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L’Europa dei popoli contro il sovranismo

Lode all’Unione, che con la pandemia ha fatto in cinque settimane ciò che non aveva fatto nei cinque anni successivi alla crisi del 2008. Il futuro dell’Italia legato alla sfida della globalizzazione. Un’anticipazione del nuovo libro di Matteo Renzi

di Matteo Renzi

1 Giugno 2020 alle 08:41

L’Europa dei popoli contro il sovranismo

Matteo Renzi (foto LaPresse)

La mossa del cavallo. Come ricominciare, insieme” (Marsilio, 224 pp., 16 euro) è il titolo del nuovo libro di Matteo Renzi, in vendita da giovedì 4 giugno. Ne anticipiamo in questa pagina alcuni passi. Il libro si propone come “un appello a non disperdere le energie. Un patto tra le generazioni per tornare a crescere. Un programma di interventi concreti che ha il coraggio e l’audacia del futuro”.


Scherzi del destino a parte, il coronavirus è stato persino in grado di rimettere in discussione le regole economiche del Vecchio continente. E dire che non c’era riuscito quasi nessuno, prima.

Possiamo dire che, nelle cinque settimane successive all’esplosione del Covid-19, l’Unione abbia fatto ciò che non aveva fatto nei cinque anni successivi alla grande crisi finanziaria iniziata nel 2007-2008. E tutti quelli che attribuiscono a Bruxelles ogni responsabilità, dovrebbero avere il coraggio di ammettere che, se non ci fosse stata la Banca centrale europea, il nostro debito sarebbe divenuto insostenibile, lo spread avrebbe superato quota 500, l’Italia sarebbe andata incontro al default.

Davanti a un problema, si può cercare un alibi oppure una soluzione. E l’Europa è sempre stata l’alibi perfetto per chi non vuole cambiare nulla e limitarsi a collezionare lamentele.

L’Unione è stata travolta dallo tsunami Covid-19. E se è vero che ancora manca – e lo aspettiamo, e lo progettiamo – il vero rilancio sull’Europa dei popoli, sull’Europa della politica, sull’Europa dell’innovazione, è altrettanto vero che per la prima volta le certezze dei profeti dell’austerity sono andate in frantumi. Finalmente il programma europeo per la disoccupazione, per il quale tanto si erano spesi i nostri governi, a cominciare dalle proposte del semestre di presidenza italiana e dall’azione dell’allora ministro Pier Carlo Padoan, ha visto la luce con il nome di Sure e una dotazione di cento miliardi di euro.

E’ andato in soffitta, almeno per un po’, il famigerato Patto di stabilità, ribattezzato in più circostanze, da persone di culture politiche e sensibilità diverse, come “patto di stupidità”.

La Banca europea degli investimenti ha trovato nuove frontiere da esplorare per sostenere concretamente l’economia del Vecchio continente e si è arrivati a concedere per la sanità i soldi del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, con un prestito a condizioni molto favorevoli e privo di condizionalità. Si tratta di una percentuale del Pil pari al 2 per cento, equivalente per il nostro paese a circa 37 miliardi di euro, che lo Stato italiano potrà spendere per affrontare l’ingente costo delle conseguenze del coronavirus, ma che una parte del parlamento non avrebbe voluto utilizzare per ragioni prettamente ideologiche.

La narrazione di chi urlava “padroni a casa propria” è stata clamorosamente smentita

Libro assolutamente da non perdere.

In questa compagnia di giro si ritrovano non solo esponenti della destra sovranista di Salvini e Meloni, ma anche una cospicua parte della maggioranza, ovvero quei grillini duri e puri a cui, un giorno sì e un giorno no, si uniscono ministri pentastellati incerti sul da farsi. Negare delle risorse vitali al paese è l’ennesima follia di una politica ottusamente ancorata a degli slogan senza legame con la realtà. Chi dice no al Mes, dice sì all’aumento delle tasse.

Del resto, il Movimento 5 Stelle ha già cambiato idea sull’Expo, sulle Olimpiadi, sulla Tav, sul Tap, sull’Unione europea, sui vaccini, sul presidente della repubblica. Cambiare idea sul Mes, dopo questo impressionante elenco, sarà un gioco da ragazzi. Anche perché, prima ancora della follia economica, qui si mette in evidenza l’assoluta miopia strategica dei populisti.

