L’ULTIMA BEFFA DELLA BABYSITTER COATTA E IGNORANTE ALLE SPALLE DEGLI ITALIANI. CON TUTTI QUEI MILIONI SI POTEVANO ISTRUIRE IN ITALIANO, FORMARE E METTERE A LAVORARE UN MILIONE DI PROFUGHI, CHE SONO QUASI TUTTI LAUREATI, DIPLOMATI O TECNICI. CHI PAGHERA’ LE PENSIONI DI QUI A 30 ANNI, SE CHI LAVORA OGGI E’ APPENA UN TERZO DELLA POPOLAZIONE, NON NASCONO BAMBINI E SIAMO PIENI DI EVASORI FISCALI?

“Migranti in Albania, lo spot di Meloni: spese milionarie per appena 700 posti”

di Alessandra Ziniti

Palazzo Chigi prepara il provvedimento per costruire le strutture

per i richiedenti asilo: servono 100 milioni, il doppio che in Italia.

https://www.repubblica.it/economia/2023/12/04/news/migranti_albania_meloni_costi_spese_posti-421564277/?ref=RHLF-BG-INaN-P5-S1-T1

  • CAZZO CI AVRA’ DA RIDERE COSI’ SGUAIATAMENTE? MAH…
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E LO SPUTTANAMENTOOO… OH OH!

Segreti di Pulcinella.
Il rinvio a giudizio di Delmastro non cambia nulla, perché l’intero governo ha già confessato.

Di Francesco Cundari


Il centrodestra, che da sempre accusa la sinistra di utilizzare le intercettazioni per attaccare gli avversari, continua a rivendicare il proprio attacco all’opposizione sulla base di un’«informativa» della polizia penitenziaria. E questi sarebbero i garantisti.
Non è facile afferrare il punto di tutto il dibattito politico e giornalistico seguito alla notizia del rinvio a giudizio di Andrea Delmastro. Il sottosegretario alla giustizia di Fratelli d’Italia, come è noto, è accusato di avere spifferato al collega di partito Giovanni Donzelli il contenuto di un’informativa della polizia penitenziaria su alcune conversazioni avvenute in carcere tra l’anarchico Alfredo Cospito e altri detenuti condannati per mafia. Notizie che il suo collega (nonché storico coinquilino) ha utilizzato per attaccare l’opposizione in parlamento, in diretta televisiva, in un intervento doppiamente vergognoso.

Brevissima spiegazione dell’ovvio: l’attacco di Donzelli era vergognoso prima di tutto nel merito, perché accusava i parlamentari del Partito democratico di stare dalla parte dei terroristi e della mafia per il semplice fatto di avere esercitato la loro prerogativa di visitare in carcere un detenuto in sciopero della fame (Cospito); ma era altrettanto vergognoso per il metodo, cioè l’utilizzo di conversazioni intercettate dall’amministrazione penitenziaria e finite nella suddetta informativa (ovviamente da lui disinvoltamente piegate allo scopo di insinuare l’idea di una sostanziale collaborazione tra Pd, mafia e terroristi).

La distinzione di lana caprina tra intercettazioni propriamente dette, captazioni, origliamenti, conversazioni ascoltate e sintetizzate più o meno liberamente nel documento la lascio a Delmastro e ai suoi avvocati, perché qui non ha alcun rilievo (ammesso che ce l’abbia da altre parti). L’unica cosa che dovrebbe rilevare qui è che i fatti, nudi e crudi, per come li ho sommariamente riportati, nessuno li ha contestati. Tutta la difesa di Del Mastro ruota infatti attorno alla questione della classificazione formale del documento, in quanto segreto, riservato o a «limitata divulgazione», e dunque sulla liceità o meno del comportamento del sottosegretario. Il fatto che sia stato lui a dare quelle informazioni a Donzelli non solo non è contestato, ma è addirittura rivendicato. Vale dunque la pena di fermarsi un attimo e unire pazientemente i puntini. Procediamo con ordine.

Quel centrodestra che da trent’anni accusa la sinistra di utilizzare le inchieste, i verbali delle procure e in particolare le intercettazioni per attaccare gli avversari politici, attacca in parlamento il Pd utilizzando un’informativa della polizia penitenziaria riguardante le chiacchierate di un detenuto con altri detenuti.

