Toc toc! Napolitano?!

La legge
del bavaglio

di GIUSEPPE D’AVANZO

L’agenda delle priorità di Silvio Berlusconi continua ad essere ad personam. Quindi, che la ricreazione continui, con buona pace di Emma Marcegaglia. Sostegno alle imprese e a chi perde il lavoro? Possono attendere. Per la bisogna sono sufficienti, al premier, un paio di bubbole nel tempio di cartapesta di Porta a porta (4 giugno): “Oggi non c’è nessuno che perdendo il lavoro non venga aiutato dallo Stato. C’è la cassa integrazione per i precari, così come per i lavoratori a progetto”.

Il Cavaliere diventa meno fantasioso quando si muove nel suo interesse. Teme le intercettazioni (non si sa mai, con quel che combina al telefono) e paventa le cronache come il diavolo l’acqua santa. Si muove con molta concretezza, in questi casi. Prima notizia post-elettorale, dunque: il governo impone la fiducia alla Camera e oggi sarà legge il disegno che diminuisce l’efficacia delle investigazioni, cancella il dovere della cronaca, distrugge il diritto del cittadino di essere informato. Con buona pace (anche qui) della sicurezza dei cittadini di un Paese che forma il 10 per cento del prodotto interno lordo nelle pieghe del crimine, le investigazioni ne usciranno assottigliate, impoverite.

L’ascolto telefonico, ambientale, telematico da mezzo di ricerca della prova si trasforma in strumento di completamento e rafforzamento di una prova già acquisita. Un optional, per capirci. Un rosario di adempimenti, motivazioni, decisioni collegiali e nuovi carichi di lavoro diventeranno sabbia in un motore già arrugginito avvicinando la machina iustitiae al limite di saturazione che decreta l’impossibilità di celebrare il processo, un processo (appare sempre di più questo il cinico obiettivo “riformatore” del governo). Ancora. Soffocare in sessanta giorni il limite temporale degli ascolti (un’ulteriore stretta: si era parlato di tre mesi) “vanifica gli sforzi investigativi delle forze dell’ordine e degli uffici di procura”, come inutilmente ha avvertito il Consiglio superiore della magistratura.

Sistemata in questo modo l’attività d’indagine, il lavoro non poteva dirsi finito se anche l’informazione, il diritto/dovere di cronaca, non avesse pagato il suo prezzo. Con un tratto di penna la nuova legge estende il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto anche agli atti non più coperti dal segreto “fino alla conclusioni delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Prima di questo limite “sarà vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione e degli atti delle conversazioni telefoniche anche se non più coperti dal segreto”.

Si potrà dire che si indaga su una clinica privata abitata da medici ossessionati dal denaro che operano i pazienti anche se non è necessario. Non si potrà dire qual è quell’inferno dei vivi e quanti e quali pasticci hanno organizzato accordandosi al telefono. Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali della giustizia italiana dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.

Addio al giornalismo come servizio al lettore e all’opinione pubblica. Addio alle cronache che consentono di osservare da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. È vero, in alcuni casi l’ostinazione a raccontare le opacità del potere ha convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, in fondo, perché la libertà di stampa è nata nell’interesse dei governati e non dei governanti e quindi non c’è nessuna ragione decorosa per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione – ricordate un governatore della Banca d’Italia? – come un’autorità di vigilanza protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.

Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. I cronisti che violeranno la consegna del silenzio saranno sospesi per tre mesi dall’Ordine dei giornalisti (sarà questa la vera punizione) e subiranno una condanna penale da sei mesi a tre anni di carcere (che potrà trasformarsi in sanzione pecuniaria, però). Ma non è questo che conta davvero, mi pare. Che volete che sia una multa, se si è fatto un lavoro decente?

La trovata del governo che cambia radicalmente le regole del gioco è un’altra. È la punizione economica inflitta all’editore che, per ogni “omesso controllo”, potrà subire una sanzione pecuniaria (incarognita nell’ultimo testo) da 64.500 a 465mila euro. Come dire che a chi non tiene la bocca cucita su quel che sa – e che i lettori dovrebbero sapere – costerà milioni di euro all’anno la violazione della “consegna del silenzio”, cifre ragguardevoli e, in molti casi, insostenibili per un settore che non è in buona salute.

