Questa porcata del regime malavitoso le supera davvero tutte

Espulsione lampo per Faith L’avvocato contro la Questura

di Andrea Bonzi

 

 Un rimpatrio-lampo, dopo una breve permanenza al Cie di Bologna. Una ragazza africana, ora detenuta a Lagos, che rischia la pena di morte. Ma che, denuncia il suo avvocato, non ha avuto dalla Questura né il tempo né gli strumenti per chiedere asilo politico. È la drammatica storia di Faith Ayworo, ragazza africana di 23 anni, processata in Nigeria per omicidio: anni fa un uomo aveva cercato di stuprarla, lei si era difesa uccidendolo.

Ma la violenza ha continuato a segnare la vita della ragazza, arrivata in Italia nel 2008, ora a Bologna. Una ventina di giorni fa, infatti, un altro nigeriano aveva tentato di forzarla a un rapporto nell’appartamento di lei. I vicini di casa hanno chiamato i carabinieri: gli agenti, dopo aver verificato che su Faith pendevano due decreti di espulsione non ottemperati, l’hanno portata alla struttura di via Mattei. E mercoledì, nonostante il tentativo del suo avvocato, Alessandro Vitale, di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di giustizia (avrebbe dovuto testimoniare per la recente aggressione) e di presentare richiesta di asilo politico (a cui avrebbe potuto avere diritto), è stata riportata dagli agenti a Lagos, nel Paese africano, dove è in attesa dell’impiccagione. Quello che stupisce e amareggia è la velocità con cui è stato eseguito il reimpatrio, avvenuto ancor prima della decisione da parte del giudice sulla sospensiva e senza che l’avvocato, avvisato all’ultimo del rischio che Faith stava correndo in Nigeria, potesse trasmettere le informazioni alla Questura. Inevitabile la polemica. La polizia sostiene che dalla banca dati Interpol non risultava nessun provvedimento di cattura nei confronti della ragazza e che quest’ultima, «serena e tranquilla» durante la permanenza al Cie non avrebbe «mai manifestato in alcun modo l’intenzione di chiedere la protezione internazionale», né avrebbe raccontato a nessuno la vicenda dell’uccisione avvenuta nel tentativo di stupro. Inoltre, sarebbero state ravvisate firme mancanti nella richiesta di asilo presentata in extremis dal legale.

Scuse «pretestuose», quelle di piazza IV novembre, «per dare una spiegazione a un comportamento non corretto», attacca l’avvocato Vitale. Che ricorda come «Faith non parli minimamente l’italiano, tanto che per l’udienza di convalida al Cie c’è stato bisogno dell’interprete», e dunque avrebbe fatto fatica a manifestare espressamente l’intenzione di rimanere nel nostro Paese. Contestata poi anche l’argomentazione secondo cui nella banca dati Interpol non risultasse nessun provvedimento di cattura: «Il punto – incalza Vitale – è che non spetta a loro questa valutazione, lo deve fare una commissione ad hoc». Intanto, la gara di solidarietà è partita. Il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) ha scritto all’ambasciatore italiano in Nigeria. Cgil, Cisl, Uil denunciano «una legge che non ha mai permesso a Faith di poter richiedere un regolare permesso di soggiorno» e chiedono alle istituzioni di attivarsi. In Nigeria nell’ultimo anno sono state giustiziate almeno 58 persone. Appelli accorati anche da parte del Prc e della Casa delle donne.

DELINQUENTE, ASSASSINO!

b.mafioso

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All’estero e negli Usa siamo considerati alla stregua del Kenia e della Nigeria

Bersani: «L’immagine dell’Italia: corruzione e crisi sociale»
di Simone Collinitutti gli articoli dell’autore Che ci sia un problema di corruzione, oltre che sociale, che si sia aperta una questione di legalità e mancato rispetto delle regole, lo vedono bene gli italiani. E non solo gli italiani». Pier Luigi Bersani parla poche ore prima di imbarcarsi sull’aereo che dagli Stati Uniti lo riporta in Italia. Questa settimana di incontri e colloqui tra Washington e New York è stata caratterizzata qui da noi dall’uscita di notizie su loschi affari e nuove logge segrete, in cui i nomi dei faccendieri sono affiancati da quelli di esponenti del Pdl. E il segretario del Pd ha toccato con mano la «preoccupazione» che anche oltreoceano desta «l’instabilità italiana». Un’instabilità a cui si aggiungono anche evidenti «meccanismi di controllo dell’informazione» e pratiche tese a «deformare il sistema democratico».

