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Ricordi
domenica, gennaio 11, 2009
FABER
Categoria: Blog
Sto vedendo, con grande malinconia, fazio e la sua cosca imbrattare il Nome e l’Opera di Fabrizio De Andrè. La Ghezzi fa il suo mestiere di erede dei diritti e quindi… ma che cazzo c’entrano l’ipocrita fazio o la volgare litizzeto con un mostro sacro come Faber?! Conoscendolo, sarebbe saltato sul palco e gli avrebbe sputato in faccia. Raccontavo poco fa a Lena di una cosa che non sa nessuno, tranne Arnaldo Morosi: allora amministratore unico della Belldisc, poi Produttori Associati. Dunque, io dirigevo la casa discografica e stavo allestendo un festival di voci e gruppi nuovi a Pesaro, per trovare qualche talento. Morosi sarebbe venuto con me: lui era quello che poteva firmare i contratti. Ci piomba in sede Faber, appena arrivato da Genova. Fa alcune telefonate, poi se ne viene nel mio ufficio… affranto. Non ve la sto a menare. In pratica, attraversava un momentaccio con la moglie e aveva inventato una scusa di lavoro per incontrare una sua fan milanese che voleva assolutamente conoscerlo; gli aveva scritto parecchie lettere, anche esplicite, e quindi lui – vincendo la sua proverbiale timidezza – aveva deciso il gran passo. Bene, anzi, male… arrivato da noi e chiamato il numero della ragazza… scoprì subito che si trattava di una dodicenne! Ricordo ancora che rispose la madre e disse che XXX era a scuola. “Ah, insegna?” chiese Fabrizio. “No, è in seconda media.” Ci rimase così male, ma così male, che restò tutta la mattina inebetito. Poi andammo a pranzo e ci chiese se poteva venire con noi a Pesaro: doveva giustificare il viaggio e non aveva nessuna voglia di tornare a casa. Ok. Partimmo per Pesaro e lui presenziò seminascosto all’esibizione di gruppi e cantautori. Dico seminascosto, ma in realtà non lo conosceva quasi nessuno, come immagine. Finita la serata ed espletati i nostri compiti, tornammo in albergo e decidemmo di cenare lì. Eravamo troppo stanchi, sia io che Arnaldo Morosi sapevamo bene che negli alberghi non si dovrebbe mai mangiare. Invece ci andò bene. Anzi, il maitre ci disse anche che sotto c’era un night… Fabrizio non se lo fece ripetere due volte:
“Andiamo a berci un whiskino!” sollecitò. Scendemmo al night e bevemmo un paio di drink. Lui però si portò avanti di almeno tre beveraggi, rispetto a noi. Poi… la tragedia: l’orchestrina, senza nemmeno sospettare lontanamente la presenza dell’autore, attacca “LA CANZONE DI MARINELLA” e il chitarrista sbaglia un accordo. Scatta come una molla Faber e, dalla penombra, si materializza nel cono di luce del palcoscenico e si scaglia contro il musicista. Quello, più per la sorpresa e per istinto di autodifesa che per cattiveria, cerca di colpire ripetutamente Fabrizio alla testa col manico della Fender. Scatto anch’io, da ragazzo di strada abituato alle risse, e arriva anche il marchigiano Morosi. Pigliamo Faber di peso e lo portiamo a dormire. Non prima di una breve colluttazione nel corridoio del terzo piano, con lui che sbraitava a voce altissima: “Levami le mani di dosso, sardo di merda!” Una signora si affacciò in vestaglia per informarci che erano quasi le quattro del mattino. Ridemmo molto di questa scena il giorno dopo e i giorni a venire. Dopo che gli fu passata la sbronza, naturalmente. Ciau, Faber!
La ciofeca mogol
Mogol: costretto a censurare
il mio brano per Celentano
«Diffidato con una lettera, Adriano mi vieta di usare il suo nome»
MILANO – Una canzone su Adriano Celentano. L’ha scritta Mogol. Ma non la sentirete mai. Almeno nella sua versione originale. Il destinatario si è arrabbiato per il ritratto e l’autore si è autocensurato. La storia inizia lo scorso anno quando Mogol è al lavoro con gli Audio2. Sta componendo i testi delle canzoni e una melodia («Parto sempre da lì, mai da una storia o da un soggetto») gli suggerisce la parola Adriano: «Così ho pensato di scrivere una cosa per un amico. Con affetto e ironia, intesa non come presa in giro ma come alleggerimento di caratteristiche del personaggio che magari non sono apprezzate da tutti».
