La verità che non può dire

La verità che non può dire
di GIUSEPPE D’AVANZO

Berlusconi esige da noi, per principio e diritto divino, come se davvero fosse “unto dal Signore”, la passiva accettazione dei suoi discorsi. Pretende che non ci siano repliche o rilievi alle sue parole. Reclama per sé il monopolio di un’apparenza che si cucina in casa con i cuochi di famiglia. Senza contraddittorio, senza una domanda, senza un’increspatura, senza la solidità dei fatti da lui addirittura non contraddetti, senza un estraneo nei dintorni. Vuole solo famigli e salariati. Con loro, il Cavaliere frantuma la realtà degradata che vive. La rimonta come gli piace a mano libera e ce la consegna pulita e illuminata bene. A noi tocca soltanto diventare spettatori – plaudenti – della sua performance. Berlusconi ci deve immaginare così rincitrulliti da illuderci di poter capire qualcosa di quel che accade (è accaduto) non servendoci di ciò che sappiamo, ma credendo a ciò che egli ci rivela dopo aver confuso e oscurato quel che già conosciamo. Quindi, via ogni fatto accertato o da lui confessato; via le testimonianze scomode; via documenti visivi; via i giornalisti impiccioni e ostinati che possono ricordarglieli; via anche l’anchorman gregario e quindi preferito; via addirittura la televisione canaglia che da una smorfia può rivelare uno stato d’animo e una debolezza.

Berlusconi, che pare aver smarrito il suo grandioso senso di sé, si rimpannuccia sul divano di casa affidandosi alle calde cure del direttore di Chi. Insensibile alle contraddizioni, non si accorge dell’impudico paradosso: censurare i presunti pettegolezzi dalle colonne di un settimanale della sua Mondadori, specializzato in gossip. Dimentico di quanto poca fortuna gli abbia portato il titolo di Porta a Porta (5 maggio) “Adesso parlo io” (di Veronica e di Noemi), ci riprova. “Adesso parlo io” strilla la copertina di Chi. Il palinsesto è unico.

In un’atmosfera da caminetto, il premier ricompone la solita scena patinata da fotoromanzo a cui non crede più nessuno, neppure nel suo campo. La tavolozza del colore è sempre quella: una famiglia unita nel ricordo sempre vivo di mamma Rosa e nell’affetto dei figli; l’amore per Veronica ferito – certo – ma impossibile da cancellare; la foto con il nipotino; una vita irreprensibile che non impone discolpa; l’ingenuità di un uomo generoso e accogliente che non si è accorto della presenza accanto a lui, una notte, di una “squillo” di cui naturalmente non ha bisogno e non ha pagato perché da macho latino conserva ancora il “piacere della conquista”.

Acconciata così la sua esistenza che il più benevolo oggi definisce al contrario “licenziosa”, chi la racconta in altro modo non può essere che un “nemico”. Da un’inimicizia brutale sono animati i giornali che, insultati ma non smentiti, raccontano quel che accade nelle residenze del presidente. Antagonisti malevoli, prevenuti o interessati sono quegli editori che non azzittiscono d’imperio le loro redazioni. C’è qualcosa di luciferino (o di vagamente folle) nella pretesa che l’opinione pubblica – pur manipolata da un’informazione servile – s’ingozzi con questo intruglio. Dimentico di governare un Paese occidentale, una società aperta, una democrazia (ancora) liberale, il capo del governo pare convinto che, ripetendo con l’insistenza di un disco rotto, la litania della sua esemplare “storia italiana” possa rianimare l’ormai esausta passione nazionale per l’infallibilità della sua persona. È persuaso che, mentendo, gli riesca di sollecitare ancora un odio radicale (nell’odio ritrova le energie smarrite e il consenso dei “fanatizzati”) contro chi intravede e racconta e si interroga – nell’interesse pubblico – sui lati bui della sua vita che ne pregiudicano la reputazione di uomo di governo e, ampiamente, la sua affidabilità internazionale. Berlusconi sembra non voler comprendere quanto grave – per sé e per il Paese – sia la situazione in cui si è cacciato e ha cacciato la rispettabilità dell’Italia. Ha voluto convertire, con un tocco magico e prepotente, le “preferite” del suo harem in titolari della sovranità popolare trasformando il suo privato in pubblico. Non ha saputo ancora spiegare, dopo averlo fatto con parole bugiarde, la frequentazione di minorenni che ora passeggiano, minacciose, dinanzi al portone di Palazzo Chigi. Ha intrattenuto rapporti allegri con un uomo che, per business, ha trasformato le tangenti alla politica in meretricio per i politici. Il capo del governo deve ora fronteggiare i materiali fonici raccolti nella sua stanza da letto da una prostituta e le foto scattate da “ragazze-immagine”, qualsiasi cosa significhi, nel suo bagno privato mentre ogni giorno propone il nome nuovo di una “squillo” che ha partecipato alle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli (che pressione danno a Berlusconi, oggi?).