«È inutile che Berlusconi dica che godiamo di una buona immagine all’estero», dice Bersani dopo aver incontrato membri del Dipartimento di Stato, del Congresso Usa, dell’Onu, sindacalisti, economisti. «Semplicemente, non risulta. L’Italia in questo momento viene guardata con un misto di apprensione e incredulità. In molti colloqui mi sono state rivolte le stesse domande. Cosa succede? E come è possibile?». Intercettazioni, arresti, dimissioni non trovano spazio sulle pagine dei quotidiani statunitensi, ma nei rapporti riservati che l’ambasciata di Via Veneto spedisce al Dipartimento di Stato Usa la situazione che sta attraversando l’Italia viene spiegata nei dettagli. Così anche una personalità come Phil Gordon, del Bureau per gli affari europei ed eurasiatici, ha rivolto domande a Bersani sulle possibili conseguenze degli ultimi avvenimenti. «Pur in un quadro di diplomazia nei rapporti – racconta il leader del Pd – si capisce che da queste parti il nostro premier non gode di grande stima». Non è solo questione delle ultime ore, perché a non mettere in buona luce Berlusconi, oltreoceano, c’è quella che Bersani definisce una politica estera fatta di «relazioni privilegiate e rapporti speciali». La situazione è però ora aggravata dagli scandali e da una legge sulle intercettazioni che per gli americani mette a rischio il successo di molte indagini anche internazionali (come già dichiarato dal sottosegretario del dipartimento Giustizia Usa Lanny Brauer) e fa diminuire ancora di più il livello di libertà di stampa in Italia. Bersani racconta della visita al Newsmuseum di Washington, il museo dell’informazione in cui è presente anche una cartina del mondo su cui le nazioni sono colorate a seconda del grado di libertà di stampa. «L’Italia è gialla, parzialmente libera, unico paese europeo, mentre è allo stesso livello di Tailandia, Colombia, Kenya, Nigeria». Il modo in cui viene trattata da noi l’informazione, racconta, «qui non piace a nessuno, che si tratti di liberal o di conservatori».

Così come non piace a nessuno il modo in cui il governo italiano sta venendo meno agli accordi internazionali per i paesi in via di sviluppo: «Il fatto che non stiamo pagando patti che abbiamo sottoscritto ci fa perdere posizione anche in partite delicate che stavamo conducendo, compreso il rinnovo del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Una situazione che metterà sempre più l’Italia «ai margini», quando invece dovrebbe «giocare più seriamente un ruolo» per favorire l’integrazione europea, o per affrontare in modo diverso il protrarsi del conflitto in Afghanistan.
Al presidente della commissione Affari esteri del Senato John Kerry, al presidente del Comitato economico e sociale dell’Onu Hamidon Aly, così come agli esponenti della comunità italoamericana incontrata a Brooklyn Bersani l’ha detto che «la situazione politica in Italia si sta complicando». Ma, racconta, a tutti loro ha anche assicurato che questa fase non durerà a lungo: «Non c’è solo l’Italia di Berlusconi».

APTOPIX ITALY BERLUSCONI

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Come la mettiamo?

L’ITALIA RIPUDIA LA GUERRA, MA VENDE ARMI A GO-GO – BOOM NEL SETTORE (+220%) NEL 2008 AUTORIZZATE VENDITE PER 4,3 MLD – LA TURCHIA IL CLIENTE MIGLIORE, MA NON MANCANO CINA, NIGERIA E ANCHE NEI BALCANI…
(Raphaël Zanotti La Stampa)
L’Italia ripudia la guerra, è scritto nella Costituzione. Eppure, di armi italiane, è pieno il mondo. L’Italia vende un po’ a tutti. Paesi belligeranti compresi. Un comparto che non conosce crisi, flessioni. Nel 2008 il volume d’affari è cresciuto del 222% rispetto all’anno precedente, con le transazioni bancarie schizzate da 1.329.810.000 a 4.285.010.000. Scrive la Presidenza del Consiglio nel suo ultimo rapporto sulle esportazioni, importazioni e transito dei materiali d’armamento: «Tale comparto rappresenta un patrimonio tecnologico, produttivo e occupazionale non trascurabile per l’economia del Paese». L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, è anche scritto nella Costituzione.

