Solo qualche scimmietta decerebrata mette in dubbio il capolavoro di Matteo Renzi

Con il Pil al top, alzi la mano il primo che si dovrà scusare con Renzi

 Prima l’occupazione che è in ripresa, soprattutto quella femminile su dati del 1977. Oggi il Pil con segnali al di sopra di ogni aspettativa. I gufi del malaugurio in servizio permanente dovrebbero chiedere scusa a Matteo Renzi e dargli atto che gli ottimi risultati conseguiti sono solo merito del suo governo (anche gli economisti più refrattari sono stati costretti ad ammettere che buona parte del merito dei risultati odierni del Pil sono del governo Renzi: meno o poca roba per Monti e Gentiloni).

Una volta per tutte cade l’idea balzana che Renzi era solo un ciarliero, dalle facili promesse, abbondanti e mai mantenute.

Si è innestata sulla stampa, nei talk, nelle dichiarazioni di rappresentanti delle istituzioni, editorialisti, sindacalisti, professori, titolati in eccesso, una campagna mirata a disegnare una Italia alla canna del gas, povera, nel baratro della miseria, senza possibilità alcuna di rilancio o di qualche miraggio salvifico. La colpa di questo stato di cose aveva un solo nome e cognome: Matteo Renzi. Era così cruenta e virile l’antipatia verso l’ex sindaco di Firenze che ha accecato ogni lieve barlume di discussione senza il prosciutto sugli occhi. Era così e basta.

 Il premier Renzi un “ganassa”, “venditore di fanfaluche” e prima l’Italia se ne liberava dal servizio permanente e meglio era per cittadini. La battaglia sistemica contro ogni provvedimento, dagli 80 euro al Jobs act, era mirato a smontare qualsiasi tesi possibile di rilancio del nostro paese, ormai alla deriva e senza possibilità di salvezza. Gli uccelli del malaugurio hanno funzionato senza sosta pur di colpire ogni leva di speranza. E chi cercava di contrastare le tesi speranzose era bollato come un renziano, un servo del giovane capo del governo. Questa miscela esplosiva, montata nel corso dei mesi e degli anni, è servita, una volta sganciata, a bombardare Palazzo Chigi in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre dove una massiccia guerriglia ha funzionato per arenare il paese in un vicolo cieco.

Prendiamo alcuni vessilli agitati tre per due per distruggere il mantra renziano. A partire dalla povertà in Italia.

La ripresa economica c’è ma dimentica giovani, salari e povertà. È il parere di molti. Come può crescere il Pil più del previsto (ricordate la gazzarra dei decimali 0,7 e 0,8%?), oltre l’1,4%, e consegnare un paese alla canna del gas? (4,5 milioni di poveri).

37% di disoccupazione giovanile. Oltre 6 milioni non vanno in vacanza, ma ai giardinetti (mai come quest’anno tanti italiani in vacanza e dati record di presenze con soddisfazione a mille denti degli albergatori: il turismo in Italia è una azienda destinata a crescere fino al 2030). Qualcuno ha capito che il merito di questo Pil frizzante è fatto da gente che spende, un +40%, in tre anni, per l’acquisto di auto?

La Cgil, contro gli slogan facili, chiede investimenti. Strade, case, ponti. Lo Stato ci mette i soldi. Non male. Fino a poco tempo fa ci spiegavano che era meglio togliere il carico fiscale sul costo del lavoro. Scegliete. Non siamo nel Bengodi Village. Tra un po’ volete la riapertura delle miniere di carbone, come Trump?

Lode al dubbio verso un sindacato (la Cgil in particolare) che ha fatto il diavolo a quattro contro il Jobs act, un provvedimento che crea lavoro, rivedibile, certo, ma, almeno, lo fa. Giusto per evitare di sparlare di faccende che non si conoscono: un po’ come Monti quando si felicita per il suo governo, in austerità, salvatore dell’Italia e dimentica gli esodati in quota Fornero, la sua Ministra del Lavoro.

Nelle matasse da sbrogliare molto non ci torna. Primo, se fosse vero che c’è così tanta depressione in giro, avrebbe ragione Che Guevara-Bersani, quello della mucca nel corridoio: perché i giovani non fanno un nuovo Sessantotto e scendono in piazza con lo slogan, che piace tanto all’ex segretario Pd, “tutto e subito”? Vogliamo il lavoro sicuro, a vita. In caso contrario non è.

Basti, qui, come risposta il lamento di quel ristoratore di Bologna (di rinforzo si legga l’intervista odierna su Corriere economia al papà di Calzedonia che spiega per filo e per segno che in Italia posti di lavoro ce ne sono) che, da mesi, non trova camerieri perché c’è da faticare il sabato e la domenica. E poi ci chiediamo perché in Italia c’è il record europeo dei giovani disoccupati che non cercano lavoro. Così abbiamo dato anche un assist ai giovani, dai 15 ai 34 anni, che sono convinti che per fare carriera occorra andare all’estero. Se bombardi, h24, un’Italia in miseria, non rimane che la fuga!