La quieta scena familiare proposta da Chi difficilmente riuscirà a ridurre la consistenza di quel che, all’inizio di questa storia tragica, si è intravisto e nel prosieguo si è irrobustito: la febbre di Berlusconi, un’inclinazione psicopatologica, una sexual addiction sfogata in “spettacolini” affollati di prostitute, minorenni, “farfalline”, “tartarughine”, “bamboline” coccolate da “Papi” tra materassi extralarge nei palazzi del governo ornati dal tricolore. Una condizione (uno scandalo) che impone di chiedere, con la moglie, quale sia oggi lo stato di salute del presidente del Consiglio; quale sia la sua vulnerabilità politica; quanta sia l’insicurezza degli affari di Stato; quale sia la sua ricattabilità personale. Come possono responsabilmente, questi “buchi”, essere liquidati come affari privati?

La riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non consentirà a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui è caduto da solo. Ipotizzare un “mandato retribuito” per la “escort” che ricorda gli incontri con il presidente a Palazzo Grazioli è una favola grottesca prima di essere malinconica (la D’Addario è stata prima intercettata e poi convocata come persona informata dei fatti). Evocare un “complotto” di questo giornale è soltanto un atto di intimidazione inaccettabile.

Ripetendo sempre gli stessi passi come un automa, lo stesso ritornello come un cantante che conosce una sola canzone, Berlusconi appare incapace di dire quelle parole di verità che lo toglierebbero d’impaccio. Non può dirle, come è sempre più chiaro. La sua vita, e chi ne è stato testimone, non gli consente di dirle. È questo il macigno che oggi il capo del governo si porta sulle spalle. Non riuscirà a liberarsene mentendo. Non sempre la menzogna è più plausibile della realtà. Soprattutto quando un Paese desidera e si aspetta di sentire la verità su chi (e da chi) lo governa.

°°° L’unico commento che posso fare, a questa riflessione lucidissima, è: Caro Silvio, chi troppo in alto sal cade sovente precipitevolissimevolmente. Lo vedi che brutta fine ha fatto Icaro, per essersi esposto troppo al Sole senza la giusta crema protettiva?

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Dentro il cervello… niente

L’instant book
Elisa, la «velina» pro Cavaliere
Così nacque il nomignolo «papi»
«Lo conobbi in volo, aveva un dossier su di me. È una miniera di saggezza»

Elisa Alloro (dal suo sito web)

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REGGIO EMILIA – Nome in codi­ce: papi. Non se la prenda Noemi: non è stata l’unica e non sarà l’ulti­ma. La prima fu Renata, velina mila­nista, sangue brasiliano nelle vene e tanta adrenalina da spendere. Fu lei, nell’orgasmo calcistico di una Cham­pions League ancora da vincere e con la promessa ai suoi fans televisi­vi di uno spogliarello stile Ferilli in caso di successo rossonero, ad appic­cicare al premier Silvio Berlusconi quella parolina, «papi», che ora sta fa­cendo il giro del mondo. «Renata è un tipo un po’ sui generis, ha una componente maschile molto accen­tuata. Ha chiamato il premier con questo appellativo con incolpevole naturalezza per rimarcarne la familia­rità con il Milan, senza nemmeno averlo mai conosciuto prima». Trovata geniale, mediaticamente fulminante: da allora, quel vezzeggia­tivo si è diffuso con la velocità di una pandemia nella variopinta galas­sia umana che circonda il Cavaliere. «E ora molte ragazze si rivolgono a lui in quel modo. È una consuetudi­ne, forse il frutto di un tacito accor­do, una specie di nome in codice de­ciso, magari, per l’atavico timore di essere intercettate».

