Feltri e la sua “macchina del fango” agli ordini di burlesquoni.

Feltri e la sua “macchina del fango”

assolti dall’Italietta del quieto vivere

Le critiche all’Ordine dei giornalisti per le sanzioni al direttore del Giornale “cancellano” le campagne dettate da Berlusconi, e costituiscono una lesione alla libertà di stampa
di GIUSEPPE D’AVANZO

babbuino

Una policroma assemblea di Tartufi ci sta spiegando che quando parliamo della sanzione inflitta a Vittorio Feltri, direttore editoriale de il Giornale, discutiamo di libertà di stampa. Nell’assembramento si scorgono personaggi solitamente compatibili come il cane e il gatto.

Per fare qualche nome: Pierluigi Battista, il liberale QC (quando conviene) del Corriere della sera, e l’inflessibile direttore de il Fatto Antonio Padellaro, “un comunista di merda” (la definizione affettuosa è di Feltri). Nella mischia, con il sorriso canzonatorio d’ordinanza fa capolino il direttore del Tg7, Enrico Mentana. Simula una furba equidistanza e appioppa ai suoi telespettatori una frottola: “… e comunque la notizia data da Feltri era fondata”. Quel che accade non è nuovo perché è antica, nell’Italietta nostra, la tolleranza per i vizi altrui e stupefacente la capacità dell’establishment di perdonare e perdonarsi. Un lavoro comodo da sbrigare. Si afferra un fatto concreto, lo si frulla fino a farne un’astrazione e il gioco è fatto. La rimozione è compiuta, ora si può andare avanti con le cattive abitudini di sempre.

Le commosse geremiadi per la libertà di stampa, in questo caso, servono a nascondere all’opinione pubblica tre fatterelli concretissimi. Uno. L’assassinio mediatico di Dino Boffo, il direttore de l’Avvenire che, con prudenza, biasima l’Egoarca perché “frequenta minorenni”. Due. Il falso indiscutibile di un giornalismo degradato a tecnica di

intimidazione. E’ quel che Mentana sottrae alla vista dei suoi spettatori: Feltri pubblica una “velina” fabbricata da non si sa chi, la presenta come una “nota informativa” inserita in un fascicolo giudiziario e accusa il direttore dell’Avvenire di omosessualità. Tre. Il character assassination di Boffo è soltanto la prima incursione di una pianificazione predisposta da chi governa per intimorire chi dissente. Svela una “macchina del fango”. Mostra un letale dispositivo di potere che si alimenta di menzogne distruttive a fini politici. Chi si muove in nome e per conto di un meccanismo di questa violenza può invocare la libertà di stampa? Questo lavoro può dirsi giornalismo?

Conviene muovere da qui e ricordare quel che si vuole oggi cancellare e fare il nome che conta perché Feltri è soltanto il cinico interprete – nemmeno il più rilevante, come vedremo – di una bozza scritta da Silvio Berlusconi. Si può davvero affrontare questa storia di sicari senza fare il nome del mandante?

Va detto che Berlusconi conosce un solo modo per tenersi stretto un potere che non ha fini e conosce solo i mezzi. E’ il lavoro pubblicitario di un giornalismo servile che annulla ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione che elimina ogni criterio di verità. E’ un racconto che produce un’ignoranza delle cose e esibisce un’Italia meravigliosa e in pace con se stessa. Per questa ragione Berlusconi ingaggia l’obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Non si accontenta. Qualcuno lo ricorderà: non gli va giù l’autonomia dei direttori del Corriere (Paolo Mieli) e de la Stampa (Giulio Anselmi). “Dovrebbero cambiare mestiere”, dice da Tirana. Esaudiscono il desiderio. Mieli e Anselmi davvero cambiano mestiere. Anime fioche fino ad ieri, gli occhiuti custodi della libertà di stampa di oggi non si accorgono di quel che accade alla libertà di stampa nemmeno quando perde il posto Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix. Sono momentaneamente muti e sordi e ciechi. Poi il premier si caccia nei guai festeggiando a Casoria una minorenne e, per fronteggiare la crisi, anche Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona. A Vittorio Feltri. Giordano spiega così le ragioni: “Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (…) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove”. Giordano è esplicito: l’editore mi ha chiesto di fare del mio quotidiano un’officina di veleni, il decoro me lo impedisce e lascio l’incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.

