Buon compleanno Muhammad Ali, uno dei pochi grandi VERI rimasti.

Buon compleanno Ali
Il Mito fa settanta anni

Nasceva il 17 gennaio del 1942 uno dei più straordinari personaggi della storia della boxe e dello sport. Una vita eccezionale anche fuori dal ring, dalle battaglie per i diritti civili alla dignità nel mostrare al mondo la malattia LE FOTO 1

di LUIGI PANELLA

Buon compleanno Ali Il Mito fa settanta anni (ap)

Probabilmente Muhammad Ali non è stato il più forte pugile di tutti i tempi: molti ‘datati’ navigatori dei ring indicano Joe Louis o, scendendo dai massimi ai medi, Ray Sugar Robinson complessivamente superiori. Questione di opinioni… Su un dato però non c’è storia: sicuramente Muhammad Ali è stato il più grande pugile, forse il più grande sportivo di tutti i tempi. Dal 17 gennaio del 1942, settanta anni da mito, sul ring ma anche e soprattutto fuori. Mai una parola figlia illegittima della banalità. Non una bocca la sua, ma una mitragliatrice: raffiche di pallottole verso il bersaglio del perbenismo di una certa America, conservatrice ed incapace di accettare che il campione del mondo dei pesi massimi rifiutasse di ‘onorare’ la patria nella follia del Vietnam. ”Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro…”. Non una frase buttata al vento, ma una precisa scelta di coscienza che gli costò il ritiro della licenza e la perdita del titolo negli anni sessanta.

Senza coraggio il ring neanche si sfiora. ”I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”. Ali quella visione l’ha saputa portare fuori dal ring, ha rinnegato un paese che non sentiva suo per riaffermare il principio indissolubile della pace. Settanta anni di Ali, lo sportivo super del secolo scorso, con una incursione tenera, ormai stanco e malato, in quello attuale. Un frullatore di frammenti che hanno accompagnato ognuno di noi, appassionati di sport e non. Per chi ama il pugilato, Ali è stato anche il percorso dal letto alla stanza dove era posizionata la televisione: rito collettivo nel cuore della notte per assistere ai suoi match, per ovvie ragioni di fuso ad orari improponibili per l’Italia.

Ma anche coloro  ai quali del pugilato non frega assolutamente nulla, hanno saputo e sanno di Ali. Chi lo venerava, e chi non vedeva l’ora che qualcuno gli desse una lezione per quel suo modo linguacciuto di indispettire gli avversari. Show man sul ring e nella vita, perseverante ed ossessivo quando si trattava di raggiungere i propri obbiettivi. ”I want Holmes, I want Holmes”. Sapeva di non potercela fare, ma quante volte lo ha ripetuto prima di tentare, ormai trentottenne, l’ultima impresa impossibile, quando con le prime avvisaglie del morbo di Parkinson si illuse di spodestare dal trono il più giovane e forte rivale, quel Larry Holmes che in una straordinaria manifestazione di rispetto e paradossale affetto gli risparmiò una punizione pesantissima prima dell’inevitabile conclusione al decimo round.

Show man anche nel capolavoro della sua carriera, nel 1974. Tutto lo Zaire, allora si chiamava così, ai suoi piedi. George Foreman, un gigante texano di potenza disumana, ma soggiogato dalla personalità del rivale: campione ridimensionato a sfidante, nero trasformato in amico dei bianchi, indesiderato inquilino dell’Africa Nera. Foreman arrivò a Kinshasa come un pugile che voleva conservare il proprio titolo, Ali come il liberatore di un intero continente. E tutti lo accolsero da re, la sua macchina solcava le strade polverose, e tra le nuvole i volti dei piccoli neri lanciavano il loro grido di implorazione. ”Ali boma ye”, ”Ali uccidilo”. ”George faceva male, ogni suo colpo qualche danno lo provocava sempre, ti spaccava un muscolo, ti incrinava qualche osso”. Ma lui seppe sopportare stoicamente, per otto round, poi zittì i detrattori, tornando a pungere come un ape e danzare come una farfalla, e per Foreman non ci fu scampo.

Dovendo però scegliere però l’immagine dei settanta anni, individuiamo quella in cui lo show man già non c’era più. Il maledetto Parkinson ne aveva già spento i movimenti, ma non lo sguardo ad Atlanta nel 1996. Ultimo tedoforo, delegato ad accendere la torcia olimpica. No, niente show quella volta, ma probabilmente il round più bello di una meravigliosa carriera che si chiama vita: il coraggio di mostrarsi malato, un commovente tremolio, la sua fragilità di un uomo di fronte a quel mondo che aveva avuto in pugno. Da Atlanta ad ora sono passati altri sedici anni, il male non fa sconti. Lo dimostra l’ultima apparizione in pubblico, poco tempo fa, nell’ultimo saluto al più acerrimo rivale Joe Frazier, l’uomo che Alì in una leggendaria trilogia di sfide ha sofferto più di tutti. ‘The Greates’ e ‘Smokin Joe’, quanto si stavano vicendevolmente sulle scatole. Eppure dopo la battaglia di Manila, probabilmente nel match più duro di tutti i tempi, Ali commentò la vittoria con fair play, riconoscendo che se l’avversario non avesse abbandonato alla fine del quattordicesimo round, forse lui stesso non si sarebbe ripresentato sul ring. Ali e Frazier, fisici d’acciaio erosi dal tempo, anime indistruttibili.

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