Papi, nome in codice. A svelare il mistero, per la tranquillità dei posteri, è la reggiana Elisa Alloro, 32 anni, valletta, showgirl. E da oggi pure scrittrice. Catturando il vento del momento, ha scritto un instant book dal titolo «Noi, le ragazze di Silvio» (100 pagine, Aliberti editore, euro 9,90). Si tranquillizzino Ghedini e il suo stuolo di legali: non c’è fango nelle pagine di Elisa. Che, anzi, sotto forma di lettera de­stinata a Veronica Lario, rintuzza le accuse di «ciarpame» e difende lo sta­tus di velina con annesse ambizioni elettorali (comprese le sue, visto che figurava tra le eurocandidabili al cor­so di formazione politica in via del­l’Umiltà, per poi ripiegare, dopo il ci­clone Veronica, su una nomination comunale a Reggio con il Pdl). Ma so­prattutto regala parole uniche sul Ca­valiere. Testuale: «Il premier è una miniera di saggezza… Ogni minuto trascorso con lui l’ho sempre conside­rato alla stregua di un dono divino».

E siccome i miracoli esistono, un bel giorno del 2004 Elisa, che allora lavorava per Mediaset, co­nobbe il suo mito. Dove­va intervistarlo sul Ponte di Messina. E invece, in un batter d’occhio, si ri­trovò catapultata in Sar­degna, «ad un pranzo di lavoro — scrive — con professionisti dello staff presidenziale: io, unica donna». Il tutto, dopo un volo da Ciampino «sul­l’aereo della Presidenza del Consiglio», durante il quale scoprì che il premier, di lei, sa­peva tutto («Esibì un corposo fascico­lo » ricorda Elisa). E le fece pure un’offerta di lavoro (che lei rifiutò): «Mi spiegò che stava mettendo insie­me una task force di 50 giovani gior­nalisti che facessero da ufficio stam­pa ponte tra Roma e Bruxelles: al suo curriculum gioverebbe enormemente, mi disse…». Terminata la colazione, di nuovo sull’aereo di Stato: destinazione Milano, stadio San Siro, dove era di scena il Milan. Poi ancora auto blu, il grido delle sirene («Milano sembrava tutta per noi…») per l’ennesimo trasferimento aereo su Ciampino.

Lasciata Mediaset, Elisa ha lavorato per una casa di produzione, ma non ha perso le tracce del premier: «A volte è capitato che mi invitasse a raggiungerlo a villa Certosa, a cene con decine di ospiti ». Di Noemi ha ricordi vaghi («Ci siamo presentate fugacemente durante una festa»). Molto più impressa le è rimasta invece «l’ossessione del Cavaliere per l’ordine». Come quando suggerì a Michela Vittoria Brambilla di tenere i capelli raccolti, «che addolciscono i lineamenti ». O a Mara Carfagna «il castigato caschetto, che allontana lo stereotipo da star di calendario». E come dimenticare, scrive Elisa, le due gemelle montenegrine che inscenarono «uno sconclusionato e folle balletto davanti agli occhi di un costernato premier»? E «le altre apparizioni non annunciate, femminili e non, ai cancelli delle sue dimore…»? Chiusura del libro con ringraziamenti. Ad amici, genitori. E pure «a Silvio, autore inconsapevole di molte di queste pagine».

Francesco Alberti

°°° Ecco un’altra gallina decerebrata (scrittrice… Sic!) che avvalora le denunce di uso improprio degli aerei di Stato. Parla anche della “saggezza del premier-papi“… ma quanto è saggio scarrozzare una zoccoletta su e giù per l’Italia a spese nostre? Quanto è serio? Quanto è responsabile? Quanto è sensato? Tutti liberi di farsi i cazzi loro, alla faccia della crisi, alla faccia delle famiglie, alla faccia dei terremotati, alla faccia dei disoccupati, alla faccia dei pensionati. COI NOSTRI SOLDI! Alla faccia della feccia!

