La frittata di mafiolo che scappa

Il G8 a l’Aquila, quel che il premier non ha detto Già buttati 320 milioni. «La Sardegna è ferita»

La main conference dove i grandi del pianeta avrebbero dovuto confrontarsi è già pronta. Così come l’hotel che aspettava Obama, unico dei capi di Stato che per motivi di sicurezza avrebbe soggiornato sull’isola (per gli altri c’era una lussuosa nave). Entrambe queste strutture sono dentro l’ex arsenale militare. Per bonificarlo sono serviti 30 milioni di euro, per riconvertirlo all’uso civile altri 140. L’utilità di queste opere è stata cancellata dalla decisione del premier di abbandonare la Maddalena. Quei soldi sono stati destinati all’arcipelago dall’Unione europea, come intervento nelle cosiddette aree svantaggiate (fondi Fas). Se non ci fosse stata l’urgenza del G8, questi soldi sarebbero tornati utili per modernizzare la logistica portuale. Quando Berlusconi parla di “risparmio” nel cambio di sede, non conteggia questo spreco.

L’umiliazione
L’arcipelago è stato umiliato, anche se gran parte dei 320 milioni dei fondi Fas sono stati investiti in infrastrutture durature. Prodi e l’allora governatore Renato Soru avevano scelto la Maddalena per ospitare il G8 e conclamare così la rinascita di questa terra incantata, per 35 anni soggiogata dalla presenza dei militari americani nella base di Santo Stefano. Incassata la vittoria elettorale con l’amico Ugo Cappellacci, adesso Berlusconi fa il padrone, toglie la vetrina, i soldi, il lavoro. «Tutta la Sardegna è ferita», contesta Angelo Comiti, sindaco dell’arcipelago, che nei giorni scorsi aveva pure ricevuto le delegazioni dei paesi attesi per il vertice, dall’India alla Cina e anche l’Egitto. Eppure, quando ieri sera ha incrociato Cappellacci, cercando di scuoterlo, ma ha trovato solo accondiscendenza verso la volontà del premier: «Perdiamo questa prestigiosa vetrina, e con essa centinaia di posti di lavoro stagionali. Ma che governatore è uno che non si fa sentire davanti a una vicenda simile?». Risposta: non è un governatore, ma il figlio del commercialista del premier. Il sindaco cerca regole in una vicenda che le ha calpestate: «Vorrei che la Corte dei conti si esprimesse. L’Europa ci ha dato dei soldi destinati a determinati scopi, vincolati a impegni precisi, come si legge sulle ordinanze firmate dallo stesso Berlusconi. Adesso quelle spese sono diventate fasulle: chi ne rende conto?».

Cosa è successo
Per capire quanto accaduto bisogna mettere in fila alcune cose. Anzitutto la ritrosia del presidente del consiglio sul vertice in Sardegna, sito scelto dal precedente governo nazionale e regionale. Voleva il G8 a Napoli, per celebrare la città liberata dalla monnezza. Bertolaso lo sconsigliò, e la conquista dell’Isola lo convinse a sostenere la Maddalena e a fare di persona i sopralluoghi. Questa titubanza ha intralciato i lavori, tanto che vi erano dubbi sulla puntualità delle consegne. Ostacolata anche dalla megalomania di Berlusconi, che aveva dilatato l’appuntamento: non più un G8, ma un G42, tanti sono infatti i Paesi esteri invitati, con ben 24 capi di Stato e 18 delegazioni. Manovrare l’afflusso sull’arcipelago sarebbe stato complicato, ma i sardi non si erano persi d’animo. Così, quando il terremoto dell’Aquila ha offerto una grande occasione mediatica per nascondere i problemi organizzativi da lui stesso creati, e ne ha approfittato. Apparecchiando la notizia: Berlusconi cita lo sventato pericolo dei Black Block, e guarda caso proprio martedì la presenza di esponenti dell’antagonismo anarchico è stata segnalata a Olbia e dintorni dalle forze di polizia. La ha scritto il quotidiano L’Unione Sarda, giornale di Zuncheddu, amico del premier, grande sostenitore di Cappellacci nella corsa contro Soru. Di questi frontisti, in realtà, nessuno sa nulla. Di vero c’è che “Sa Mesa a Fora Su G8”, che raccoglie i movimenti indipendentista ed anticolonialista sardo, pensava ad un controvertice “dei Popoli oppressi”. Caspita, che minaccia.

