Governo, resa finale

Governo resa finale

di Marco Damilano (l’Espresso)

b+capello

Il centrodestra è a pezzi. E il Cavaliere teme nuove accuse di mafia. Così i falchi premono per le elezioni anticipate. Ma il Quirinale potrebbe fermarli e tentare

l’alternativa Fini

Non dobbiamo lasciare nemmeno il minimo sospetto che nel Pdl manchi la volontà di accertare la verità sulle stragi. Non si può liquidare tutto dicendo che i magistrati riaprono istruttorie vecchie di quattordici anni. Se ci sono fatti nuovi, santo cielo, si devono riaprire! Soprattutto se non si ha nulla da temere, come è per Forza Italia e certamente per Berlusconi…

Quando avvicinò quelle due parole fino a quel momento inaccostabili, nella sala del Park Hotel dei Cappuccini di Gubbio tra i notabili del Pdl piombò il silenzio. E il nome Berlusconi affiancato al termine stragi, sembrò fare l’impercettibile rumore della piuma di Maat quando cade sulla bilancia che per gli antichi egizi rappresentava il peso delle anime. La differenza tra la vita e la morte.

È stato in quell’istante, raccontano ora i berlusconiani e i finiani, ormai d’accordo forse solo su questo punto, che tutto si è rotto: il Pdl, la maggioranza, il governo, il rapporto personale tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Quando il 10 settembre al seminario del Pdl, di fronte allo stato maggiore del suo partito, il presidente della Camera ha inserito nella stessa frase il Cavaliere e il crimine più orribile, sia pure per negare ogni possibilità di sospetto sul premier, il giocattolo si è sfasciato. Inutile provare a rimetterlo insieme, come si è visto nei due mesi successivi. Prima, la crisi istituzionale sfiorata dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta, con Berlusconi scatenato contro l’Alta Corte e contro il presidente della Repubblica e Fini in difesa dell’operato dei giudici e di Giorgio Napolitano.

Poi, lo scontro sulla giustizia, il violento faccia a faccia sul nuovo pacchetto di leggi salva-premier della scorsa settimana.

Infine, l’intervento del presidente del Senato Renato Schifani di martedì 17 novembre: “Se la compattezza della maggioranza viene meno, bisogna tornare al giudice ultimo che non può che essere, attraverso nuove elezioni, il corpo elettorale”. Un’esplicita minaccia di sciogliere le Camere recapitata dalla seconda carica dello Stato. Appena rettificata, ventiquattr’ore dopo, dalla nota di Berlusconi che smentiva di aver mai pensato alle urne. Lo stesso Schifani che a Gubbio aveva liquidato le frasi di Fini sulle inchieste giudiziarie come “percorsi contorti e nebulosi, teoremi, fantasmi di un passato lontano, congiure”.

Con l’ingresso nell’agone politico del presidente del Senato, l’impazzimento della maggioranza di centrodestra è completato. Un cupio dissolvi, insondabile perfino per le più consumate volpi di Palazzo. Già: difficile da comprendere perché una coalizione che gode di una maggioranza schiacciante in Parlamento, con un Pd alla faticosa ricerca di una nuova ragione sociale, stia imboccando la via dell’autodistruzione. Eppure lo sfarinamento è in pieno svolgimento, inarrestabile. Basta solo mettere insieme gli elementi degli ultimi giorni. Il tempestoso Consiglio dei ministri della settimana scorsa, per esempio, raccontato nei suoi dettagli più crudi dal ‘Corriere della Sera’, con due ministri del calibro di Renato Brunetta e Giulio Tremonti che arrivano a prendersi a male parole davanti ai colleghi. E quando il ministro della Funzione pubblica si alza dal suo posto e tende la mano in segno di pace, dalle parole si passa alla rissa. “Se ti avvicini ti prendo a calci in culo”, sibila il titolare dell’Economia, non esattamente in stile Aspen. Mentre i due primi della classe, i piccoli geni, si tirano addosso pallette di fango, il capo si disinteressa. Non parla più con nessuno. Dorme.

In sua assenza tutti parlano al posto suo. A suo nome. Per conto di. Non solo Schifani. Anche il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, accusato di camorra e a rischio arresto, si presenta nel salotto di Bruno Vespa con un solo argomento difensivo: “Io e Berlusconi siamo una cosa sola. A lui devo tutto, se me lo chiede lui faccio un passo indietro”.

Nelle stesse ore una buona parte del Pdl campano, quello capeggiato dal finiano Italo Bocchino, fa sapere di valutare seriamente la possibilità di votare la mozione dell’Italia dei Valori che chiede la rimozione di Cosentino dalla poltrona sottoministeriale. “Un atto che da solo vale la crisi di governo”, reagisce il super-berlusconiano Mario Valducci, uno dei più decisi a chiedere al premier di spazzare via i ribelli del Pdl. Mentre Denis Verdini, uno dei triumviri che guida il partito, a quanto pare esistono ancora, minaccia l’espulsione di un altro deputato vicino a Fini, Fabio Granata, anche lui favorevole alle dimissioni del sottosegretario sotto inchiesta: “Non siamo una caserma, ma neppure un bordello”. Parole infelici, date le utilizzazioni finali dell’ultimo anno dalle parti di palazzo Grazioli, ma questo è il clima.

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