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LUCIO SALIS © Copyright 1994

Da “LEI NON SA CHI SONO STATO IO”

Capitolo terzo

EMILIO FEDE

Tutti dicono che è un “servo sciocco“, ma io non penso che sia sciocco.
Emilio Fede non nasce come vorrebbero i maligni in Serbia, in Val di Schiava, o a Lecco, ma in Sicilia. Figlio d’arte: sua madre domestica e suo padre valletto in un programma televisivo (in una tv locale di Pippo Baudo, naturalmente. Pippo già a tre anni poteva di tutto e di più). Emilio, precocissimo, già in occasione del proprio battesimo pretende di SERVIRE messa. Si becca subito una papagna dal parroco, che aveva mani grandi come palazzi (gli prendeva la misura per i guanti un geometra del vicinato e doveva comprare la pelle o la lana a ettari). Emilio frequenta le elementari in Sicilia e diventa subito una celebrità: sa tutto sui servi della gleba e porta la cartella a tutti i suoi compagni (ancora oggi, da come agita le mani, si notano i guasti degli antichi sforzi). Viene soprannominato “sciarpetta“, per via della lingua sempre al vento, pronta all’uso. I maestri andavano blanditi. Tutti dicevano “bacio le mani”, lui brevettò “bacio il culo”. A otto anni fa la Cresima e i suoi lo vestono da cameriere: pantaloni lunghi neri, giacca bianca, camicia bianca e papillon nero. Un segno del destino. Anche in quell’occasione pretese di servire lui la messa. Fu talmente insistente e petulante che la papagna del vescovo fu indimenticabile e superò in potenza quella battesimale del parroco: forse per via dell’anello vescovile. Ancora oggi Emilio sorride di sghembo, per via della mascella spostata. Subito dopo la cerimonia sacra, però, gli venne consentito di servire il caffellatte e le gallette a tutti i suoi compagni seduti ad una grande tavolata, nel salone parrocchiale. Emilio toccò il cielo con un dito. A sera, mascella gonfia per il “tocco” divino e piedi gonfi per il gran scarpinare, si addormentò stanco ma felice. Con la scuola andavano spesso a teatro. Lui non capiva granché e si annoiava. Tifava per i servi di scena e le maschere che tagliavano i biglietti. Finalmente arrivò Strehler in tournée col suo cavallo di battaglia: ”Arlecchino, servitore di due padroni”. Per Emilio fu una rivelazione. Tornò otto volte a vederlo. Anche se odiò Arlecchino per la sua improntitudine e non capì mai un cazzo della trama. Umilio è fatto così, si sa: quelle rare volte che gli vengono due pensieri contemporaneamente, visto lo spazio angusto del cervellino, sono costretti a fare manovra. Al liceo si appassionò alla letteratura italiana: ”Ahi servo Italia di dolore ostello” (Dante) – “Vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” (Manzoni). A diciotto anni cominciò a scrivere sul giornale locale. Si prese una tremenda papagna da suo padre, perché il giornale era il suo e così, tutto scarabocchiato, non riusciva a leggere una mazza. A diciannove anni arrivò la pubertà e il giovane Emilio cominciò a correre appresso a tutte le gonnelle. I fattorini dei negozi di abbigliamento si stufarono presto di avere quel deficiente sempre tra i piedi e lo riempirono di callose papagne. Allora lui smise di importunare gli onesti lavoratori, anche perché un suo compagno di scuola gli spiegò che sì, andava bene correre dietro alle gonnelle, ma dentro ci doveva essere qualche ragazza, sennò non aveva senso. Emilio capì al volo ma fu sfigato: era sopraggiunta la moda delle donne in pantaloni! Ripiegò sull’impegno civile.