Chi, come me, crede negli Stati Uniti d’Europa, non può accontentarsi di una svolta – pur apprezzabile – nella politica economica e dunque ha il dovere di rilanciare sull’Europa delle idee, sull’Europa dei laboratori, sull’Europa della cultura, sull’Europa della ricerca, sull’Europa dei valori. La mia Ue, per capirci, dovrebbe fare a meno dell’Ungheria di Viktor Orbán, che approfitta del virus per chiudere il parlamento, e accogliere invece l’Albania di Edi Rama, che chiede ai medici del suo paese di venire in Italia a dare una mano, perché “noi albanesi non siamo ricchi, ma neppure privi di memoria e dunque oggi andiamo a dare una mano ai nostri fratelli italiani”.

Perché se non rispetti le regole finanziarie arriva la trojka, ma se non rispetti le regole democratiche e i principi valoriali nessuno ti dice nulla. Ecco per quale motivo servirebbe un’iniezione di democrazia, e magari scegliere di optare per l’elezione diretta del presidente della Commissione europea. Ma anche chi non ha la mia stessa passione europeista e federalista deve riconoscere che dire di no all’utilizzo di risorse per motivi ideologici è soprattutto un assist a quel sovranismo che in realtà il coronavirus ha contribuito a sconfiggere.

La narrazione di chi urlava “padroni a casa propria”, “blindiamo le frontiere” e inneggiava allo sciovinismo è stata clamorosamente smentita. Chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale dovrebbe ammettere che la pandemia ha evidenziato come il mondo chiuso, protetto, bloccato sognato dai neonazionalisti semplicemente non è reale e, quando sembra concretizzarsi, è frutto di un incubo, non di una scelta politica. Non lo dice solo chi è cresciuto con gli ideali federalisti e ha a cuore il sogno degli Stati Uniti d’Europa. Persino i più ferventi sostenitori del ritorno alla lira si sono convertiti: vogliono stampare moneta, rigorosamente euro, e invocano più intervento, rigorosamente da Francoforte.

Una volta chiuse le frontiere per paura del contagio, sperimentato per mesi l’isolamento domestico, risultato palese a tutti che gli immigrati non sono il problema, siamo in grado di trarne le conseguenze? In realtà, siamo tutti ormai talmente “padroni a casa nostra” che non riusciamo a uscire dal nostro angolo. I muri che avrebbero dovuto proteggerci, ci imprigionano.

Perché il mondo globale, iperconnesso, costituisce per l’Italia non un problema, ma la più strepitosa delle opportunità.

Sono struggenti le nostre città immortalate dagli scatti di quei fotografi autorizzati a muoversi in tempi di quarantena, ma sono malinconiche, perché senza turisti la bellezza sbiadisce, sembra vana. L’incanto e la meraviglia che ci circondano sono fatti per essere ammirati dagli occhi commossi di chi si muove per raggiungere l’Italia e stupirsi davanti ai paesaggi, all’arte, alla cultura che esprimono. Ci ripieghiamo su noi stessi, serrando i ranghi e ripristinando le frontiere? Ci scopriamo soli, poveri, incupiti. Insistendo sulla via del sovranismo, che prospetta un mondo paralizzato dalla paura verso tutto ciò che è diverso, straniero, stiamo indebolendo i settori decisivi dell’export, perché – mutuando una celebre espressione di Pietro Nenni a proposito della purezza – il sovranista incontra sempre un sovranista più sovranista di lui, che lo sovrasta. I nostri prodotti sono apprezzati nel mondo e, grazie alla globalizzazione, abbiamo visto spalancarsi davanti a noi un mercato decisamente più ampio di quello che avremmo avuto nel ristretto orizzonte dei nostri confini, ovvero nella situazione in cui l’epidemia drammaticamente ci ha costretti. Senza turisti, senza export, l’Italia è più debole. E il mondo è più triste.

Occorre riformulare un concetto di patriottismo che abbiamo visto emergere
come necessità espressa dagli italiani

L’Italia ha un futuro se rifiuta il nazionalismo e accetta la globalizzazione come sfida, diffondendo i propri prodotti, i propri valori, i propri ideali.

