L’Aquila dimenticata
Il parroco di Tempera: «Non ci dicono la verità»
IL VIDEOREPORTAGE in CINQUE PUNTATE
Da lunedì 25 ottobre a venerdì 29 ottobre: ogni giorno on line su Corriere.it una puntata del videoreportage su L’Aquila realizzato dal giornalista Ruben H.Oliva. Un viaggio per capire a che punto siamo con la ricostruzione da quel 6 aprile del 2009 che portò morte e distruzione. Un viaggio per cogliere umori, sensazioni, speranze e delusioni.
L’AQUILA – Domenico ti fulmina con lo sguardo mentre cammina sul cumulo di macerie in cui un tempo c’era Tempera, il suo paese. Non si è ancora rassegnato, ma l’esperienza di questi ultimi diciotto mesi gli ha fatto perdere ogni fiducia nello stato italiano. Don Giovanni Gatto, parroco di Tempera, mentre racconta come sia riuscito a salvarsi per miracolo, indica con tristezza la montagna di pietre ed erbacce che ha presso il posto della sua chiesa.
Lungo le statali che avvolgono l’Aquila, i cartelli con i nomi di paesi e borghi fantasmi sono tanti. Basta abbandonare l’asfalto e inoltrarsi lungo strade sterrate per assistere ad uno spettacolo agghiacciante, diventato ormai normale. Poltrone, televisori, resti di bagni e cucine, spuntano tra i detriti per raccontare come un tempo in questi luoghi c’era la vita. Il signor Maurizi, orgoglioso proprietario del albergo ristorante “La cabina” di Castelnuovo, si è dovuto costruire a spese sue una baracca di legno sul bordo della strada. Il nuovo e precario bar si chiama «La cabina 2» e dista pochi passi dai resti della struttura precedente. Ora Maurizi tira a campare immerso nei debiti: il sima ha raso al suolo i sacrifici di tre generazioni d’emigranti in america e in Germania.
Benvenuti ad un Aquila di cui tanto si è parlato e poco si è visto, diventata drammatico bottino della politica. Nel centro storico della città abruzzese, ci si aspetta di vedere o sentire l’assordante rumore di ruspe o il movimento di camion e gru. Invece niente, un silenzio innaturale ti accompagna mentre cammini nei vicoli di quello che rimane del bellissimo centro storico.
Le new town, piccoli quartieri di case nuove, costruite a peso d’oro, stonano con il paesaggio circostante. Chi ha avuto la fortuna di finire in questi quartieri inizia a intuire che ci dovrà rimanere, se tutto va bene, almeno 30 anni. Le case consegnate personalmente dal premier Berlusconi, appena ci si entra, appaiono molto diverse da come le abbiamo viste in televisione. Sono piccole e di mura sottili (e non funziona niente già dalla prima settimana, i mobili sono di cartone. N d Lucio). Come spiega un terremotato «dopo mesi in tenda pure una baracca ti sarebbe sembrata una regia».
L’Aquila appare molto diversa da quella mostrata fin ora. Le macerie non sono state rimosse, la gente vive in un clima d’angoscia crescente. Il numero dei morti, dei suicidi, dei divorzi e dell’uso di psicofarmaci è aumentato nel silenzio generale. Il dottor Alessandro Sirolli, direttore del centro psichiatrico diurno dell’Asl 1 dell’Aquila non ha dubbi: «Ci nascondono le cifre del disastro umano» racconta. Gli effetti distruttivi sulla psiche umana, dopo il sisma e lo stato di crisi, sono stati devastanti.
Di ricostruzione non se ne parla più né in consiglio regionale né tra la gente. La speranza è ridotta al lumicino mentre un secondo inverno è alle porte. Un dramma umano che si svolge lontano anni luce dalle aule parlamentari e dalle sedi dei partiti. La sensazione è che l’Aquila, questo pezzo d’Italia, sia stata rimossa dall’immaginario collettivo e che il cartello posto all’ingresso di una delle centinaia di baracche di legno in cui trascorrere quel poco di vita sociale che ancora rimane – dove si legge «questa è l’Italia del si salvi chi può» – non sia frutto del qualunquismo quanto piuttosto la fotografia di una realtà con cui dovremmo fare i conti per molti decenni.
Ruben H Oliva (Corsera)
25 ottobre 2010