Notate l’elenco che mette giù Giordano: “direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati”. E’ esattamente il catalogo di target contro cui, appena insediato, Vittorio Feltri scatena la “macchina del fango” del suo falso giornalismo. “Assassina” Dino Boffo (il direttore dei giornali). Calunnia l’editore di questo giornale (ingegnere). Scredita Veronica Lario (first lady) accusandola di essere l’amante del suo caposcorta (body guard). Come un avvoltoio, scuote la tomba di Giovanni Agnelli (avvocato). Al povero Giordano non hanno detto (o Giordano l’ha taciuto nel commiato) che c’è un altro bersaglio – il più politicamente rilevante – nell’agenda predisposta dal Cavaliere: Gianfranco Fini. Feltri lo affronterà subito con modi da guappo: si rimetta in riga o gli faccio piovere addosso uno scandalo a luci rosse.
Chi non capisce ora che Feltri s’è trovato già pronto il copione da interpretare che l’altro, Giordano, conosce e si rifiuta di mettere in scena? Feltri si accontenta di un gioioso conto in banca e si compiace di apparire facendo la faccia feroce. Per il resto, non fa storie. Digerisce anche le pietre. Lo confessa. Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo. Feltri la pubblica. La foto di Veronica Lario – “velina ingrata” – a seno nudo? Che ne sa lui, gliel’ha messa sul tavolo Sallusti perché, sapete – confida Feltri – io, Berlusconi, non lo sento mai; lui sì, ogni giorno, a quanto pare. L’intervista che disonora Veronica Lario dicendola amante di Antonio Orlandi, body guard? E che ne so io – dice in confidenza a Luca Telese – “l’intervista l’ho letta ch’era già in pagina, l’aveva fatta Sallusti e non io…”.

Facciamola corta, Vittorio Feltri – a credergli – non sa nulla. E’ il direttore che non dirige, non controlla, non filtra, non sceglie. Fanno tutto gli altri. I piani di battaglia vengono preparati ad Arcore da Berlusconi, editore e premier. Gli ordini sono trasmessi ad Alessandro Sallusti che s’incarica di infiocchettarli per bene e farseli vidimare da Feltri che non dice mai no e di suo aggiunge sessanta righe.
Una volta svelata la macchina del fango, scoperta la sua meccanica, portate a nudo le funzioni e i protagonisti, se ci fosse qualche traccia d’archetipo del sentimento morale – che so, vergogna e colpa – l’affare sarebbe chiuso. Sarebbero sufficienti quel che si chiamano “sanzioni di vergogna”. Chi è responsabile di comportamenti scorretti viene escluso dall’ambiente. Sarebbe un danno ben più grave della sospensione di tre mesi dal lavoro (pensate soltanto al denaro che Feltri ci rimetterebbe). La “shame culture” sottintende però un’etica e la sua condivisione.

Come ci insegna la policroma assemblea di Tartufi, l’establishment giornalistico non ritiene che la perdita di reputazione – e soprattutto di credibilità – costituisca un danno per chi fa informazione. Chiede a gran voce che un Ordine dei giornalisti senza legittimità non infligga alcuna sanzione al “povero Feltri”. Dicono: c’è il codice penale e civile per quello. Salvo poi, quando interviene la magistratura (come per i dossier in preparazione contro la Marcecaglia), strepitare come oche del Campidoglio contro l’invasione di campo del potere giudiziario. C’è qui la stupefacente vittoria del mondo berlusconiano, il trionfo di una cultura che ignora i tormenti della coscienza infelice, rifiuta ogni regola per i suoi piani e argine per i suoi impulsi, pretende un’esenzione da ogni punizione perché così fan tutti. Non è vero, non tutti fanno così. Non tutti, come Feltri, hanno degradato l’informazione in comunicazione al servizio del potere trasformandola nell’ingranaggio di una macchina politica che scatena contro i suoi antagonisti campagne di denigrazione. Feltri si accontenti dei tre mesi di sospensione. Gli è andata bene. L’informazione non sentirà la sua mancanza. E’ vero, mancherà alla comunicazione politica di Silvio Berlusconi, sempre che quello non si consoli con il veloce Sallusti.

(14 novembre 2010)

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