Quel ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che da trent’anni passa per fior di garantista, e che in nome di tale trentennale battaglia vorrebbe riformare l’intero sistema giudiziario, non solo non ci trova nulla da ridire, ma si arrampica sugli specchi per difendere il suo sottosegretario, distinguendo speciosamente tra documenti segreti, riservati e a limitata divulgazione, avallando così la bizzarra teoria secondo cui se in un documento è scritto «a limitata divulgazione» non significa che il suo contenuto non possa essere declamato pubblicamente in parlamento, per giunta in diretta tv.

Quello stesso governo che ogni due giorni denuncia complotti della magistratura per farlo cadere – da ultimo con il ministro della Difesa, Guido Crosetto – difende e rivendica l’utilizzo di simili strumenti per colpire i suoi avversari.

Questi sono i fatti, non controversi e non contestati da nessuno. Fatti che a me paiono peraltro assai gravi, perché indicano una spregiudicata inclinazione a utilizzare nella lotta politica tutti gli strumenti disponibili, mettendo a rischio la terzietà delle istituzioni e la divisione dei poteri.

Come tutto questo possa cambiare di una virgola perché un gup ieri o un collegio giudicante domani dice che in italiano «a limitata divulgazione» significa da non divulgare, o invece da affiggere ai muri, sinceramente fatico a capirlo.

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GIORNALISTI CHE CREDONO AI GIORNALASTRI E AI SONDAGGI DELIRANTI IMPOSTI DALLA MAFIA RUSSA. E SE RENZI NON FOSSE AL 3% MA GIA’ AL 13% DI VOTI VERI ALLE URNE? POI, “SENZA TRUPPE” LO DITE VOI. NOI VEDIAMO SEMPRE UN MARE DI CITTADINI AD OGNI SUA APPARIZIONE IN PUBBLICO E SAPPIAMO DEI PUNTI DI SHARE IN PIU’ CHE PORTA ALLA POCHE TRASMISSIONI TV CUI PARTECIPA. QUINDI: CALMA E GESSO. (L.S.)

Così Renzi usa la leva della giustizia

di Stefano Folli

Un’opposizione fatta di precisi rilievi e di proposte alternative può essere efficace anche se a scendere in campo è un singolo uomo senza truppe al seguito. (MA DOVE? MA QUANDO?)

Come è noto, Matteo Renzi è un personaggio totalmente inviso a sinistra, in particolare all’attuale gruppo dirigente del Pd. I suoi errori sono stati rilevanti e gli precludono qualsiasi via di ritorno nell’alveo di uno schieramento che nel frattempo si è radicalizzato.

L’idea riformista che alimenta ancora i laburisti inglesi, prossimi alla vittoria contro i conservatori, non ha insegnato granché all’asse Pd-5S-SI-Verdi.

Si preferisce l’intransigenza e talvolta la retorica che infiamma i militanti, ma non si sa quanto seduca un elettorato più ampio, bisognoso di risposte chiare e di un progetto per la società di domani.

Quindi Renzi con il suo 3 per cento si direbbe del tutto fuori gioco e probabilmente lo è. Del velleitario “terzo polo” sono rimaste le macerie e Calenda segue la sua strada con l’obiettivo di essere l’ala destra della sinistra. Renzi ovviamente no. Non crede più che questa sinistra abbia un futuro se non in chiave estremista.

Certo, il salario minimo è una proposta popolare, se si dimentica che non è stato approvato quando i progressisti erano al governo. Oggi è soprattutto una bandiera da sventolare in faccia al destra-centro.

Tuttavia fare l’opposizione in modo coerente è più complicato, richiede una duttilità e una capacità di cogliere i punti deboli dell’avversario che l’attuale Pd sembra non possedere. O magari non è interessato.

Chi conosce le tattiche e le astuzie dell’opposizione è invece Renzi. Con il suo partitino personale, che al momento non raggiungerebbe nemmeno il quorum alle elezioni europee, si è messo in cammino per destabilizzare la maggioranza.

Si dirà che è una missione impossibile, data l’esiguità delle forze. Ma un tattico astuto sfrutta le fragilità della controparte, si trasforma all’occorrenza nella zanzara che infastidisce l’elefante.

È l’arte in cui Renzi eccelle, trovando nella premier una figura con cui ama duellare. Giorni fa in Senato ha ricevuto una risposta sarcastica dalla presidente del Consiglio («ne parli con il suo amico Bin Salman»), ma solo perché l’aveva messa in difficoltà sulle promesse non mantenute. Promesse specifiche, per esempio abbassare le accise sulla benzina e quindi il prezzo.