Fu il promotore di una memorabile marcia, e l’unico a sfilare, in favore delle servitù militari in Sicilia. Venne inseguito e malmenato da un gruppo di separatisti. Rientrato malconcio a casa, si rinchiuse in bagno e, guardandosi allo specchio, ebbe un’altra folgorazione: i capelli corvini e gli occhi neri (e pesti), contrastavano col naso gonfio e rosso come un peperone… Rouge et noir! Divenne schiavo del gioco.
Giocava per ore col suo pistolino (una volta fu persino sorpreso e cacciato dalla processione del Corpus Domini). Giocava coi bottoni, colle monetine e coi giornaletti: perdeva sempre. Ma non se la prendeva, gli dava più fastidio essere deriso dai suoi compagni di giochi, tutti intorno ai sette anni, che lo mortificavano anche con sonore papagne. Odiò le loro manine, così piccole ma già così pesanti. Una volta provò a reagire, in fondo aveva vent’anni ed era grande e grosso, ma finì all’ospedale col naso rotto. Il suo avversario era un diavoletto, agile e spietato, di quasi nove anni! Cercò di barare anche alla riffa parrocchiale, per una pesca di beneficenza, ma il parroco lo cuccò subito e gli mollò una papagna imperiale: lo fermarono i carabinieri, due giorni dopo, che vagabondava nei pressi di Enna; vaneggiava, tutto spettinato, e diceva di chiamarsi Isaia e di avere delle profezie da rivelare. Fu affidato ad una pia donna, psicologa e suora laica, che si prese cura di lui per più di tre mesi. Ma non ce la fece: si beccò un forte esaurimento nervoso e diventò una spietata serial killer! Sparò anche in testa a Emilio, con una 44 Magnum. La pallottola gli trapassò il cranio senza ledere organi vitali. Ancora oggi, i medici mostrano perplessi il poster della radiografia (ingrandita dieci volte) del cervello di Emilio: il poster è un normale 70x 100 e quella che sembra una cacatina di mosca non è altro che la “massa cerebrale”. Capirono perché il paziente non avesse mai sofferto di cefalea e tantomeno di cerebropatìa. Il giovane Emilio si rimise presto, ma il demone del gioco d’azzardo e del rischio lo perseguitava: si iscrisse al PSDI (acronimo di : Prendi i Soldi Degli Italiani. Già in quegli anni si scommetteva forte su quale sarebbe stato il successivo leader del partito a venire ammanettato). Partecipò a ben tre assemblee regionali del partito, ma l’ultima gli fu fatale. Se ne uscì con qualche sproposito dei suoi e tutti e sette i delegati lo presero a papagne e lo cacciarono dalla seicento multipla, dove si tenevano i congressi. In Sicilia non lo capivano. Decise di emigrare e, salutati i suoi (che gli risposero da oltre le porte chiuse delle loro stanze), senza perdere tempo a salutare gli amici, (quali?) prese un treno per Milano. Naturalmente, sbagliò convoglio e approdò a Roma. Durante il viaggio conobbe una ragazza, figlia di un pezzo grosso della Rai Tv, alla quale disse di essere un ricchissimo premio Nobel. Il bluff gli era entrato nel sangue. Appena a Termini, molto servizievole, portò le valige della ragazza per sette chilometri, fino a casa di lei. La ragazza non fu insensibile al suo fascino e gli diede mille lire di mancia. Qualche sera dopo, premiato dai numerosi appostamenti, la rivide di nuovo e la invitò in pizzeria. Non aveva una lira. Lei accettò e, una volta nel locale, Emilio si accordò di nascosto col padrone e si trattenne per sei ore a lavare piatti.