°°° Dunque, amici, come sempre accade: mafiolo e i suoi – nella fattispecie Bertolaso – sparano un mare di minchiate PRONTAMENTE smentite dalla realtà. Il cazzaro ha messo in piedi un ambaradan che poi NON ha saputo gestire… come la Standa, ricordate? Quella la svendette per pochi soldi, qui invece – non potendo svendere una cosa non sua – è scappato all’Aquila. Ma, dopo il morto e i casini che lui e i suoi avevano provocato a Genova, credo che anche in Abruzzo si vedranno dei bei casini.

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Ecco come “amministra” la destra

L’INCHIESTA
Roma, le piscine vuote
dei mondiali di nuoto

Milioni di euro buttati, impianti che rischiano di non essere terminati. Da Tor Vergata all’Appia Antica viaggio tra ritardi, cemento e zone vincolate che saranno deturpate
di GABRIELE ROMAGNOLI e CORRADO ZUNINO

ROMA – “Qui sorgerà la città dello sport”, annuncia il cartello all’ingresso del cantiere di Tor Vergata. Invece: qui riposerà in pace, amen. Vasche vuote, scheletri di tribune, lo stendardo sbrindellato dei Mondiali di nuoto, Roma 2009. Dovevano aprirsi qui, nell’avveniristico guscio immaginato da Santiago Calatrava, dando al campus universitario e alla capitale quattro spettacolari piscine. Un tuffo nel vuoto. Le gru sono ferme. Ma lavorano altrove. Roma non avrà la grande struttura che doveva essere il simbolo dell’evento, in compenso stanno sorgendo 63 nuovi impianti, 84 vasche. Molti con foresterie, decine di stanze che dovrebbero ospitare atleti a luglio, e poi? Molti in zone vincolate, dal paesaggio, dall’urbanistica e dal buon senso. Molti hanno trascinato con sé ampliamenti di circoli, sale fitness, box auto.

Un diluvio di iniziative private con agevolazioni pubbliche. Un piastrellamento azzurro sul pavimento di una città che già ora, vista dall’alto, quasi fa concorrenza a Los Angeles. I Mondiali sono un alibi, troppe opere non saranno finite in tempo. Ma resteranno dopo, per soddisfare una domanda a cui già rispondono duecento piscine. Come è stato possibile?
Per capirlo abbiamo fatto un viaggio, come quello del “Nuotatore” del racconto di John Cheever portato sullo schermo da Burt Lancaster. Quell’uomo decideva in “una di quelle domeniche di mezz’estate in cui tutti se ne stanno seduti e continuano a ripetere: ho bevuto troppo ieri sera” di tornare a casa a nuoto, attraversando la contea da una piscina all’altra. Noi abbiamo percorso la città in un giorno di festa, da un cantiere all’altro (Tor Vergata a parte, tutti all’opera, solo lavoratori extracomunitari, nessuno con l’elmetto protettivo). Curiosamente, la destinazione finale del viaggio ci ha riservato uno scenario simile a quello trovato dal personaggio letterario. Il resto del percorso, tutta un’altra storia. Questa.

La prima tappa è sull’Appia Antica, numero 7000, davanti all’insegna Sporting Palace. La Città dello Sport doveva esserci, ma non c’è; questo palazzo non dovrebbe esistere, invece eccolo qui. Sorge tra le rovine storiche, davanti a un parco. I nuotatori, si è detto, potrebbero allenarsi e poi rilassarsi sulla terrazza guardando la tomba di Cecilia Metella. Ma perché Cecilia Metella dovrebbe guardare dalla sua perduta pace eterna questa scatola di cemento da cui pende un festone che “annuncia” l’inaugurazione a giugno 2008? Bisogna fare un passo indietro.