L’innovazione legislativa – l’abbiamo già scritto – sposta in modo subdolo e decisivo la linea del conflitto. Era esterna e impegnava alla luce del sole la redazione, l’autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, le redazioni e le proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L’editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si portano così le proprietà a intervenire direttamente nei contenuti del lavoro redazionale. Le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi della materia informativa vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo, nel progetto inviato al Parlamento, pretende addirittura che l’editore debba adottare “misure idonee a favorire lo svolgimento dell’attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio”. È evidente che solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell’attività giornalistica è possibile “scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”. Di fatto, l’editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela.

Ecco dunque i frutti intossicati della legge che oggi sarà approvata, senza alcuna discussione, a Montecitorio: la magistratura avrà meno strumenti per proteggere il Paese dal crimine e gli individui dall’insicurezza quotidiana; si castigano i giornalisti che non tengono il becco chiuso anche se sanno come vanno le cose; si punisce l’editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi – cari lettori – non conoscerete più (se non a babbo morto) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che decidono delle vostre stesse vite. Sono le nuove regole di una “ricreazione” che non finisce mai.

°°° Se Napolitano, contro ogni legge terrena e divina, dovesse firmare questa ulteriore porcata, sarebbe come se silvio berlusconi e la sua cosca al potere girassero impunemente con la parola MAFIA tatuata sulla fronte. Spero che il capo dello Stato lo mandi a cagare malamente e che le opposizioni si dimostrino tali. UNA MOSTRUOSITA’ DEL GENERE NON PUO’ PASSARE!

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Un pensiero a Francesco

FRANCESCO SALIS

Ai media regionali non è fregato niente, impegnati come sono a celebrare qualunque merda inutile e senza pregio, ma due anni fa è mancato il più grande compositore sardo di tutti i tempi e uno dei più grandi chitarristi europei. E’ mancato un uomo buono e meraviglioso. Molto più bravo di me nell’arte della diplomazia, forse troppo. Troppo schivo e timido. Infatti, che fosse un genio della musica lo sappiamo solo io, pochi intimi, Phil Spector, Brian Epstein, George Martin, Fabrizio De Andrè e tutti i più grandi addetti del mondo, oltre ai musicisti italiani bravi e non dei nostri tempi.

Non c’è più mio cugino, che era molto più di un fratello per me. Se n’è
andato FRANCESCO SALIS.