L’aveva fatto il governo Tambroni nel ‘60, ma allora non si chiamava populismo. Sta di fatto che Meloni ha risposto d’impeto: «Io non ho la bacchetta magica», per sottolineare che i Paesi produttori si fanno pagare caro il petrolio.

L’episodio è secondario, ma serve a ricordare due punti. Il primo è che la premier è molto sensibile alle accuse d’incoerenza, se sono ben circostanziate.

Il secondo è che la frase: «Io non ho la bacchetta magica» equivale a un altro passo nel mondo del realismo. Lo stesso realismo per cui non era possibile attendersi una vittoria di Roma nel concorso per l’Expo 2030.

Ma per tornare a Renzi, un’opposizione fatta di precisi rilievi e di proposte alternative può essere efficace anche se a scendere in campo è un singolo uomo senza truppe al seguito.

Perché parla all’opinione pubblica più che ai parlamentari. E sembra ingiusta l’accusa all’ex premier di voler banalmente puntellare il destra-centro per poi essere invitato a bordo.

Al contrario, lui ha l’ambizione, forse velleitaria, di far deragliare il trenino. Per questo ha scelto il tema della giustizia, lo stesso a cui si aggrappa Forza Italia.

E per questo appoggia Nordio e la sua riforma liberale, insabbiata al momento da Palazzo Chigi nel punto cruciale: la separazione delle carriere. Anzi, arriva a giustificare Crosetto per la sua mini-crociata contro i magistrati faziosi.

In sostanza usa la giustizia come leva per incrinare le certezze di un governo che ha abbandonato l’enfasi sulla riforme (salvo il “premierato”) tipica dell’atmosfera in cui nacque l’esecutivo Meloni.

RICORDIAMOCI SEMPRE LE ANALISI DEL SAGGIO PIU’ LUCIDO D’ITALIA:

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ECCO UN ALTRO DEI “MIRACOLI” DI #RENZI, NATO PER SUA VOLONTA’ DURANTE L’EXPO’ PIU’ IMPORTANTE DI SEMPRE A MILANO. DOVE PORTO’ IL MONDO INTERO.

GRAN MILANO

Il ritorno dei “cervelli” abita qui, tra lo Human Technopole e il MIND

DANIELE BONECCHI 18 NOV 2023

Viaggio nell’area innovativa della Milano dei saperi, che in pochi anni sta mantenendo tutte le promesse del progetto

Sullo stesso argomento:

Stefania Giussani è una dei cento ricercatori che popolano il pianeta di Human Technopole e come molti altri giovani sta percorrendo a ritroso la strada dei cervelli in fuga, che terrorizza il mondo dell’impresa italiana, e anche di più, e con meno costrutto, quello mediatico. Stefania da Como – classe 1991 – ha fatto l’università a Varese, frequentando il corso triennale di Biologia all’Insubria, per proseguire al Molecular Biology and Genetics dell’Università di Pavia (corso in inglese). “Poi – spiega – ho svolto un dottorato presso un’azienda di Siena, per tre anni. Ho iniziato a studiare il sistema immunitario del cervello in un laboratorio di Oxford grazie a tre anni di studi come ricercatore dopo il dottorato. Un’esperienza formante, anche perché vivere all’estero è stato importante. Non mi è pesato perché mi piace viaggiare anche se nel periodo del Covid è stato più complicato tornare a casa di tanto in tanto, ma anche vedere ciò che succedeva in Italia senza poter far nulla”. Ma che cosa spinge i giovani “cervelli” a fare esperienze di studio e lavoro all’estero? “L’esperienza, quella di Oxford mi ha permesso di conoscere molte persone, fare conoscenze in giro per l’Europa, insomma mi ha formato. Ma la mia idea era di tornare sul continente: Germania o Svizzera. È arrivata inattesa l’opportunità di Human Technopole a Milano e ho deciso di provare col gruppo di Oliver Harschnitz (Group Leader al Centro di ricerca per la Neurogenomica), che a me interessa molto e il tipo di scienza che pratica mi è piaciuta subito. Si tratta di ricerca su cellule staminali e il sistema immunitario nel cervello, quindi neuroimmunologia”. A cosa sta lavorando? “In particolare sto studiando le interazioni tra neuroni e cellule del sistema immunitario che risiedono nel cervello per capire come rendere questa malattia meno invasiva, infatti questa malattia provoca deficit a lungo termine e quindi è necessario cercare di capire come evitare questi deficit neurologici”, conclude Stefania Giussani.

