La pioggia non c’entra: l’Italia affonda per incuria e abusivismo

La pioggia non c’entra: l’Italia affonda per incuria

di Marco Bucciantini

maltempo brugnato box

La pioggia bagna, non uccide. Allaga, ma non travolge. Si muore d’altro, in questi giorni d’autunno, in questi piccoli paesi di fondovalle sul fiume Vara, in questi borghi sulle Cinque Terre che sappiamo apprezzare con il sole, Vernazza, Monterosso, ma che non sappiamo difendere dal maltempo. Questa gente muore d’incuria, di assenza di governo del territorio. Ammazzati dallo sprezzo della natura, dall’illegalità diffusa e accettata dell’abusivismo edilizio. Dalla mano che asseta le radici di queste terre, rendendoli impermeabili alle piogge. Dall’incompetenza di chi non sa curare un fiume, e lo violenta. Uccisi – soprattutto – dalla mancanza di volontà di chi non trova mai i soldi per rimediare al dissesto idrogeologico. Per arrivare subito al dunque: «Nella legge di stabilità (il bilancio dello Stato per il 2012) che stiamo discutendo al Senato i soldi per tutte le politiche di risanamento ambientale sono stati dimezzati. Da circa 300 milioni a 150 milioni», denuncia Roberto Della Seta, del Pd. Il ministro all’Ambiente Stefania Prestigiacomo reitera ogni consiglio dei ministri le sue sofferenze per

questa taccagneria. Inascoltata. Spesso si arrabbia, ma poi accetta, per ragion di Stato. Di quei 150 milioni solo una parte (30-40 milioni) è destinata alla messa in sicurezza del territorio. «L’ultimo grande studio sul nostro sistema idrogeologico – ancora Della Seta, da sempre interessato a questi tempi e per anni dirigente di Legambiente – stimò in 40 miliardi il costo per una protezione totale, definitiva dell’Italia». Il governo mette a disposizione un millesimo di quella cifra.

Questo è un Paese laureato in prognostica: del macabro repertorio di tragedie, frane, alluvioni si conosceva anche l’indirizzo. Geologi e ambientalisti hanno studiato il territorio e pubblicato una mappa che dovrebbe essere una guida per la politica. Nel rapporto 2010 del centro studi del consiglio nazionale dei geologi ci sono scritti i nomi dei comuni a rischio, c’è un dato enorme: 6 milioni di italiani vivono in zone pericolose. Sono 29.500 i chilometri quadrati d’Italia a elevato rischio idrogeologico (il 10% di tutta la nazione). Qui sopra insistono un milione e 260 mila edifici, fra i quali 6 mila scuole: quale metafora migliore di un Paese che “prepara” i propri figli su un terreno alluvionabile?

Ovviamente quei 40 miliardi da spendere per dormire tranquilli sono un “prezzo” indicativo. Gli studi e soprattutto la storia elencano le priorità sulle quali investire. Giorgio Lampetti, coordinatore scientifico di Legambiente trova «insopportabile la ciclicità della tragedia e delle recriminazioni: è il terzo anno di fila che contiamo i morti nella zona colpita martedì». Nessuno – nemmeno queste inascoltate cassandre – nega l’eccezionalità di certi eventi: «È piovuto molto e in poche ore – dice ancora Lampetti – ma i danni sarebbero sempre molto più contenuti se queste aree non fossero urbanizzate. Il cielo è sempre lo stesso, il sottosuolo anche. La superficie no: qui deve lavorare la politica, con i piani urbainistici seri, senza deroghe, programmando le bonifiche, mediando con gli abitanti».

Ma servono i soldi e questo è un Paese povero. Così la prevenzione diventa un lusso, «ed è un ragionamento serio, che prima o poi dovremo affrontare», ha detto ieri Franco Gabrielli, capo della Protezione civile. Il governatore della Toscana Enrico Rossi accetta di mettersi in discussione, bloccando lo sviluppo urbanistico attorno al fiume Magra (che martedì ha esondato) e ammettendo che «parte delle responsabilità vanno anche a quanto non fatto nei decenni scorsi in campo urbanistico». Guardare avanti diventa difficile: «Il governo ha tagliato il 90% della spesa per l’ambiente», accusa Rossi, che poi si fa capire in numeri: «La Toscana ha impiegato 60 milioni nella prevenzione nel 2010. Quest’anno ne potevamo spendere solo 15 a causa dei vincoli del patto di stabilità». Il governo limita le possibilità di intervento delle Regioni, e invece di surrogare evita di fare la sua parte: l’accordo raggiunto con il ministro Prestigiacomo per dividersi l’onere dei 2 miliardi e mezzo d’interventi da fare è stato sabotato: i soldi del ministero non ci sono più.

Pochi soldi, dunque. Ma anche scarsa forza politica di soverchiare l’andazzo speculativo sul territorio. Perché davvero si potrebbero mirare le opere da fare, e spendere molto meno dei 40 miliardi. Le zone a rischio sono dettagliate e classificate con esattezza. Legambiente ha puntualmente presentato il rapporto regione per regione di quanto fatto e di quanto dimenticato. In Liguria – dati resi pubblici a Genova, venti giorni fa – gli ambientalisti lamentavano che il lavoro di messa in sicurezza delle zone a rischio era stato positivo per il 26% dei comuni, negativo per il 74%: fra gli inadempienti, anche le amministrazioni della provincia spezzina, la più “pericolosa”. Così i pochi soldi che ci sono vengono assorbiti nell’emergenza, l’indomani delle disgrazie: il costo del dissesto idrogeologico dal dopoguerra ad oggi è stato di 213 miliardi di euro. Cinque volte maggiore di quanto servirebbe per evitarlo. Questo, al netto dei morti.

Un geologo messinese, Carmelo Gioé, dopo una frana avvenuta nel 2007 dalle mezze montagne sopra il comune di Scaletta Zanclea, inventariò gli interventi da fare per evitare un nuovo smottamento: «Servono 10 milioni», disse. Non ci sono, risposero ad ogni livello politico. Due anni dopo – era ottobre, anche allora – piovve. Si staccò un pezzo di montagna che rotolò verso il mare, impastando un paese intero (Giampilieri) e 37 cittadini. Il costo per sanare il danno fu di oltre 30 milioni. Sull’onda emotiva, quei soldi furono trovati e la montagna riparata, a un costo triplo rispetto a quello che avrebbe evitato tutto, ma i morti, però, non tornarono in vita

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