Siamo nati per creare ponti, non erigere muri; siamo un popolo di viaggiatori capaci di rincorrere la propria curiosità, non di timorosi che costruiscono steccati. Abbiamo sempre varcato le frontiere mettendoci nelle condizioni di dialogare, insegnare, imparare, e questo ha un valore immenso anche dal punto di vista economico. Il protezionismo, nient’altro che una forma di bullismo, distrugge invece l’economia basata sull’export e sulla capacità di conquistare mercati con prodotti vincenti e innovativi. Quando l’America minaccia nuove misure in questa direzione spaventa, perché evitare i dazi statunitensi sui principali prodotti italiani non è, per il nostro sistema paese, una questione meramente tecnica, ma di vita o di morte. Durante la campagna elettorale per la presidenza della regione Emilia-Romagna, ho fatto notare a un amico di simpatie leghiste che quel territorio è ai vertici dell’export in molti campi – per l’agroalimentare, a cominciare dalla zona di Parma, per il settore automobilistico sull’asse Bologna-Modena, per l’industria del packaging nel capoluogo, per il turismo sulla Riviera – e che lo si condanna se viene delimitato in una logica sovranista. Davanti a questa considerazione il mio interlocutore non è stato in grado di articolare una risposta valida. Perché a chiacchiere vale tutto, ma l’economia italiana è fatta per parlare al mondo. […]

Io credo infine che sulla questione dell’energia si giochi il vero sovranismo. Chi vuol essere sovranista ripete spesso slogan come “padroni a casa nostra”. Bene, l’unico vero modo di essere padroni a casa nostra non è chiudere le frontiere, ma essere autosufficienti dal punto di vista energetico. Per essere veramente sovranisti dovremmo produrre da noi le risorse necessarie a non dipendere dall’estero, visto che comunque è il tema dell’energia che segna le principali questioni geopolitiche. […]

A noi serve il mondo e al mondo serve l’Italia: chi dice il contrario, paradossalmente, non agisce nell’interesse nazionale.

Il virus segna la sconfitta del nazionalismo, e tuttavia – non suoni come un paradosso – ritengo allo stesso tempo che dimostri, una volta di più, quanto abbiamo bisogno di un nuovo patriottismo.

Se, infatti, riassestare l’economia su nuove basi è possibile, se far nascere uno Stato di diritto moderno e in grado di affrontare le sfide di domani dal ripristino delle basi costituzionali calpestate appare un obiettivo non più lontano, non andremo da nessuna parte senza un accordo sui valori non negoziabili in cui ci riconosciamo. Dunque, dobbiamo interrogarci su quale visione di società vogliamo (ri)costruire.[…]

E’ ormai chiaro che il populismo si associa al sovranismo, il nazionalismo alla chiusura. La vera politica, invece, si differenzia perché accoglie, gestisce e risolve questioni complesse, i nodi di una società aperta e globalizzata, ma proprio per questo il nostro presente esige di riformulare un concetto di patriottismo che abbiamo visto emergere come necessità espressa dagli italiani. Quando, nei giorni del lockdown, si vedevano sventolare i tricolori alle finestre, mi domandavo perché a fronte di un virus si sentisse il bisogno di mostrare l’appartenenza italiana come fossimo arrivati ai quarti di finale dei mondiali di calcio. La risposta è meno scontata di quanto possa apparire: le persone hanno manifestato la necessità di ritrovare un’identità che sia anche idealità, un’appartenenza che vada oltre l’apparenza.

Serve un patriottismo della bellezza, dei valori, dei sentimenti che sia il vero argine al montare del populismo, un patriottismo comunitario perché, nonostante le tendenze individualistiche tipiche del nostro tempo, non possiamo fare a meno dell’abbraccio nel rapporto con gli altri, della piazza nel rapporto con i nostri concittadini, della patria nel rapporto con il mondo.

Niente di più lontano, dunque, nelle premesse, nei contenuti e nei modi, dal populismo, che danneggia l’economia e produce decrescita infelice, immobilismo, sondaggismo permanente. Danneggia la giustizia e produce il giustizialismo. Danneggia la vita quotidiana e produce il sovranismo nazionalista.

Penso che, a maggior ragione nella fase che stiamo attraversando, sia questa la sfida che vede fronteggiarsi, da un lato, i nazionalisti sovranisti, coloro che vogliono chiudere le frontiere e vivere di protezionismo o cancellare la globalizzazione con un tweet, e dall’altro chi, come noi, non si rassegna e prova a costruire un’alternativa in nome non di un generico pacifismo globale, non della, pur necessaria, solidarietà internazionale, ma del patriottismo. Sì, la parola giusta è patriottismo. Patrioti della bellezza, patrioti di un’Europa diversa, patrioti dell’educazione come unico vaccino in grado di debellare il populismo.

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