I conti a puttane: grazie, Mafiolo!


L’ECONOMIA ITALIANA DOPO LEHMAN BROTHERS

di Francesco Daveri 22.05.2009

I dati ora disponibili permettono di leggere con maggiore precisione quanto è successo in Italia e negli altri paesi nei sei mesi dopo il fallimento di Lehman Brothers, l’inizio ufficiale della crisi. Ma non ci dicono tanto che l’Italia sta facendo meglio o peggio degli altri. Più che altro ci ricordano che in difficoltà ci siamo entrati molto prima degli altri. Per questo, rinviare le riforme è un lusso che l’economia italiana non può permettersi.

Il 15 maggio sono usciti i dati sull’andamento del Pil nel primo trimestre 2009. Si può quindi parlare con maggiore precisione di cosa è successo in Italia (e negli altri paesi) nei sei mesi dopo il fallimento di Lehman Brothers, cioè da quando è ufficialmente cominciata la crisi. Lo si può fare distinguendo tra gli effetti immediati della crisi (nel quarto trimestre 2008) e quelli meno immediati (del primo trimestre 2009), effetti che incorporano già in misura parziale alcune delle reazioni di politica economica nei paesi più rapidi a rispondere alla crisi. Per ottenere una valutazione ancora più precisa vale anche la pena di considerare gli indicatori mensili sul settore industriale (produzione, fatturato e ordinativi) e sulle vendite al dettaglio che arrivano fino al marzo 2009 e appena pubblicati dall’Istat. Infine, questi dati per così dire oggettivi possono essere incrociati con quelli che risultano dall’andamento del “sentiment”, di ciò che pensano le famiglie e le imprese, per vedere se esiste una correlazione tra le variabili soggettive e quelle oggettive.

IL PIL ITALIANO DOPO LEHMAN BROTHERS

I dati Istat indicano che, da quando è fallita Lehman Brothers, il Pil italiano è sceso di 4,4 punti percentuali in sei mesi, nel quarto trimestre del 2008 e nel primo del 2009, rispetto al valore del Pil registrato in media nei tre mesi che compongono il terzo trimestre 2008. Èun dato peggiore di pochi decimi di punto percentuale rispetto a quello dell’area euro e peggiore di un punto percentuale e più di quello dell’economia americana. Rispetto agli altri grandi paesi dell’Europa, l’Italia ha fatto molto meglio dell’economia tedesca che, con il –5,8 per cento dei sei mesi considerati, sta pagando duramente il fatto di essere diventato negli precedenti alla crisi il primo paese esportatore del mondo. E sta facendo molto meglio praticamente di tutti i paesi dell’Europa dell’Est, così legati all’economia tedesca e all’economia russa. L’economia italiana sta invece facendo meno bene del Regno Unito (-3,5 per cento) e in modo ancora più evidente di Spagna (-2,8 per cento) e Francia (-2,4 per cento).
Se si distinguono gli effetti immediati della crisi da quelli meno immediati, viene fuori che l’Italia ha subito un effetto immediato molto più forte degli altri, uguale a quello patito della Germania, e più alto di mezzo punto rispetto al dato medio per l’area euro. Gli effetti meno immediati della crisi sul Pil italiano sono stati invece quasi del tutto in linea con il dato medio dell’area euro.

Tabella 1: In Italia la crisi è meno peggio che altrove?

Ita Eu27 Usa Ger Fra UK Spagna
q4 2008 vs q3 2008 -2.1 -1.6 -1.6 -2.1 -1.2 -1.6 -1.0
q1 2009 vs q4 2008 -2.4 -2.5 -1.6 -3.8 -1.2 -1.9 -1.8
Il Pil dopo Lehman -4.4 -4.1 -3.2 -5.8 -2.4 -3.5 -2.8
q1 2009 vs q1 2008 -5.9 -4.6 -2.6 -6.9 -3.2 -4.1 -2.9

Nota: Prime due righe: dati trimestrali. Terza riga: dati trimestrali cumulati.

Ultima riga: dati tendenziali (stesso trimestre, a distanza di 12 mesi)
I dati del Pil possono essere letti anche con riguardo al cosiddetto “andamento tendenziale” dell’economia (trimestre in corso rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente), che è spesso confuso con l’andamento “congiunturale” (trimestre attuale sul trimestre precedente) nel dibattito pubblico. Su questo occorre essere chiari: il meno 5,9 per cento di crescita tendenziale del Pil enfatizzato nei giorni scorsi ha a che vedere solo parzialmente con la crisi. Si tratta infatti di un dato spurio che riflette l’andamento cumulato dell’economia nei due trimestri discussi qui (il “dopo Lehman”) e dei due trimestri precedenti (il secondo e il terzo del 2008), in cui l’economia italiana – lo abbiamo appreso in novembre – era già in recessione e gli altri paesi no. Il dato tendenziale dice che l’Italia andava peggio della media euro e degli altri grandi paesi europei (tranne la Germania) ben prima che la crisi cominciasse. Come più volte sottolineato in passato, i problemi dell’Italia non derivano tanto dalla crisi, ma da quello che era venuto prima. A causa della crescita economica più lenta degli altri dopo il 1995 abbiamo perso circa venti punti di Pil rispetto alla media degli altri quattro grandi paesi europei.

