La destra non ha capito

Festival del giornalismo, il confronto tra Paìs e Repubblica
L’ultimo esempio, la censura degli ambasciatori ai giornali
“Tv, l’anomalia italiana
cittadini condizionati”

La “lectio” di Romano: “I blog non sono il futuro dell’informazione”
New media a confronto: “Il domani è nell’integrazione fra carta e web”
di LEONARDO MALA’

“Tv, l’anomalia italiana cittadini condizionati”

Javier Moreno
direttore di El Pais
PERUGIA – Finale intenso e affollato nella seconda giornata del Festival internazionale di giornalismo. A discutere sull’opinione pubblica italiana, sul suo effettivo peso, il direttore di El Pais Javier Moreno e di Repubblica Ezio Mauro. Un confronto a volte frustrante sulla disparità di condizioni democratiche fra le due penisole, sulla differente vigoria del dibattito politico interno.

Moreno non ha esitato a definire fondamentale la battaglia sostenuta dalla sinistra di Zapatero contro la Chiesa locale, schieratasi apertamente con le forze conservatrici e a quanto pare battuta inesorabilmente nell’opinione pubblica iberica, malgrado una ramificata e potente rete radiofonica. Moreno non ha esitato a definire “imbarazzante e unico nel suo genere” l’atteggiamento della diplomazia italiana che attraverso i suoi tre ambasciatori ha ufficialmente protestato contro El Pais, Washington Post e Guardian, colpevoli di aver pubblicato articoli critici nei confronti del governo Berlusconi.

Ezio Mauro ha esaminato la condizione critica della democrazia italiana, condizionata da un conflitto di interessi che viene reiteratamente banalizzato dal centrodestra e che aggrava le difficoltà della sinistra. Impossibile disgiungere la concentrazione di potere mediatico dalle cifre sull’elettorato di casa nostra: “Al 73 per cento i cittadini formano il proprio giudizio in base a quello che vedono in televisione. L’opposizione ha le sue colpe. Prima fra tutte la perdita d’identità, smarrita nel senso comune altrui. Siamo alla manipolazione della moderna agorà, una situazione che non ha eguali nel mondo. Non è inutile parlarne”.

Obiettivo reporter. Come in un film di James Bond nel mirino non c’è l’agente di Sua Maestà ma il cronista con la penna: 140 i giornalisti prigionieri, ottanta quelli uccisi, Paesi come Colombia, Birmania, Filippine dove scrivere il vero costa caro, carissimo. E poi c’è il dietro le quinte, i grossi inviati sbattuti tra le più remote lavanderie e i più angusti taxi (citando Stefano Benni), che pagano di tasca propria gli “sherpa” della notizia per scendere in strada a raccogliere informazioni e tanti non ne tornano.

Va in scena il giornalismo d’azione, quello che va al fronte cercando la guerra o che altrettanto pericolosamente resiste alla guerra in casa propria, come nel caso del colombiano Hollman Morris, produttore del settimanale televisivo Contravia, una delle finestre più indipendenti e coraggiose del giornalismo sudamericano. Nel suo Paese ci sono almeno 6000 connazionali impegnati a proteggere, armi in pugno, giornalisti, sindacalisti, politici inclini a denunciare le sopraffazioni del presidente Uribe.

Lo stesso Jean Francois Juillard, segretario generale di Reporters Sans Frontieres, denuncia i numerosi casi di cronisti costretti all’espatrio per le minacce ricevute, ridotti in miseria appena varcato il confine, complice una categoria professionale incapace di mobilitarsi per garantire almeno una testata online che ospiti i colleghi esuli.

Senza imbarazzi Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della sera, ammette i vantaggi dei giornalisti occidentali che, pur esponendosi in prima linea, hanno sempre la possibilità di prendere l’aereo all’indomani con un conto in banca più sostanzioso, rivendicando tuttavia la capacità di sintetizzare e leggere le mille immagini che piovono in rete dai piccoli display presenti nel mondo. E senza censure Maso Notarianni, direttore di Peace Reporter, ricorda il sacrificio dei mille cameraman, autisti, traduttori che perdono la vita sotto le bombe e che nessuno ricorda, un pegno dolorosissimo quando si indaga dal di dentro, sfruttando gli amici sul posto, gente che rischia la vita per il bene della verità senza nulla in cambio.

Sergio Romano e i blog. Meno enfatica la mattina, cominciata con la lectio magistralis di Sergio Romano sullo stato dell’informazione in Italia. La diagnosi di Romano, articolata in quattro punti, è partita ricostruendo la nascita tardiva del giornalismo nazionale in virtù del diffuso analfabetismo. Ritardi che si sono trascinati fino ai giorni nostri, quindi nella forte connotazione ideologica degli editori, nell’eccessiva ambizione letteraria dei giornalisti, con articoli pieni di incipit a effetto, metafore, note di colore e alto tasso d’imprecisione, infine nell’insistita rappresentazione di una politica frammentata, sintetizzata dall’intervista di Caio che insulta Tizio e viceversa.

L’aspetto più importante che ha coinvolto la platea è stata la netta presa di distanza dai blog, il più delle volte definiti faziosi, autoreferenziali, gratuitamente distruttivi nei confronti della politica. Al momento di specificare a quali blog alludesse (Beppe Grillo?) la risposta di Romano è stata però vaga, metaforica e tutto sommato imprecisa, perdendo forse l’occasione di individuare nel mancato antagonismo interno un eventuale limite dei blog, come se una buona verità possa scaturire solo dal contrasto di più forze contrapposte (redattore, direttore, editore), piuttosto che da un unico cervello, pur sottoposto al giudizio dei lettori. Il concetto di gruppo culturale, oggi inesistente ma da sempre motore di profonde innovazioni, comincia in realtà a farsi largo nel mondo dei blog, una salutare germinazione che sta producendo dei “multiblog”, ovvero redazioni giornalistiche a tutti gli effetti.

Le newsroom. Altro argomento all’ordine del giorno, le nuove forme di informazione che rendono obbligatoria un’integrazione. I giornali devono riorganizzarsi, rilanciare sulle varie piattaforme (carta, web, telefonini, tv) i contenuti. Ne hanno parlato Charlie Beckett (Polis, Londra), Paolo Liguori (TgCom), Marco Pratellesi (Corriere.it), Giuseppe Smorto (Repubblica.it), Erik Ulken (Los Angeles Times), Raffaella Soleri (Rai News 24). Ci sono resistenze culturali all’interno dei giornali, ma anche una certezza: l’unione fa la forza, un prodotto competitivo potrà nasce solo dall’integrazione delle forze.

Cambia e cambierà anche la formazione del giornalista. Non più l’attenzione esclusiva al testo scritto, ma alla capacità di offrire al lettore un prodotto multimediale: un articolo, un video, un audio, un testo illustrativo e naturalmente la possibilità di commentarlo. Tutti i grandi giornali del mondo stanno andando verso questa direzione.

°°° Secondo l’ennesima scimmietta di Mafiolo, sergio romano, noi bloggers non siamo il “futuro dell’informazione”. Sono d’accordo. Sono d’accordo sul fatto che questi dementi NON hanno ancora capito un cazzo. Per noi va bene così. Noi, non solo siamo il futuro, caro il mio pappagallino, ma siamo anche IL PRESENTE dell’informazione corretta in questo regimetto delle banane! Arrendetevi!

moreno

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