Il maggior acquirente di armi italiane è la Turchia, programmi intergovernativi eslcusi. Le imprese italiane hanno ottenuto dal governo 11 autorizzazioni a stringere affari con Ankara. Si tratta del 35,86% del totale, per un valore di 1092 milioni di euro (quattro volte il Regno Unito, al secondo posto con 254 milioni). Il primato della Turchia è dovuto all’acquisto di elicotteri da combattimento dell’Augusta che saranno utilizzati, secondo il ministro della Difesa turco, per «ricognizione tattica e attacco bellico».

La Turchia non rientra nell’elenco dei Paesi per cui vige un embargo Onu o Ue. Non è considerato Paese in conflitto o dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani. Eppure, per Amnesty International, non è così. A dicembre 2007 le forze armate turche hanno effettuato operazioni militari nell’Iraq settentrionale alla ricerca di basi del Pkk. Attentati a Smirne, nel distretto di Ulus ad Ankara e a Sirnak hanno provocato numerosi morti. Condanne e omicidi per chi parla di «Kurdistan» o «denigra l’identità turca». Una guerra a bassa intensità, che va avanti da anni.

Esclusa dalla lista nera anche la Cina, a cui l’Italia ha venduto apparecchiature elettroniche per 147.000 euro. Le sentenze di morte emesse quell’anno da Pechino sono state 1860, di cui 470 eseguite. La repressione di tibetani, uiguri e mongoli non si è allentata. Fuori lista anche l’India che da 50 anni combatte con il Pakistan per il controllo del Kashmir.
Armi

Passati sotto silenzio i 179 morti dell’attentato a Mumbai e i movimenti di decine di migliaia di uomini sul confine, Delhi risulta il miglior partner economico per l’industria armiera italiana tra i Paesi non Ue. Armi di grosso calibro, munizioni, bombe, missili, apparecchiature per la direzione del tiro, navi da guerra, aerei, apparecchiature elettroniche, software e tecnologia: in tutto sono state autorizzate esportazioni per quasi 173 milioni di euro. Ma se la guerra non c’è, perché non vendere armi anche al «rivale»? Il Pakistan ha così acquistato da noi apparecchiature per la direzione del tiro, veicoli terrestri, navi da guerra, aerei e apparecchiature elettroniche per 30 milioni.
Anche Israele è «esente» da conflitti. Vendiamo così a Tel Aviv aerei, sistemi d’arma a energia diretta, software e tecnologia per 1,9 milioni. Fra i clienti non abbiamo Palestina, Iraq o Iran, ma la Siria compra da noi i suoi sistemi di puntamento per 2,8 milioni.

Trovare nuovi clienti non sembra difficile. A febbraio 2008 una fiammata investe i Balcani. Il premier Hashim Thaci proclama l’indipendenza del Kosovo. Il Capo di Stato serbo Boris Tadic dichiara: «La Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo». Quell’anno l’Italia vende al neonato Stato balcanico agenti tossici, chimici o biologici, gas lacrimogeni e materiali radioattivi. Alla Serbia apparecchiature elettroniche per quasi 7 milioni di euro.

Altre zone calde dove sono presenti armi italiane sono la Nigeria (aerei e tecnologia, 60 milioni di euro), il Kenia delle violenze elettorali tra Pnu e Odm (navi da guerra e apparecchiature elettroniche, 21 milioni), il Messico dei 2500 morti all’anno delle organizzazioni criminali (armi leggere e armi pesanti, 10 milioni), il Vietnam (apparecchiature elettroniche, 108 mila euro).

Un mercato che tira e non solo nelle aree del mondo a rischio. I programmi intergovernativi hanno registrato un incremento del 45% tra il 2007 e il 2008 passando da un valore di 1846 a 2689 milioni di euro. Il segmento copre ormai il 65% dell’intero comparto italiano ed è sempre più difficile da controllare. Quest’anno, dal rapporto, è sparito l’elenco delle banche attraverso cui passavano le transazioni finanziarie per la compravendita di armamenti.

guerra

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