Crescita del Pil in Italia e nella media degli altri quattro grandi paesi europei, 1995-2008


INDUSTRIA E SERVIZI NEI DATI MENSILI

A partire dall’inizio del mese di marzo la Borsa italiana è ripartita, anche più velocemente delle altre borse europee, il che – a fianco di episodiche buone notizie provenienti da un certo recupero di dinamismo delle esportazioni dei distretti in qualche mercato di sbocco – ha spinto all’ottimismo molti commentatori ed esponenti politici. Dai dati mensili destagionalizzati sul settore industriale e sulle vendite al dettaglio non è però molto evidente da dove tragga origine tutto questo ottimismo. Èvero che, nel marzo 2009, il fatturato dell’industria è sceso solo dello 0,8 per cento, il dato migliore dal giugno 2008 dopo mesi di “meno tre” e “meno quattro” per cento. Un segno di rallentamento, non si sa quanto duraturo, dell’intensità della crisi. Èanche vero che le vendite al dettaglio hanno fatto registrare in marzo +0,1 per cento rispetto al mese di febbraio.
Ma il dato sulle vendite al dettaglio è un indicatore che risente sia dell’andamento dei prezzi che dei volumi venduti e quindi può anche rispecchiare una certa capacità dei distributori italiani di far pagare la crisi ai consumatori in presenza di una contrazione dei volumi venduti. Come emerge dalle interviste coni responsabili marketing di aziende del largo consumo, del terziario innovativo riportate in una recente ricerca di Carlo Erminero & Co., “vista dal lato del marketing, l’attuale crisi economica è un fenomeno ancora dai contorni sfuggenti”.
Il dato meno negativo che in passato del fatturato industriale si affianca poi a un dato inalterato per la produzione industriale che ha invece confermato in marzo il -4,6 per cento di febbraio 2009. E il dato degli ordinativi dell’industria (-2,7 per cento in marzo) è sostanzialmente in linea con la media di gennaio e febbraio 2009. (1) Semmai, i dati disponibili potrebbero indicare che la crisi economica si sta svolgendo come preventivato, avendo colpito più duramente nei primi quattro o cinque mesi i settori che producono beni durevoli – i cui acquisti sono i primi ad essere posposti nel tempo durante una recessione – per poi estendersi al settore dei beni non durevoli, i quali hanno fatto registrare una riduzione congiunturale del fatturato, della produzione, rispettivamente di circa due e tre punti percentuali, nel marzo 2009 – un calo ben più serio di quello sperimentato nei primi mesi della crisi. Se questi dati saranno confermati nel mese di aprile, saranno indice del fatto che la crisi del settore industriale si sta approfondendo e sta raggiungendo i settori non coperti dagli incentivi del governo.

PIÙ CORAGGIO CON LE RIFORME PER TORNARE A CRESCERE DAVVERO

Anche se le informazioni disponibili sul dopo Lehman sono ancora troppo scarse per trarre conclusioni definitive, i dati esistenti (fino al marzo 2009) non indicano un’attenuazione dell’entità della crisi che giustifichi l’ottimismo delle borse. In ogni caso, se anche i pochi segnali positivi si moltiplicassero, ciò non toglierebbe che, se il governo non vince la timidezza nel proseguire con le riforme (età pensionabile, università, mercato del lavoro), l’economia italiana potrà – al più – ritornare al tasso di crescita medio di cui ha goduto negli ultimi quindici anni: +1 per cento l’anno, troppo poco per ridare fiducia duratura alle famiglie e alle imprese.

daveri1242994973


°°° E’ UNA PARTITA A DAMA CHE STIAMO PERDENDO PER COLPA DEL MAFIONANO E DELLA SUA ACCOLITA DI IGNORANTI, LADRI, E PASTICCIONI.

dama

(1) Il dato di gennaio – pari a -3,7 per cento – è stato particolarmente negativo “per colpa” dell’annuncio degli incentivi all’acquisto di beni durevoli (auto, elettrodomestici, eccetera) mentre il dato di febbraio (pari a -2,1 per cento) è stato migliore essenzialmente grazie all’entrata in funzione degli incentivi.

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Come la mettiamo?