Insieme abbiamo scritto canzoni, quando nessuno in Sardegna scriveva
canzoni. Abbiamo fatto tanti spettacoli live di una dignità e di una
professionalità che qui non si erano mai viste. Ma mica perché eravamo i più bravi di tutti! No, semplicemente – oggi lo posso dire a voce alta – perché abbiamo avuto più coraggio degli altri. Noi siamo andati a IMPARARE, cosa che non aveva fatto mai nessuno prima e che tantomeno fanno i giovani di oggi. Troppo più comodo stare a casetta propria, con la mamma che lava, stira e cucina e babbo che sgancia qualche soldo. Il talento da solo non basta. Il talento è come l’amore: va coltivato, va aiutato a crescere, va coccolato e servito. Ci vogliono sacrifici, tanti, se si vuole mettere a frutto una dote naturale. E ci vuole umiltà. E così, mentre qualche nostro coetaneo andava ancora a scuola e qualcun altro passava le giornate al bar, noi abbiamo fatto fagotto a sedici anni e siamo partiti per Roma. Io facevo il cameriere e studiavo, andavo a vedere tutti i film e tutti gli spettacoli
che potevo per poter “rubare” un po’ di mestiere a tutti quelli bravi.
Volevo fare l’attore. Francesco suonava con tutti i mostri sacri dell’epoca, taliani e internazionali. E anche lui rubava tecniche e mestiere a tutti.
Ricordo ancora che dormivamo in una pensionaccia con uso cucina nei pressi
della stazione Termini. “S’Aquila” chiamavamo la vecchia padrona, perché strillava sempre ed era brutta come una bolletta dell’Enel. Io staccavo a mezzanotte dal mio lavoro alla Taverna Ulpia, che allora era un locale dilusso ai Fori Imperiali, levavo la giacca bianca per indossarne una nera e filavo, elegante come un figurino in smoking, alla volta del Capriccio o del Pipistrello, piuttosto che del Tucano o qualche altro night di via Veneto.
Raccontavo qualche storiella in francese e in inglese, avevo diritto a uno spuntino, verso le due, e al pomicio libero se c’era qualche fata
disponibile. Eravamo in piena DOLCE VITA e tutti gli attori e le attrici più
famosi del mondo erano lì. Sembrava di vivere in un film di Hollywood. Lì c’era anche Francesco che suonava, prima coi Barritas, poi con Edoardo Vianello e infine coi Poker d’Assi, e faceva delle session da capogiro con Riccardo Rauchi o Basso e Valdambrini, piuttosto che con Barny Kessel o Miles Davis o Carosone al piano. Poi, verso le cinque del mattino, rientravamo a piedi e, mentre io e gli altri musicisti andavamo in letargo, lui smontava la chitarra, metteva le corde a bollire poi le asciugava con cura e lerimontava, accordava e – in sordina – provava tutte le cose nuove, gli accordi o i passaggi e le svisature che aveva imparato anche quella notte dai grandi. Io spesso dormivo con un occhio solo e mi addormentavo sorridendo. Chissà quanti dei ragazzi di oggi sarebbero capaci di fare altrettanto. Suonare con amore per dieci/dodici ore di fila, intendo. Oggi vedo molta tecnica e poco cuore nei musicisti nostrani. I ricordi sono troppi. Troppi anni abbiamo vissuto insieme e mai abbiamo trascorso un giorno banale. La mia memoria vola come un’ape e ogni tanto si ferma a succhiare un momento. Rivedo le notti in cui tornavamo da qualche serata nel sassarese o nel nuorese e ci fermavamo a “fare la spesa” in qualche campo di carciofi novelli, ai margini di Santa Giusta. Francesco, col suo spolverino bianco, l’avrebbero visto a un km di distanza, infatti non vedeva l’ora di
smarcarsi dal campo: “Ajò, sussurrava, svitàndi atrus quattru o quìndisci e andàusu” (Dai, svitane altri quattro o quindici e andiamo). Rivedo noi, Salis&Salis ragazzini, quando incidemmo il nostro primo LP a Milano.
Lo producevo io e non avevo tantissimi soldi. Dovevamo fare presto: lo studio di registrazione costava una tombola ogni ora. Finite tutte le basi in un giorno e mezzo (allora c’erano molti colleghi che per fare un disco impiegavano anche tre o quattro mesi di studio), mancava poco alla pausa pranzo e chiesi a Francesco: “O Leo (diminutivo di LEONE DI DAMASCO, come lo chiamava Buscaglione perché, quando partiva con un assolo particolarmente impegnativo aveva la grinta di un leone), te la senti di fare qualche assolo prima di andare a brucare?” E lui, poggiando l’acustica e imbracciando la Fender Stratocaster: “Ehia, dai… due o trenta li proviamo a fare.” Io davo di gomito all’ingegnere del suono, in regia, e gli dicevo di preparare la pista per gli assoli. Ricordo ancora la sua faccia: “In mezz’ora? Ma non fa in tempo a farne nemmeno uno, specialmente se improvvisa.” Lo compatii e scommisi la cena. Leo controllò l’accordatura: perfetta. “Parti con le basi.” Tredici assoli in quaranta minuti. Il tecnico ci pagò una lauta cena.
Qualche anno più tardi, a Roma, io lavoravo e studiavo. Vivevo con una
famosa cantante in piazza Firenze. Lui suonava con Vianello e la Goich e
dormiva a casa della sorella Gianna a Montemario. Ci trovavamo almeno due sere a settimana a piazzale degli Eroi, intorno a mezzanotte. Francesco arrivava con una 500 rossa vecchio modello e parcheggiava sotto un lampione: avevo bisogno di luce. Poche parole. Era un rito consolidato. Apriva il deflettore per permettere al manico della chitarra di uscire, io aprivo il mio blocco e cominciavamo a comporre le nostre canzoni più belle. Una notte di primavera, faceva freschetto ed eravamo imbacuccati, mentre eravamo tutti intenti a scrivere un pezzo per Caterina Caselli, ci compaiono davanti due poliziotti: “Documenti. Patente e libretto.” Tiriamo fuori i documenti, ma uno dei due insiste: “Patente e libretto.” Noi ci guardiamo in faccia e cominciamo a ridere. Una risata nervosa che non finiva mai. Francesco, tra le convulsioni, fa: “Patente a me?! MAI AVUTO PATENTE, IO!” E giù a ridere.
I due agenti, non sapendo esattamente come reagire e non volendo, presumo, danneggiarci, cominciarono a ridere anche loro e quello che sembrava il capo ci rese le carte d’identità e diede una manata alla macchina: “Ma annatevan’affanculo! ‘A stronzi! Forza, sgombrate. Annate a casa a smaltì!” Ce la cavammo, e quella canzone non la incise mai la Caselli, ma “The 5th Dimension”, subito dopo il successo planetario di “Acquarius”. Scusate se è poco.