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Persone in gamba, non fessi

La partita delle riforme: un’opportunità per molti

Scrive Andrea Ruggieri — 10 Novembre 202

“A naso, non mi sembra una grande idea quella di poter sostituire il premier eletto con un altro parlamentare di maggioranza, per sbarrare la strada ai governi tecnici. Perché i segretari di partito puntano dichiaratamente (si è già visto nelle ultime tornate) a riempire il Parlamento di gente anonima, a volte persino mediocre o fessa, che come unico pregio ha quello di non poter mai fargli ombra. Non vorrei dunque si potesse arrivare mai al paradosso di ritrovarsi, al posto di un premier eletto, un suo sostituto inadeguato, magari ritenuto più governabile. Abbiamo bisogno di persone in gamba, non di fessi!”

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Berlusconi, Dell’Utri e i rapporti con i boss: UNA SENTENZA ALL’ACQUA DI ROSE PER I PEGGIORI CRIMINALI DEL DOPOGUERRA.

DELL’UTRI HA SOLAMENTE MESSO IN CONTATTO #BONTADE, #RIINA E #BAGARELLA COL SIOR SILVIO. DOPODICHE’ HA FATTO SOLO IL FATTORINO E HA DATO QUALCHE IDEA: QUELLA DEI #GEORGOFILI, PER ESEMPIO. QUESTE RICOSTRUZIONI FANNO ACQUA DA TUTTE LE PARTI. O MI VOLETE CONVINCERE CHE IL DOTTO SIOR #RIINA SAPEVA QUALCOSA DEI #GEORGOFILI DA ATTACCARE? UN VILLANO MAI USCITO DAL SUO CORTILE, SE NON PER ANDARE A QUALCHE SUMMIT IN VIA ROVANI E AL RISTORANTE SOTTOSTANTE COL MAFIONANO E LE DUE #CUPOLE A MILANO? E DUNQUE HO RICICLATO IO – FIN DAL 1975 – LE CENTINAIA DI MIGLIAIA DI MILIARDI SPORCHI DI SANGUE PER ACQUISIRE UN IMPERO TELEVISIVO, I PIU’ CARI CALCIATORI DEL MONDO, MAGISTRATI, GENERALI IN UNIFORME, COMIS DI STATO GRANDI E MEDIE SOCIETA’ CON LE BUONE O CON LE CATTIVE?

Berlusconi, Dell’Utri e i rapporti con i boss

Nessuna condotta perseguibile sulla trattativa Stato-Mafia per il braccio destro di Silvio Berlusconi, ma l’evidenza che l’ex Presidente del Consiglio non poteva non sapere dei rapporti di Dell’Utri con i boss, soprattutto nelle prime fasi di Forza Italia, il periodo precedente e successivo alla sua discesa in campo. “Sarebbe, parimenti, illogico sostenere che Dell’Utri, che pure aveva avuto un ruolo determinante della fondazione di Forza Italia, non abbia riferito nulla dei suoi contatti per un possibile sostegno elettorale con esponenti di vertice di Cosa nostra all’amico imprenditore Silvio Berlusconi… L’interlocuzione tra Berlusconi e Dell’Utri su tali argomenti, del resto, non poteva che essere diretta, esclusiva e riservata… Escludere Berlusconi dai rapporti pericolosi intrattenuti da Dell’Utri con i vertici mafiosi significherebbe, dunque, irrazionalmente immaginare che l’imputato abbia deciso da solo, senza avvertire il suo dominus, su questioni di così vitale importanza, che riguardavano la sicurezza collettiva, in ragione della sempre incombente minaccia di nuove stragi, e che coinvolgevano anche la tenuta della coalizione di maggioranza”.

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IL GOVERNICCHIO DEI DIETROFRONT: ARMIAMOCI E… PARTITE!

Governo, l’incapacità di scegliere

di Walter Galbiati

Dalla tassa sugli extra profitti delle banche alle pensioni dei medici: ecco tutti i dietrofront dell’esecutivo Meloni.