L’ITALIA RIPUDIA LA GUERRA, MA VENDE ARMI A GO-GO – BOOM NEL SETTORE (+220%) NEL 2008 AUTORIZZATE VENDITE PER 4,3 MLD – LA TURCHIA IL CLIENTE MIGLIORE, MA NON MANCANO CINA, NIGERIA E ANCHE NEI BALCANI…
(Raphaël Zanotti La Stampa)
L’Italia ripudia la guerra, è scritto nella Costituzione. Eppure, di armi italiane, è pieno il mondo. L’Italia vende un po’ a tutti. Paesi belligeranti compresi. Un comparto che non conosce crisi, flessioni. Nel 2008 il volume d’affari è cresciuto del 222% rispetto all’anno precedente, con le transazioni bancarie schizzate da 1.329.810.000 a 4.285.010.000. Scrive la Presidenza del Consiglio nel suo ultimo rapporto sulle esportazioni, importazioni e transito dei materiali d’armamento: «Tale comparto rappresenta un patrimonio tecnologico, produttivo e occupazionale non trascurabile per l’economia del Paese». L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, è anche scritto nella Costituzione.

Il maggior acquirente di armi italiane è la Turchia, programmi intergovernativi eslcusi. Le imprese italiane hanno ottenuto dal governo 11 autorizzazioni a stringere affari con Ankara. Si tratta del 35,86% del totale, per un valore di 1092 milioni di euro (quattro volte il Regno Unito, al secondo posto con 254 milioni). Il primato della Turchia è dovuto all’acquisto di elicotteri da combattimento dell’Augusta che saranno utilizzati, secondo il ministro della Difesa turco, per «ricognizione tattica e attacco bellico».

La Turchia non rientra nell’elenco dei Paesi per cui vige un embargo Onu o Ue. Non è considerato Paese in conflitto o dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani. Eppure, per Amnesty International, non è così. A dicembre 2007 le forze armate turche hanno effettuato operazioni militari nell’Iraq settentrionale alla ricerca di basi del Pkk. Attentati a Smirne, nel distretto di Ulus ad Ankara e a Sirnak hanno provocato numerosi morti. Condanne e omicidi per chi parla di «Kurdistan» o «denigra l’identità turca». Una guerra a bassa intensità, che va avanti da anni.

Esclusa dalla lista nera anche la Cina, a cui l’Italia ha venduto apparecchiature elettroniche per 147.000 euro. Le sentenze di morte emesse quell’anno da Pechino sono state 1860, di cui 470 eseguite. La repressione di tibetani, uiguri e mongoli non si è allentata. Fuori lista anche l’India che da 50 anni combatte con il Pakistan per il controllo del Kashmir.
Armi

Passati sotto silenzio i 179 morti dell’attentato a Mumbai e i movimenti di decine di migliaia di uomini sul confine, Delhi risulta il miglior partner economico per l’industria armiera italiana tra i Paesi non Ue. Armi di grosso calibro, munizioni, bombe, missili, apparecchiature per la direzione del tiro, navi da guerra, aerei, apparecchiature elettroniche, software e tecnologia: in tutto sono state autorizzate esportazioni per quasi 173 milioni di euro. Ma se la guerra non c’è, perché non vendere armi anche al «rivale»? Il Pakistan ha così acquistato da noi apparecchiature per la direzione del tiro, veicoli terrestri, navi da guerra, aerei e apparecchiature elettroniche per 30 milioni.
Anche Israele è «esente» da conflitti. Vendiamo così a Tel Aviv aerei, sistemi d’arma a energia diretta, software e tecnologia per 1,9 milioni. Fra i clienti non abbiamo Palestina, Iraq o Iran, ma la Siria compra da noi i suoi sistemi di puntamento per 2,8 milioni.

Trovare nuovi clienti non sembra difficile. A febbraio 2008 una fiammata investe i Balcani. Il premier Hashim Thaci proclama l’indipendenza del Kosovo. Il Capo di Stato serbo Boris Tadic dichiara: «La Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo». Quell’anno l’Italia vende al neonato Stato balcanico agenti tossici, chimici o biologici, gas lacrimogeni e materiali radioattivi. Alla Serbia apparecchiature elettroniche per quasi 7 milioni di euro.

Altre zone calde dove sono presenti armi italiane sono la Nigeria (aerei e tecnologia, 60 milioni di euro), il Kenia delle violenze elettorali tra Pnu e Odm (navi da guerra e apparecchiature elettroniche, 21 milioni), il Messico dei 2500 morti all’anno delle organizzazioni criminali (armi leggere e armi pesanti, 10 milioni), il Vietnam (apparecchiature elettroniche, 108 mila euro).

Un mercato che tira e non solo nelle aree del mondo a rischio. I programmi intergovernativi hanno registrato un incremento del 45% tra il 2007 e il 2008 passando da un valore di 1846 a 2689 milioni di euro. Il segmento copre ormai il 65% dell’intero comparto italiano ed è sempre più difficile da controllare. Quest’anno, dal rapporto, è sparito l’elenco delle banche attraverso cui passavano le transazioni finanziarie per la compravendita di armamenti.

guerra

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