Quando Roma ottiene i Mondiali 2009 parte la carica delle piscine. Cinque impianti saranno pubblici (Tor Vergata, Foro Italico, Ostia, Valco San Paolo, Pietralata). Ma non basteranno. La giunta Veltroni decide di aprire ai privati che bussano alle sue porte. In fondo, si tratta di prendere tre piccioni con una fava: organizzare i Mondiali, costruire la memorabile opera nel campus e rendere Roma una capitale natatoria planetaria. Partono 38 richieste, il commissario straordinario (all’epoca Angelo Balducci) ne avalla 23. La giunta filtra e riduce a 10 (un anno dopo ne accoglierà altre 3). Tra le proposte bocciate: lo Sporting Palace. Nonostante il sì del commissario. Nonostante il parere, epr due volte favorevole, della Federazione nuoto presieduta da Paolo Barelli.

Mancavano i permessi dell’Ente Parco e della Soprintendenza archeologica. Era già intervenuto il guardaparco con un’azione di sequestro. Eppure i lavori non si sono mai fermati. L’edificio è cresciuto. Già appariva fuori posto com’era, tra le rovine e gli alberi dove l’hanno costruito, nel ’56, per ospitare uffici. Ora è un assurdo, eppure c’è. Non si è fermato il cantiere, ma neppure l’inchiesta della magistratura.
Sono tre gli indagati.

Ci sono altre quattro azioni giudiziarie sugli impianti dei Mondiali. Una è per “abuso edilizio, deviazione acque e modificazione terre, falsità materiale commessa da pubblico ufficiale, truffa ai danni dello Stato”. A firma di Italia Nostra e contro Salaria Sport Village. Ci andiamo. Il circolo ha attualmente una sola piscina, coperta da un pallone, dove mentre passiamo non nuotano più di dieci soci. Ne sorgeranno altre tre, due da 25 e una da 50 metri. Due saranno coperte. Ci sarà una foresteria da 41 stanze. Centosessantunomila metri cubi di cemento nell’alveo dello sversamento del Tevere. Uno di quei rischi su cui si fa poi vana polemica a disastro avvenuto. Più un paio di vincoli calpestati: paesistico e ambientale. Ma se lo Sporting Palace è rimasto nella lista dei bocciati (e ha costruito abusivamente) questo come ha potuto rientrare dopo il no del Comune guidato da Veltroni? E’ stato inserito in una seconda serie di autorizzazioni, compilata dal nuovo commissario straordinario, Claudio Rinaldi, su suggerimento della Federazione nuoto e passata dal Comune guidato da Alemanno. “Visto si scavi” per 9 impianti e 14 piscine. Oltre a questa ci sono, tra le altre, quella del Flaminio Sporting Club, di cui è dirigente Luigi Barelli, fratello del presidente federale che pure costruirebbe su un’area vincolata per intero.
E poi quella della riserva Macchione, di fronte alla tenuta del presidente della Repubblica, per la quale è partito un esposto che contesta la violazione di tre protezioni, e quella dell’area ex Snia Viscosa, parco destinato alla città, per cui l’autorizzazione ai lavori è arrivata in extremis. E, ultima ma solo in ordine geografico, la Sporting Life della società sportiva Nomentum, a Mentana, prossima tappa.

Per arrivarci lasciamo Roma, superiamo Monterotondo, dove pure sorge un megaimpianto ancora non completato, e arriviamo in questa vallata, un tempo intatta. Lo Sporting Life ha campi da calcetto (sui quali al momento corrono cani impegnati in un concorso di agilità che un megafono amplifica per la campagna), un laghetto da pesca e una club house. Ha aggiunto l’11 aprile un bar e ristorante, inaugurati con una serata eccezionale alla presenza del comico Nino Taranto. E le piscine? Eccole lì, tre buchi nella terra con altrettanti immigrati intorno. Una è per i bambini, le altre due sono di 25 e 34 metri. Lavori iniziati a marzo. Pronte per i Mondiali? Difficilmente. E che cosa verrebbero a farci qui, gli atleti che gareggeranno al Foro Italico? Più probabile rivedere un campione di agility che un ranista da podio. Eppure, sia questo impianto che quello della Salaria hanno conquistato in appello il diritto a esistere.

