Quando è nata la macchina del fango del mafionano di Hardcore

La differenza tra inchieste e depistaggi. Il caso Telekom Serbia. La vicenda di Igor Marini fu così esplicita nelle sue connessioni, che Fassino disse apertamente: il suo burattinaio è a Palazzo Chigi. L’allora direttore del Giornale, Belpietro, sostiene che è stata Repubblica a creare il caso. Ma c’è un imbroglio: gli affari Telekom Serbia sono due

di GIUSEPPE D’AVANZO

MOLTO opportunamente Maurizio Belpietro, direttore del giornale della famiglia Berlusconi dal 2001 al 2007, ricorda l’affaire Telekom Serbia dalle colonne del quotidiano che dirige ora. Muove a ragion veduta perché, se la politica si fa scandalo mediatico, character assassination dell’avversario politico con dossier cucinati nella macchina del fango pilotata dal tycoon-premier, torna utile nominare quel “caso” che può essere definito il più assordante dossieraggio criminale della recente storia d’Italia.

Naturalmente, Belpietro evoca quello scandalo non per chiarire, ma per confondere. Non per

 confutare, ma per distrarre. Elimina ogni punto di riferimento della storia, nello sforzo di annullare ogni certezza. Nella convinzione che, quando si contrappone a un’affermazione intransigente (e documentata) un’affermazione altrettanto radicale (anche se falsa), nasce un contesto ingarbugliato che annulla ogni opposizione sollecitando nell’opinione pubblica soltanto l’indifferenza per come stanno davvero le cose.

Per ottenere il suo scopo, il già direttore del giornale della famiglia Berlusconi deve insudiciare le acque. Cita un’ordinanza del gip di Torino per dire che è stata Repubblica a creare il “caso Telekom” peraltro “con documenti non significativi” e non il Giornale: e dunque chi crea gli scandali e con quale attendibilità? C’è un imbroglio. È questo: gli affari “Telekom Serbia” sono due, non uno. Il primo, nato da un’inchiesta di Repubblica, dà conto di “un caso di corruzione internazionale”, come adombrano nel 2001 a Belgrado autorevoli fonti del governo del “dopo Milosevic”.

I fatti. 1997. Telecom Italia, allora nelle mani dello Stato, rileva il 29 per cento di Telekom Serbia per quasi 900 miliardi di lire. L’affare, avviato durante il governo del centro-destra (1994), viene condotto dal governo del centro-sinistra in modo confuso e peggio concluso. Slobodan Milosevic, leader e dittatore serbo, commenta “Quei mafiosi di italiani…” quando sa che è stato necessario pagare il 3 per cento a due mediatori (Gianni Vitali e Srdja Dimitrijevic). Non è l’unica stravaganza di quella trattativa. I consulenti di parte serba (NatWest e Weil Gotshal & Manges) sono liquidati dagli italiani, con parcelle miliardarie, per un impegno o inesistente (Natwest) o di poche ore (Weil Gotshal & Manges). Sono mediazioni miliardarie che non trovano una ragione accettabile. Altra stravaganza, la segregazione del “Closing memorandum”.

Confonde ancora di più l’assoluta indifferenza del governo (azionista di riferimento del monopolista della telefonia italiana) dinanzi a un affare che di fatto “salva” Milosevic dalla spallata dell’opposizione. È un’opacità che sollecita un interrogativo: i miliardi ottenuti dai mediatori, italiani e non, furono poi da loro incassati o furono “girati” ai manager o ai politici che favorirono un’operazione economicamente disastrosa (l’Italia ci ha perso in cinque anni circa 800 miliardi di lire) e politicamente assai critica (l’affare permise allo Jul di Mira Markovic, il partito della signora Milosevic, e ai socialdemocratici di Slobo di vincere le elezioni a dispetto delle manifestazioni organizzate, notte dopo notte, dall’opposizione)?

Questi i fatti e le domande dell’inchiesta di Repubblica, con il centro-sinistra al governo. Il giudice di Torino, Francesco Gianfrotta, nella sua ordinanza, vi accenna in modo asettico. Nessuna delle informazioni raccolte da Repubblica è contraddetta o ridimensionata. Anzi, scrive il giudice: “L’avvio dell’indagine penale – doverosa, dal momento che le notizie di stampa contenevano una notizia di reato – dovette, peraltro, fin dall’inizio misurarsi con difficoltà tutt’altro che modeste. I giornalisti non rivelarono le loro fonti, produssero alcuni documenti in loro possesso, ma il tenore di questi ultimi, oltre che il merito delle dichiarazioni da loro rese, offrivano, solo in modo generico, piste investigative che si profilavano, fin dall’inizio, lunghe e laboriose”.

