Massimo D’Alema e del Pd.
Il favorito a Palazzo Chigi, se la situazione dovesse precipitare, resta però l’attuale sottosegretario Gianni Letta. L’unico in grado di garantire la tregua tra i poteri dello Stato dopo un cataclisma di tale portata. Non a caso Sua Eminenza da Avezzano è finito sotto gli attacchi neppure tanto velati di una parte del Pdl. Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello ne hanno chiesto l’audizione al comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti come responsabile politico dell’intelligence e dunque della sicurezza e della privacy del premier.
“Letta è troppo istituzionale per occuparsi di servizi segreti, qui siamo in guerra, serve un personaggio che abbia la mentalità del militare”, detta un falco ex Forza Italia, esponente della corrente che spinge Berlusconi verso la linea dura e vorrebbe bloccare la strada verso un eventuale governo delle larghe intese, presieduto dallo stesso Letta. Ma sulla reazione allo scandalo delle escort, per la prima volta, gli azzurri appaiono spaccati. Il dopo-Berlusconi non è un tabù, neppure nel Pdl.
C’è chi se la prende con i più scalmanati del governo: “Ministri come Sacconi o Brunetta che in tempi di crisi invocano la spaccatura con i sindacati. Gente che ha i glutei al posto della testa”. E c’è chi invoca il ritorno dei vecchi saggi, i padri nobili, i Pisanu, i Martino, i Pera, da affiancare a Berlusconi: una specie di cordone sanitario, un collegio di badanti per il premier sull’orlo di una crisi di nervi.
Sulla capacità di tenuta di Berlusconi di fronte alla raffica di inchieste, rivelazioni, interviste, memoriali, fotografie, aspiranti ragazze immagine, trans, slave vestite da babbonataline e altri colpi di scena (“la coca, quella no!”, giura un forzista della prima ora, forse per darsi coraggio) si regge la possibilità della legislatura di proseguire. La minaccia di riportare il Paese alle elezioni anticipate, per l’ennesima ordalia, il referendum pro o contro Berlusconi, è sempre sul tavolo, un copione già ripetuto con successo in altre occasioni.
La Lega di Umberto Bossi lo spinge a sfidare i nemici, sicura di sopravvivere al cataclisma, una parte del Pdl lo invita a dare la caccia al traditore interno. Ma il Cavaliere sembra colto da un’improvvisa esitazione, da una malinconia. L’effetto che fanno le luci che si spengono al termine di una festa, come quelle che allietavano il premier al primo piano di palazzo Grazioli. Un’atmosfera deprimente da spettacolo concluso, uno show che si interrompe all’improvviso, un’emozione spezzata. Ma il timore di Silvio è che ora la giostra possa finire anche a palazzo Chigi.