Come è successo? Avrà influito che a costruire il secondo sia, tra gli altri, il figlio del precedente commissario straordinario? A che punto e perché è saltato il filtro che imponeva criteri per le concessioni? I responsabili della vecchia giunta raccontano di essere
stati esposti a “molte pressioni”. Se già loro avevano in qualche caso ceduto, i successori si sono arresi. Il diluvio di nuove vasche è impressionante quanto disomogeneo. A suddividerle per i quartieri di Roma, tre ne hanno 9 ciascuna. Sette non ne hanno nessuna. A prendersene di più è la zona dei circoli, che con l’occasione ristrutturano, ampliano, aggiungono. E a trarne i principali benefici saranno, più che la cittadinanza, i soci paganti. Primi quelli dell’Aniene presieduto da Giovanni Malagò (che è anche alla guida del Comitato organizzatore di Roma 2009): hanno cominciato i lavori in anticipo sulla delibera comunale generale, li stanno già concludendo e festeggeranno con 6 mila invitati le tre piscine pur avendone chiesta, in un primo momento solo una.

Ci sono coincidenze che incuriosiscono. Andiamo nel cuore della città, nel quartiere Trieste, alla Fondazione Cristo Re. Gestisce campi da calcetto sopraelevati, sul tetto di una palestra un tempo pubblica e la cui acquisizione, rivelano scritte sui muri, non tutti hanno digerito. C’è una nuova piscina, coperta, di 25 metri, autorizzata dalla giunta Veltroni. E insieme a quella sono sbocciati 330 posti auto nello stesso complesso, due agglomerati di box rossi e gialli venduti ormai completamente per cifre comprese tra i 68 e i 120 mila euro.

Giù la serranda, è tempo, come il “Nuotatore”, di arrivare a casa, o meglio, a quella che doveva essere la casa dei Mondiali: a Tor Vergata. Dietro l’Università si stende una piana interrotta solo dai picnic e dall’immensa croce che fa da catalizzatore nei raduni religiosi. Uno spreco a cui se n’è sovrapposto un altro, di diverso segno. Eccola qui, la città fantasma dello sport. Dove doveva esserci il museo c’è una baracca di lamiera. Al posto dei gusci di Calatrava due dentiere ammaccate. Dentro una di quelle la “vasca degli spiriti”. Non echeggiano i suoni delle bracciate di Phelps o delle entrate in acqua della Cagnotto, ma quelle di litigi, incomprensioni, fatali prese di posizione. Già l’idea era una scommessa, una delle tante su cui Veltroni ha puntato per lasciare un’eredità che invece evapora. Il giocattolo gli è cresciuto tra le mani, fino a diventare ingovernabile. Il palazzetto per volley e basket è passato, per rispondere ai criteri internazionali, da 8 mila a 15 mila posti. L’Università ha scelto come progettista lo spagnolo Calatrava: tanto geniale quanto incontenibile. L’impresa appaltatrice era abituata a realizzazioni più schematiche. Ogni passo è divenuta una battaglia, un lievitar di costi e uno scambio di accuse. Presto è stato chiaro che i 280 milioni preventivati non sarebbero bastati, ne occorrevano almeno altri 100. A dir poco. E il tempo remava contro. L’elezione di Alemanno a sindaco è stata un’ascia. Se voleva spostare la teca dell’Ara Pacis, che già c’era, figurarsi due gusci ancora da posare. Fermi tutti. Controlli, riconsiderazioni, meglio fermarsi qui. Meglio? Meglio aver già speso 190 milioni per questo scarabocchio di cemento e ferro? Abbandonarlo lì vagheggiando futuri mondiali di basket o addirittura di baseball per riprenderlo? Meglio farne l’ennesimo detrito contemporaneo, la testimonianza da capsula del tempo che Roma dispensa rovine anche dal presente (salvo costellare quelle del passato di terrazze abusive)?

Eppure è così: il pubblico ha buttato 190 milioni. I privati, con l’alibi di doversi sostituire, ne hanno investiti altrettanti. Importa se molti dei loro impianti non saranno pronti a luglio, se non serviranno alla città dopo, se le foresterie diventeranno piccoli alberghi intorno a una vasca che doveva essere iridata? Che cosa resterà di tutto questo titanico sforzo: un monumento diffuso all’arte natatoria o un buco nell’acqua? Quando il “Nuotatore” finalmente arrivò “cercò di aprire le porte, ma erano chiuse a chiave e sulle mani gli rimase la ruggine delle maniglie… Batté con i pugni, tentò di abbatterle e poi si accorse che la casa era disabitata”.

16 aprile 2009

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BAGNINO DI DESTRA

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