Il giornalismo aveva fatto il suo lavoro, ora – annota il giudice – toccava al pubblico ministero fare il proprio. Un lavoro che molto presto fa i conti, come scrive il giudice subito dopo, con “spunti investigativi intenzionalmente depistanti”. E’ quel che Belpietro nasconde nei suoi ricordi. Scrive Belpietro: “Tutto cominciò da Repubblica e non dal Giornale che il giudice neppure menziona”. Il vuoto di memoria pare calcolato. Il giudice evoca se non il Giornale, il suo giornalismo. A proposito degli “spunti investigativi intenzionalmente depistanti”, osserva il giudice, “ci si riferisce alle dichiarazioni di Marini Igor Aldo. La loro inattendibilità, palese ed assoluta, giustificò l’apertura di altro procedimento” (nota 9, pag. 3 dell’ordinanza n.18486/01). Si parla delle rivelazioni di quell’Igor Marini, finto consulente finanziario e finto conte, autentico facchino dell’ortomercato di Brescia, che tennero banco, per trentadue volte consecutive e a caratteri di scatola, dalla prima pagina del Giornale di Belpietro accusando di corruzione, nell’ordine: Romano Prodi (allora presidente della commissione europea); Piero Fassino (allora leader dell’opposizione); Lamberto Dini (colpevole di aver guidato nel 1995 il governo del dopo Berlusconi) e via via Veltroni, Rutelli (altri possibili e futuri leader dell’opposizione) e Mastella (un altro “traditore”, all’epoca). Trentadue volte in prima pagina perché, disse Belpietro, è “una sporca storia a cui nessuno vuole credere”.

Dunque, mettiamo in ordine le cose. Si scorgono, come in questi mesi, anche nel “caso Telekom” opportunamente sollevato da Belpietro, due modi di intendere il giornalismo: da un lato, un’informazione che vive di notizie e non rinuncia al suo impegno anche quando deve maneggiare le condotte di un’area politica cui guarda con attenzione e interesse (si comprende che a Belpietro appaia “un regolamento tra compagni”: egli conosce solo regolamenti di conti e vendette); dall’altro, una comunicazione che diventa strumento brutale di una macchina politica che scatena contro i suoi antagonisti – e anche contro i dissidenti del suo campo – campagne di diffamazione distruttive. Un’inchiesta di Repubblica su un affare opaco determina un’inchiesta penale “doverosa” e un’indagine “lunga e laboriosa” della magistratura. Trentadue prime pagine del Giornale raccolgono, al contrario, il racconto di un signore che provoca una seconda inchiesta penale, ma per calunnia che si conclude in poche settimane (Igor Marini sarà condannato a cinque anni di carcere) negli stessi giorni in cui un’altra inchiesta di Repubblica svela il secondo “caso Telekom”.

È l’affare che Belpietro preferisce dimenticare. È la cospirazione che il centro-destra (maggioranza) organizza nella commissione d’inchiesta parlamentare su Telekom Serbia contro i leader dell’opposizione. Quel signore, Igor Marini (chi lo ha ingaggiato? e a quale prezzo? Mica avrà accettato di patire anni di carcere così per il gusto di fare un’esperienza?) è il burattino del complotto (in coda affiorerà anche il nome del burattinaio). Il Giornale – forse Belpietro se ne ricorda – lo incontra addirittura quasi otto mesi prima che egli appaia ufficialmente in commissione. Al quotidiano del capo del governo sarà presentato per intero il brogliaccio delle frottole che Marini mostrerà nei mesi a seguire. Per accusare Prodi Fassino Dini, il falso “conte” si serve di un racconto di cartapesta che vuole 120 milioni di dollari muoversi dalla banca Paribas di Montecarlo verso i conti di “Mortadella” (Prodi), “Cicogna” (Fassino) e “Ranocchio” (Dini). Quei soldi non esistono e i fondi sono solo un inganno telematico. La storia non è originale, è la copia carbone del canovaccio di una truffa di qualche anno prima ai danni della stessa Paribas.

Per sostenerla ruotano intorno alla commissione parlamentare una “corte dei miracoli”, convocata non per caso o accidentalmente: calunniatori, redattori di lettere anonime che sono uomini dell’intelligence, una compagnia di massoni, carabinieri infedeli, poliziotti corrotti, truffatori, spie presunte, avanzi del piduismo. Come Francesco Pazienza. Repubblica pubblica, nella seconda inchiesta su Telekom, una sua lettera in cui si legge: “Comunque, se dobbiamo mettere assieme il dossier completo, io so sia come fare e come e dove andare. D’altronde il solo fatto che il Bolognese (Prodi, ndr), abbia avuto rapporti con un personaggio simile – se esce fuori – è la fine per lui, basta pomparlo un po’ sui giornali e il gioco è bello che fatto”. È inutile dire che il “personaggio simile” – ricattato da Pazienza – sarà intervistato e utilizzato dal giornale del capo del governo.

Quel che si mosse nell’autunno del 2003, raccontata da Repubblica, fu la madre delle operazioni lavorate dalla macchina del fango, capace di trasformare il parlamento nella cassa di risonanza di un complotto che vedeva, spalla a spalla, la politica e cioè la maggioranza controllata dal capo del governo e l’informazione direttamente controllata dal tycoon-premier. La scena è così esplicita, nelle sue connessioni e responsabilità, che anche un politico prudente come Piero Fassino alza il dito e accusa: ” Il burattinaio di Igor Marini è a palazzo Chigi”. Silvio Berlusconi lo querela per calunnia pretendendo un risarcimento di 15 milioni di euro. Fassino rinuncia all’immunità parlamentare per affrontare il procedimento per calunnia. Viene prosciolto il 30 gennaio del 2004. Oggi, come ieri, non c’è chi ignori il nome del mandante. Nessuna meraviglia che gli esecutori materiali dei delitti mediatici, consumati per suo conto, alzino un po’ di polvere per proteggere il Capo e il dossieraggio che sono chiamati a firmare.

(15 ottobre 2010)

berluscoglione

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