Nel testo Mogol scherza sul volontario isolamento che tiene Adriano lontano dal pubblico: «Anche un castello diventa prigione/ Se ti rinchiudi fra divani e poltrone/ Esci e non solo nel tuo giardino/ Tutta la gente ti vuole vicino». C’era pure una bonaria presa in giro dei tic dell’amico: «E prova a dirmi una sola parola/ Poi fa una pausa di almeno mezz’ora». E anche un accenno al disprezzo per i politici e alle battaglie contro il degrado urbanistico e la caccia. Quindi l’omaggio diretto: «Oh Adriano/ Dammi la tua mano/ Oh Adriano». Alla fine della stesura Mogol spedisce un provino a Celentano. Che gli risponde con una letteraccia: «Ti diffido dall’utilizzare il mio nome. Quella canzone dedicala a Vasco Rossi». E così, nell’album in uscita a maggio e che verrà lanciato proprio da questa canzone, il nome del Molleggiato non verrà pronunciato. Sparito. La nuova versione prevede un «Lo dico piano/ Un aeroplano/ Non si abbassa con la mano» e un nuovo titolo, «La voce di un amico». Perché? «Sono a posto con la mia coscienza, ma per non contrariarlo ho deciso la modifica» dice con gran pudore Mogol. E aggiunge: «Da quella lettera emergeva chiaramente che si sentiva offeso. Eppure quelle cose gliele dicevo anche di persona, come si fa con un fratello o un figlio. Mi è spiaciuto quello che mi ha fatto Celentano. Fa male essere fraintesi: io volevo fargli una carezza e in cambio ho ricevuto una sberla». A spingere verso la scelta prudente anche la Carosello, etichetta del progetto MogolAudio2. Lo spiega il managing director Claudio Ferrante: «Da un controllo effettuato dai nostri avvocati è emerso che ‘Adriano’ è un marchio registrato che non può essere usato in contesti musicali con riferimento diretto a Celentano. Curioso che il deposito risalga a tre mesi fa, tempo dopo i contatti fra i due. Avevamo il disco già pronto e abbiamo dovuto rifare la registrazione ».
Mogol e Celentano si conoscono da decenni e negli anni 90 hanno costruito, assieme a Gianni Bella, quattro album che hanno lasciato il segno nelle classifiche: 4 milioni di copie vendute e successi come «L’emozione non ha voce». «Ci siamo aiutati vicendevolmente. Lui ha dato ai miei lavori un’interpretazione di peso e fascino. Per ora non abbiamo altri progetti assieme, ma non serbo rancore e lo considero ancora un amico». Lettera a parte non c’è stato nessun contatto. «Non sento il bisogno di parlargli — precisa l’autore —. Quello che dovevo dirgli è scritto nella canzone. Dove, non a caso, dico ‘ma non riconosci la voce di un amico’. Avevo anche pensato di buttare via tutto, ma poi ho pensato che non c’era nessuna offesa». Dal Celentano e dal Clan nessuna replica. Per Mogol il giudizio finale è nelle mani del pubblico: «Sarà la gente a valutare se sono stato affettuoso o offensivo. Spero solo che Adriano non sia stato influenzato da nessuno».
Andrea Laffranchi
°°° L’ho detto e scritto parecchie volte, ma non credo di averlo mai fatto qui, nella mia casa virtuale. Questo fascistone di mogol… alias Giulio Rapetti non ha mai scritto nemmeno un biglietto d’auguri. E’ un bluff come antonio ricci: quello che mi ha fottuto i testi del Drive in e Striscia la notizia e che fotte tutti i filmati di Paperissima dalle tv di tutto il mondo… coprendo pacchianamente il logo delle stazioni originali col suo scarabocchio di merdaset. Ricci NON ha mai scritto un cazzo, così come mogol NON ha mai scritto una bella canzone! Non è capace. Passa per il miglior autore italiano di canzoni… ma per piacere!
Mi hanno dato cinque premi della critica da ragazzo, come autore di canzoni, e non ero nessuno. Non conoscevo nessuno. Ho conosciuto il padre di questo attrezzo, il grande Mariano Rapetti, ex direttore della Ricordi di Milano. Lui sì che era qualcuno. Rapetti chiese a me di andare a lavorare con lui, di fargli da assistente e da “autore principe”. Diceva proprio così. Perché non lo chiese a quella capra di suo figlio? Dopo un anno, lui sarebbe andato in pensione e io sarei diventato il direttore della Ricordi. Questa la sua proposta. Un sogno. Ma rifiutai. Stavo troppo bene a fare il gallo nel mio pollaio della Belldisc – Produttori Associati. Io sapevo scrivere. Mio figlio sa scrivere. Ho prodotto Fabrizio De Andrè, che mogol non lo vedeva nemmeno col microscopio. E dove mettiamo i testi di Dalla, De Gregori, Guccini, Vecchioni, Jannacci, Paolo Conte, ecc.? Ma persino Masini, Venditti, Fossati, e cento altri… sono anni luce al di sopra di questo scribacchino banale e vanesio. Battisti, dite? Ma era Lui il genio, mica questo stalentato, che pigliava i testi di sfigatelli (che inondavano le Edizioni Ricordi di poesie e canzonette dalla melodia incerta, ma con alcune buone idee) e li copiava pari pari, storpiandoli per giunta! Ma rileggete le minchionerie che scrive, nemmeno bondi, burlesquoni, o gasparri scriverebbero stronzatine del genere:
«Anche un castello diventa prigione/ Se ti rinchiudi fra divani e poltrone/ Esci e non solo nel tuo giardino/ Tutta la gente ti vuole vicino»«E prova a dirmi una sola parola/ Poi fa una pausa di almeno mezz’ora»«Oh Adriano/ Dammi la tua mano/ Oh Adriano».
Cioè, Melina ha nove anni, ma scrive molto meglio.