A volte tornare sui propri passi è segno di maturità. Ma quando si fa ripetutamente viene da pensare che sia più dovuto all’incapacità di scegliere la via giusta che ad altro. Nell’arco di tempo in cui è stata pensata questa manovra il governo ha più volte montato e smontato svariati provvedimenti.

L’ultimo intervento porta la data di ieri (mercoledì 8 novembre), quando l’attuale maggioranza si è accorta di aver tagliato talmente tanto le pensioni dei medici che smetteranno di lavorare il prossimo anno da innescare una corsa all’uscita entro la fine di dicembre, con il rischio di azzoppare una sanità già carente di personale. E da qui il ripensamento.

Ma il primo e forse più eclatante dietrofront è stata la tassa sugli extra profitti delle banche che avrebbe dovuto produrre le coperture per il taglio delle tasse dei lavoratori più poveri. Era intervenuta direttamente Giorgia Meloni, rivendicando il merito di aver pensato a un balzello con il compito di togliere miliardi alle ricche banche, colpevoli di aver lucrato alzando i tassi sui mutui senza al contempo fare lo stesso con i risparmiatori remunerando i soldi sul conto corrente.

Secondo le trimestrali pubblicate negli ultimi giorni, lo Stato avrebbe incassato quasi due miliardi di euro, ma la marcia indietro sotto la spinta di Forza Italia ha di fatto annullato l’incasso perché è stata data la possibilità alle banche di accantonare quei soldi come patrimonio, invece di versarli allo Stato sotto forma di tasse.

Sempre i mal di pancia di Antonio Tajani hanno portato a un altro clamoroso cambio di rotta sulla cedolare secca. Toccare la rendita delle case per il centrodestra è cosa da comunisti. Così l’idea di alzare la tassa sugli affitti brevi dal 21 al 26 per cento portandola a qualcosa di simile, se non all’Irpef, almeno alle rendite finanziarie, è stata prima sbandierata e poi ridimensionata, conservandola nella forma del 26 per cento solo per chi affitta almeno due case, a partire dalla seconda.

Ma le inversioni a U più clamorose sono state compiute sui provvedimenti ritenuti più identitari dagli attuali membri del governo. Quelli a favore della famiglia, tanto cari a Giorgia Meloni. E quelli sulle pensioni, su cui Matteo Salvini si era più volte speso pubblicamente.

Uno dei pallini della premier è far ripartire la natalità in Italia, un po’ perché per lei è meglio avere più italiani che stranieri, un po’ perché si è accorta che senza braccia l’economia non cammina. In conferenza stampa è arrivata baldanzosa per annunciare l’asilo gratis per tutti i secondi figli. Salvo poi correggersi dicendo che più che gratis era una sorta di contributo. Stesso copione sulla decontribuzione: meno contributi da versare per tre anni per le donne assunte con più di due figli, salvo poi farfugliare che, se va bene, questo sarà solo per un anno.

Ancora, lo scorso anno il governo di centrodestra aveva pensato di abbassare l’Iva sui prodotti per l’infanzia al 4 per cento. Oggi, benché quell’intervento abbia prodotto qualche beneficio, Meloni ha deciso di tornare alla vecchia Iva riportandola al 10 per cento sui pannolini e al 22 per cento sui seggiolini.

Il capolavoro, però, è sulle pensioni, dove l’esecutivo ha superato quello che avrebbe potuto fare un governo tecnico, come quello di Mario Monti. Governi tecnici contro i quali la maggioranza sta pensando addirittura a una riforma costituzionale. Di fatto sono state alzate le condizioni per andare in pensione e peggiorati i parametri rispetto alle norme introdotte dalla tanto odiata Fornero.

La promessa agli elettori era di smantellarla, ma poi nella prima versione della manovra non solo il governo ha peggiorato le quote che pure Draghi era stato costretto a introdurre, ma ha abbassato le pensioni ai Millennials modificando i coefficienti. E infine ha alzato l’età per chi volesse usufruire di opzione donna e ape sociale.

Tutti interventi restrittivi che avrebbe potuto compiere un governo tecnico, non certo uno di stampo populista come quello di Giorgia Meloni. Che si è accorto di aver tradito la propria natura e sta cercando di correre ai ripari. Con modifiche e contro modifiche dell’ultimo minuto.