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Per liquidare la ragazza, le aveva detto che aspettava il Santo Padre, da un momento all’altro, e si sarebbe trattenuto in pizzeria. Il Papa aveva bisogno di un consiglio e l’avrebbe raggiunto in incognito. Lei si bevve la storiella e, trasognata, rientrò da sola. Prima di salutarla, però, lui era riuscito a sfilarle l’agendina coi numeri di telefono dalla borsetta. Dal giorno dopo, prese a telefonare a tutti i potenti di Roma millantando e spacciandosi ora per questo ora per quell’altro genio del giornalismo. Divenne presto un incubo e, siccome aveva il vezzo di chiudere sempre le telefonate con “servo vostro”, quelli (data la pronuncia incerta) capirono Paternostro e , pur di levarselo dai coglioni, gli fecero fare una brillante carriera. A Sandro Paternostro, naturalmente. Il suo momento non era ancora arrivato. Ripetè l’invito alla ragazza e ripetè anche il trucchetto col padrone della pizzeria. Con lei era vero amore. Amore puro e casto. Ma, siccome anche la carne aveva le sue esigenze, conobbe una camerierina piuttosto allegrotta e le fece la corte. Questa cameriera “corte” non ne voleva: preferiva le lunghe aste dei lavapiatti tunisini, e quindi, una volta al dunque, lo mandò a cagare. Emilio non ne poteva più: “La carne è debole – pensò – ma il pesce è forte e vigoroso e tira. Minchia quanto tira!” Decise di andare in un sordido bordello, dalle parti della stazione Termini. Non aveva una lira. Scopò, tanto per dire, si liberò insomma… e, scopertolo al verde, i pappa lo riempirono di papagne e lo misero a lavare piattole (questa pare che non sia vera. N.d.A.).
Finalmente, la sua ragazza lo portò a casa e lo presentò ai suoi genitori. Al cospetto del pezzo grossissimo della RAI, Emilio si mise a piangere di commozione, accese candeline, maledì i comunisti, lumacò le mani e le scarpe del padrone di casa… cercò anche di baciargli il culo, ma quello si era prontamente seduto a tavola. Emilio leccò la sedia e brigò per servire “assolutamente” la cena, ma gli furono preferiti due capistruttura del Primo Canale. I padroni di casa erano abituati a questi comportamenti da parte dei sottoposti: Emilio non aveva inventato un cazzo. Gli venne concesso di riempire di Eukanuba la ciottola del cane. Il feroce maremmano lo guardò male e gli ringhiò contro: l’istinto dei cani è infallibile, l’animale aveva già capito che quell’essere gli avrebbe fatto una concorrenza spietata. Ma anche la tecnica di Emilio si rivelò infallibile. In occasione del secondo invito gli fu concessa la mano della ragazza e, al terzo incontro, il suocero gli concesse un bel contratto di giornalista RAI.
Emilio era al settimo cielo (in quanto a “concessioni” il suo futuro padrone di Arcore gli faceva un baffo). La sua vita aveva un senso. Tutte le mattine andava in via Teulada, timbrava il cartellino, sorrideva a tutti compresa la macchinetta del caffè (non si sa mai: il futuro sarebbe stato comandato dai robot?). Di lavoro neanche a parlarne. Gli unici servizi in cui eccelleva erano sempre quelli che faceva con la lingua, ai suoi superiori. E siccome tutti erano suoi superiori, aveva la lingua a smeriglio. Ogni mese gli arrivava il congruo stipendio in un grazioso pacchetto regalo, con tanto di carta colorata e fiocchetto. E lui continuava a giocare. Cercò anche di giocare con una collega, ma si accorse di aver giocato col fuoco: la fanciulla era passatempo personale del vice direttore…
Scoperto, si beccò una papagna tale che lo ritrovarono in Africa. Lui, naturalmente, millantava di essere un inviato speciale in gara per il Pulitzer.
Insegnò il poker ai negretti e passava le sue pigre giornate così. Bluffava come una serpe, ma i negretti vincevano sempre. Gli portarono via anche l’ultima sahariana. Lui giocava soldi e gli indigeni vetrini colorati: non ne vinse mai uno! Non ci poteva stare. Chiedeva sempre più soldi all’Azienda, inventandosi improbabili servizi che non spedì mai e nessuno vide mai: servizi segreti? Spendeva quasi quanto Mariagiovanna Maglie, la craxiana formato scaldabagno, e venne soprannominato “Sciupone l’Africano”. Ma il suocero ci metteva sempre una pezza e qualche centinaia di milioni. Sempre dell’azienda. Emilio venne chiamato anche
“genero alimentato”. Continuava a giocare a poker, e a perdere, coi negretti. Un giorno, non ne potè più e, barando, cominciò a strillare: ”Questa mano è mia! Questa mano è mia!”
