L’ITALIETTA NEO NAZISTA E’ CONSIDERATA OVUNQUE – GIUSTAMENTE – QUARTO MONDO.

Exit strategy. Come uscire dalla spirale del dibattito tra contrapposte idiozie nell’Italia del monopopulismo perfetto

Francesco Cundari

L’egemonia populista nel discorso pubblico si mostra anzitutto in questo: che si discute solo di scemenze. Forse allora, invece di concentrarci sulla fesseria del giorno o della settimana, è più utile provare a domandarsi perché questo accada, e perché in Italia il fenomeno abbia assunto tali proporzioni.

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Come avrete notato se avete sfogliato un giornale nelle ultime due settimane – o nelle ultime due legislature – l’egemonia populista nel discorso pubblico si mostra anzitutto in questo: che si discute solo di scemenze. Forse allora, invece di concentrarci sulla scemenza del giorno o della settimana, invece di spendere tempo ed energie nello spiegare perché l’ultima scelta di politica economica è economicamente assurda, l’ultima proposta di tutela della salute o dell’ambiente è scientificamente insensata, l’ultima polemica storiografica è storicamente infondata, è più utile provare a domandarsi perché questo accada, e perché in Italia tale fenomeno, pur comune a molte democrazie occidentali, sembri avere una pervasività maggiore che in ogni altra parte del mondo (o quasi), e cosa si potrebbe fare per arginarlo.

La prima ragione dell’egemonia populista, o per meglio dire la sua prima manifestazione, è che tutti gli schieramenti adottano argomenti demagogici e irrazionali – in una parola: populisti – trasformando così il dibattito pubblico in una gara a chi la spara più grossa. Uno scontro surreale tra quelli che vogliono abolire la povertà per decreto e quelli che vogliono abolire le tasse per legge, tutti uniti nel voler abolire i tassi d’interesse per finta. La seconda ragione è che, sfortunatamente, anche quei pochi intenzionati a discutere seriamente di problemi reali sono costretti a occuparsi di questa roba. Lavoro peraltro pressoché inutile, eppure al tempo stesso indispensabile e meritorio, perché, com’è noto, per smontare una bufala serve molto più tempo di quello che serve per inventarla e diffonderla.

Per buttare là che il Covid è poco più di un raffreddore, volendo fare un esempio a caso, basta infatti un minuto (e ci si guadagnano fior di ospitate in tv e almeno una rubrica fissa su un quotidiano nazionale); mentre per dimostrare inconfutabilmente il contrario occorrono studi approfonditi di medicina (e in premio si ricevono tonnellate di insulti e sberleffi dalle trasmissioni e dai quotidiani della parentesi precedente).

Per inventare o rilanciare cospirazioni della Nato contro la Russia, tanto per fare un altro esempio a caso, ci vogliono dieci secondi, mentre per andarsi a ritrovare tutte le fonti citate e dimostrare come siano state manipolate ad arte occorre almeno una giornata di lavoro. Col bel risultato che alla fine di quella giornata, in ogni caso, l’intero dibattito avrà ruotato sempre e solo attorno a un cumulo di fesserie, per confermarle o per smentirle.

Se questi sono però problemi che caratterizzano tutte le democrazie occidentali alle prese con l’ondata populista, resta da capire perché in Italia il fenomeno abbia assunto una tale pervasività, tanto da eccedere il concetto stesso di «bipopulismo». Abusando dello stesso gioco di parole, bisognerebbe parlare ormai di monopopulismo perfetto.

Alla radice c’è senza dubbio un’antica tradizione nazionale che è stata chiamata populismo dall’alto, sovversivismo delle classi dirigenti, antipolitica delle élite (o più sbrigativamente, ma senza andar troppo lontano dal vero, fascismo). A questo proposito, del resto, non si ricorderà mai abbastanza come la campagna contro «la casta», primo seme da cui è germogliato il grillismo, sia nata sulle pagine del Corriere della sera, mica del Fatto quotidiano (semmai si potrebbe dire che il Fatto quotidiano è nato, poco dopo, dal successo di una simile campagna, che in qualche modo gli ha aperto la strada e offerto un modello). E risalendo ancora più indietro nel tempo si potrebbe ricordare come sulle pagine del Corriere della sera, del resto, sia nata anche la più violenta campagna antigiolittiana.

Se però oggi non si sa più dove girarsi e con chi interloquire, anche solo per dissentire, in un dibattito che rispetti minimi standard di aderenza alla verità dei fatti e al principio di non contraddizione, lo si deve anche a una certa tecnica, per non dire un malvezzo, di cui quegli stessi grandi giornali che avrebbero dovuto rappresentare l’élite liberale hanno spesso abusato. Mi riferisco al vecchio trucco di scegliere ogni volta il più fesso, il più grottesco, il più improbabile tra i rappresentanti del campo avverso, per intervistarlo, invitarlo e intronarlo come la massima autorità di quello stesso campo, in modo da inchiodare sistematicamente i propri avversari (e l’intero dibattito) alle sue idiozie.

Si è così nel tempo affermato un meccanismo di selezione perversa, alimentato a sua volta dal bipolarismo di coalizione, che ha regalato un potere marginale spropositato a micropartiti (di centro o di estrema) e ai loro pittoreschi padri-padroncini.

Oltre a un sistema elettorale proporzionale, che però nessuno vuole (perché i grandi partiti ogni volta s’illudono di trarre vantaggio dal meccanismo maggioritario, mentre i piccoli ne hanno la certezza), un parziale rimedio potrebbe essere dunque un cambiamento, per dir così, nel costume del giornalismo e del mondo della comunicazione in generale. Specialmente nel confronto con gli avversari e con le scelte che non si condividono, smetterla di scegliersi sempre l’interlocutore più scemo e più pittoresco (per la tv c’è anche una ragione legata agli indici di ascolto, per i giornali è spesso semplicemente un modo di farsela facile) e provare a fare come fanno i giocatori di scacchi, quando elaborano le loro combinazioni dando per scontato che l’avversario faccia sempre la mossa più intelligente, anziché la più fessa.

Per le sorti della democrazia potrebbe essere comunque troppo tardi, ma almeno renderemmo l’agonia meno deprimente.

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