Chiudo il librone dei ricordi con le ultime immagini che ho di Francesco.
Due anni fa, mi ha convinto a riprovare a comporre insieme. Aveva tante
bellissime musiche e tanti spunti e in Sardegna, ripeteva, non c’era nessuno in grado di scrivere parole come si deve. “Forza, Di Santa, aberri su bloccu magicu! Faimmì sognài.” (Forza, Di Santa – un nome d’arte ridicolo che mi ero inventato quando volevo fare l’attore a Cinecittà: LUCIO DI SANTA (sottinteso: GIUSTA) – apri il blocco magico e fammi sognare.)
Era scarno e affaticato, sembrava Eduardo quando da vecchio faceva il vecchio. Gli occhi gli brillavano solo quando arrivavo io a casa sua e poteva rimettere in funzione chitarra e registratore.
Abbiamo composto quindici bellissime canzoni in meno di un mese: la più scarsa potrebbe agevolmente vincere un qualunque Sanremo.
Forte del mio nome, ho mandato i CD dei provini a tre delle maggiori multinazionali del disco. Cercavo un editore e un contratto, almeno per Francesco, ché non poteva campare con due soldi di pensione. Gli avevano aperto il petto già tre volte e nessun chirurgo ci voleva più mettere le mani. I politicanti sardi, sempre pronti a foraggiare
dei lestofanti cagliaritani o nuoresi senza arte né parte, ignoravano
Francesco. Spero che il sindaco di Santa Giusta, si ricordi di intitolargli
almeno una strada. Mandai i CD, dicevo, e questi boss della editoria
musicale, molto cortesemente, ascoltarono il materiale e mi risposero nel
giro di una settimana. Sconfortante. Il più intelligente fra loro, il capo
della Sony, mi disse: “Ma, Lucio, che roba mi hai mandato? Senza
arrangiamenti, così miserine. Noi stiamo cercando roba alla Britney Spears!”
“E chi è? Ma sei un editore o cosa? I brani devono vivere anche chitarra e voce. Le cagatine che dici tu, quando gli togli gli arrangiamenti e la gazzosa non esistono. Io ti ho mandato dei pezzi che saranno validi anche tra cinquant’anni. Pensaci bene: chi cazzo te lo paga lo stipendio? Te lo dico io, non certo Britney Spears, i Beatles te lo pagano, Modugno te lo paga! Scemo!”
Scusami, Francesco, questa volta non ce l’ho fatta a fare la magia.

Lucio

°°° Amici, perdonatemi questa botta di nostalgia. Grazie.

francesco-tonietto

salis

checco

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