Uscì da una capanna il padre di uno dei negretti, un signore distinto grande come il palazzo di giustizia di Roma, e gli disse: ”E questa mano invece è mia.” Gli mollò una papagna tale, che ancora oggi continuano a raccogliere le noci di cocco cadute per lo spostamento d’aria. Ci fu anche un incidente diplomatico. In un paese civile Emilio sarebbe marcito in carcere, in Italia venne promosso Direttore del TGUNO. Tutte le sere, leggeva le veline dei suoi padroni e sorrideva di sghimbescio dal video. Cominciò a ricevere valanghe di lettere di ammiratrici. Queste povere donne spedivano delle circolari: a Mike, a Gino Latilla, a qualche divo dei fotoromanzi, a Perry Mason, e a Emilio Fede. Speravano di sposarne qualcuno e sistemarsi. Emilio sbandierava quelle lettere, ne staccava i francobolli col vapore e li riciclava. Ormai era diventato popolare. Basta papagne, si illuse. Conobbe il lìder (lader) maximo, Bettino, e si innamorò di lui. Anche perchè suo suocero era stato messo da parte e lui era da solo. Un giorno, lucidati gli stivali a Craxi, gli si parò davanti e con grande sprezzo del pericolo si mangiò la tessera del PSDI. Poi quella della DC, quella del PLI, e persino la tessera di Socio ACI.
“D’ora in poi – giurò – avrò un’unica tessera ed un’unica fede: PSI di Bettino Craxi! Per te, mio idolo…- non finì la frase ché fu costretto a scappare in bagno. Cagò le tessere esattamente come le aveva ingoiate: che non ci fosse bisogno di trasformarle? L’intestino era cieco, ma mica scemo!
Protetto dal cinghialone si illuse che tutto fosse lecito. Cominciò ad adescare dei polli per memorabili e suicide (per loro) partite di poker. Lui e i suoi soci mandarono in rovina tonnellate di padri di famiglia, piccoli e medi imprenditori, che sbavavano per sedere allo stesso tavolo da gioco del divo del TG. Una mano tirava l’altra, troppe mani attirarono le manette. Bettino lo salvò, ma il pubblico non lo perdonò. E nemmeno il servizio pubblico. Fu cacciato in tronco dalla RAI. Bettino lo piazzò a fare un similnotiziario, in mezzo ai piazzisti di una televisione privata: Rete A, e la gente non capì mai chi tra tutti quelli imbonitori sparasse più cazzate. Tornarono le papagne: molti clienti truffati, da questo o quel mobiliere o da qualche venditore di zirconi, lo confondeva con gli altri e, ogni volta che usciva, erano mazzate. E continuava a giocare. A oggi, coi soldi che ha vinto si è comprato un cappello da cowboy. Con tutto quello che ha perso, si sarebbe potuto comprare il Texas.
Poi arrivarono Berlusca e le sue concessioni e Bettino dirottò Emilio a Milano due.Gli diedero un ufficio di fronte al bagno e lui esclamò: ”Casa, dolce casa!”
Aveva trovato la sua sistemazione ideale. Ebbe un suo TG (si fa per dire), una sua redazione: tutta gente libera e coraggiosa come lui, autentici kamikaze dell’informazione. La gente si chiedeva sgomenta: ”Ma kamicazze fanno questi a spacciarsi per giornalisti?” Ebbe un suo stipendio grasso e non uno, ma ben DUE padroni! Gli italiani guardavano mestamente il TG4 e si irritavano: ”Ma, visto che vogliono miracolarlo sempre, perché non gli dànno un giornale da dirigere? Pulirsi il culo con un telegiornale è impossibile!”
Ma lui proseguiva per la sua strada.
Non gli è mai scappata una notizia corretta. Non gli è mai scappato un commento obiettivo. Gli è scappato, invece, uno dei suoi padroni ad Hammamet. “Craxi? Mai coperto! Il mio idolo è Silvio! Io amo Silvio Berlusconi.” Anche Berlusconi ama lui. Emilio manda sempre un operatore col grandangolo a riprendere i comizi che Silvio tiene alle comparse della Fininvest: così anche quattro gatti sembrano una folla. Sceglie personalmente quelli della claque che hanno le mani più grandi e gli “evviva” più potenti. Dividono insieme il video, il cerone, la tintura per pennellarsi i capelli, e le risate fragorose degli italiani che sanno leggere e scrivere. Da quando Berlusconi è stato cacciato dalla poltrona di Presidente del Consiglio, ogni volta
(prima dei pasti) che mio nipote intervista il padrone ed è costretto a pronunciare “ex presidente” gli viene una ruga. Una crisi di Governo l’ha invecchiato di vent’anni! Una volta, Emilio è persino riuscito ad andare a cena in un famoso ristorante milanese, col suo adorato padrone (lui, si sa, è pieno di cuochi comunisti che guardano Santoro e non esce mai da Arcore o da via dell’Anima). Arrivati al ristorante, vestiti uguali, truccati uguali, sorridenti uguali, tronfi uguali, gli si è fatto incontro il maitre. Emilio gli ha fatto un bel sorriso sghembo e gli ha chiesto:”C’è un posto per noi due?”
Nel senso: ma hai visto chi siamo? Ed il maitre, impeccabile:
“Mi spiace, ma il personale è al completo.”

Ho raccontato solo la verità, senza nascondere nulla, perché anche a me è
sempre stato sul cazzo.

Firmato
zia Enzuccia.

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