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C’è molto poco da festeggiare

Sui migranti Meloni si concede lo show, ma l’accordo con l’Albania può essere un boomerang

Mettiamola così: al Viminale hanno i capelli ritti perché scrivere e definire a livello giuridico i punti chiave dell’accordo con l’Albania sarà cosa complessa assai; le opposizioni, Pd in testa, vogliono leggere l’intesa che poi dovrà essere votata dal Parlamento. Due reazioni più vicine di quel che sembra e che suggeriscono cautela nel festeggiare ed esaltare “il successo storico” della premier perché “per la prima volta un paese terzo rispetto alla Ue aiuterà uno stato europeo nella gestione dell’immigrazione illegale”.

I “risultati” del successo storico, infatti, sono rinviati di “qualche mese, più o meno aprile”. Solo allora sarà possibile valutare se il protocollo Italia-Albania per gestire circa 40mila migranti ogni anno rispetta diritti, accordi e convenzioni europee ed internazionali e se sarà efficace nella lotta ai trafficanti di uomini. Fino ad allora la maggioranza, soprattutto i Fratelli, potranno fare demagogia e propaganda senza dover rendere conto dei fatti. Quando arriverà il tempo della verifica, l’esternalizzazione fai-da-te della gestione dei migranti potrebbe rivelarsi un boomerang per la stessa credibilità della premier.

Con onesto pragmatismo occorre riconoscere che Giorgia Meloni lunedì ha sparigliato: nessuno se lo aspettava, pochissimi sapevano, se tutto va come previsto e raccontato il messaggio che arriva ai migranti è che la maggior parte di loro (circa 40mila l’anno) non arriverà più in Italia, non in Europa ma in Albania tuttora sub iudice nel processo di ammissione all’Unione europea. Se questo è un forte deterrente contro l’immigrazione illegale, tutto il resto, le regole d’ingaggio, il rispetto dei diritti e delle convezioni e le soluzioni finali sono un work in progress la cui fattibilità e il cui esito sono tutti da dimostrare. Partendo dalla fine, che poi dovrebbe essere sempre l’inizio di ogni ragionamento sul tema migranti, la domanda è cosa succederà dei 36mila migranti (su 40mila previsti, in genere solo il 10% ha diritto all’asilo) ristretti nella ex caserma albanese di Gjader quando alla fine dei 18 mesi dovranno essere rimpatriati. Una cosa è certa: se l’Italia non riesce a fare le espulsioni, non riuscirà neppure l’Albania. Il presidente albanese Edi Rama non ha avuto dubbi: “È chiaro che sono persone in carico all’Italia e non all’Albania”. Dunque alla fine di questa gita albanese, i migranti che non hanno diritto e che sono stati ristretti in Albania potrebbero essere trasferiti in Italia. E ritrovarci in casa il problema come e più di prima. La prova sarà disponibile nel pieno dell’estate, dopo il voto per le Europee. Fino ad allora, sarà show.

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Nel memorandum firmato lunedì a palazzo Chigi sono individuate le due aree che il governo albanese darà in gestione all’Italia. Il centro di prima accoglienza, dove saranno fatti i riconoscimenti e le valutazioni sul diritto all’asilo “entro i 28 giorni” previsti dal decreto Cutro, è previsto nel porto di Shengjin. Chi non ha diritto all’asilo sarà mandato a venti chilometri nella ex base militare di Gjader, con tanto di aeroporto, in attesa di essere rimpatriato. L’ex base militare sarà un Centro per il rimpatrio italiano in terra albanese: manutenzione, personale, giurisdizione italiana. Così come il centro di prima accoglienza di Shengjin. Un po’ come se fossero due ambasciate: territori italiano all’estero. Fuori dalle due strutture, la vigilanza e la sicurezza saranno in capo alla polizia, allo stato e alle leggi albanesi. Anche questo, con molto cinismo, può essere definito un deterrente.

Protocollo Italia-Albania

L’accordo tra i due Stati in sé non è un problema. Si può fare. Di sicuro non sottrae l’Italia, e neppure l’Albania, dal rispetto degli obblighi internazionali ed europei. Le organizzazioni umanitarie, da Amnesty a Medici senza frontiere, hanno già denunciato le violazioni del diritto d’asilo. La Commissione Ue, finora esclusa dall’accordo, attende dettagli perché il mix di diritto nazionale, internazionale ed europeo potrebbe risultare ingestibile. Anche Rama ha problemi in casa. Le opposizioni lo attaccano: “Che fai, ci porti la crisi italiana in casa?”. Come si vede, c’è molto poco da festeggiare.

Claudia Fusani

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