Secondo busillis sospeso. Siamo il primo paese al mondo con il maggior risparmio privato. Soldi nostri, nelle banche. Da spendere. Qualcuno agli sportelli i denari li porta. Terzo, siamo la nazione con più proprietari di prime case. Non disconosco i problemi. Ma gli aiuti alle famiglie, asilo nido, bonus cultura, reddito per i poveri, quattordicesima per le pensioni basse, mettiamoci gli 80 euro (oltre la metà per i consumi), tutta questa roba qui, cos’è? Mance, slogan spot o un paese che aiuta chi rimane indietro? Noi tra le granite e le granate preferiamo le prime.

Nella pedagogia dell’italiano medio siamo curiosi di sapere cosa vuole? Cosa pretende? Se conosce tutto quello che si fa. Ci pervade il dubbio che l’italiano medio viva nell’idea deprimente di un mondo che rotola verso il baratro e che un mago maghello qualsiasi, con promesse fallaci, sia in grado di far loro rivivere gli anni d’oro.

È un format utile che ha aiutato il consenso dei 5 Stelle, intrisi di ricette che non siamo proprio convinti che il loro elettore, o fan sfegatato, con due redditi, casa di proprietà, due o tre vacanze l’anno sarebbe pronto ad appoggiare: la decrescita felice, la condanna delle ricchezza, un mondo dove ci accontenta di poco. Una pratica luddista che il primo a ripugnarla è lo stesso Grillo perché un mondo che non gli appartiene e non proprio di una società avanzata. Pare di sentire le ricette del professor De Masi, quello che fa più lavoro chiedendo ai giovani di lavorare gratis (non a caso De Masi è del gruppo che elabora nuove idee in economia per i grillini). Suvvia.

I dati positivi dell’economia dovrebbero aiutare a capire che le ricette magiche non esistono. Servono leader che lavorano (e che sbagliano), tanto, e provano, rischiano di loro. E di contro i cittadini devono entrare nell’ordine di idee che qualsiasi programma serio non può essere attuato dall’oggi al domani, che per vedere i risultati serve tempo, che non si può denigrare un lavoro politico per sentito dire o perché il rullo della disinformazione viaggia solo in una direzione.

Lo diciamo, in conclusione, a due soggetti che hanno enormi responsabilità. La chiesa e il sindacato.

Stando alle teorie vaticane chi fa tagli pesanti all’occupazione non è un imprenditore ma uno speculatore. Divertimento? Sadismo, di questi neo tagliatori di teste? O che altro? Lavoro per tutti, ha detto il Santo Padre dentro i capannoni dell’Ilva di Cornigliano a fine maggio. Francesco la fa semplice. Un politico nostrano sarebbe accusato di essere spargitore sano di utopie proletarie. Siamo, sempliciotti noi, a fermarci, alla banale constatazione, che dove si taglia lo si fa perché si produce di meno. E se, si produce di più si assume. Vedi la Fiat in questi anni.

Come creare lavoro? Si cade in tentazione spargendo fumo. Il governatore Visco, mesi fa, ne ha detta una giusta: bisogna cercare consenso con programmi fondati sulla realtà. Il resto è propaganda alla ricerca di una decrescita felice che non c’è. Appunto la buona novella del sociologo De Masi: “Solo lavorando gratis i disoccupati possono mettere in crisi chi il lavoro già ce l’ha”. Svolgimento. Etica, lavoro, democrazia sono concetti sublimi, ma confezionati, giusti, per rimanere sui libri.

La pratica non si concede a sermoni. Prendiamo il vituperato Jobs act. Lo Stato ha fatto il suo dovere. E con successo stando ai dati sull’occupazione. È mancato il coraggio di qualche capo azienda che ha preferito fermarsi al richiamo degli incentivi fiscali. Nessuna novità. È un gioco figlio della poca propensione a innovare. Vuoi vedere che il consiglio del Papa si richiama ai comandamenti di “The Donald” che, per difendere, e creare, nuova occupazione, mette i dazi al punto giusto obbligando le imprese a rientrare dentro i confini di casa?

La rottamazione, da noi, ha toccato solo la politica. Il repulisti è finito sulla soglia salvando la ciccia. Rimasta intonsa. Dalle caste dell’informazione fino al sindacato, appunto. Che vive nella contraddizione più straordinaria del secolo: proprio quando i deboli, i senza diritti e i senza lavoro sono a cifre spaziali il sindacato è steso, e affaccendato, a difendere le rendite di posizione (anche le gonfie pensioni dei sindacalisti distaccati nella pubblica amministrazione). Coloro che un lavoro ce l’hanno. E i pensionati. Che non è poco. Ma poco poco rispetto alla vocazione originaria, trasformata, oggi, in lavoro di ufficio per pratiche fiscali e nella intransigenza di volere l’impossibile, come il lavoro sicuro per tutti.

Così i sindacati hanno rincorso la politica e sono diventati come i partiti. Basta vedere l’attivismo partigiano nel referendum sulla riforma costituzionale. O la mobilitazione con la raccolta di milioni di firme sulla vicenda dei voucher, dimenticando che è sempre meglio una soluzione in chiaro che il lavoro nero o i senza lavoro. Un tempo si sarebbe detto che il sindacato si è imborghesito, seduto. Ed è così se osserviamo in controluce quello che è e che fa il sindacato tedesco. Via la contrattazione nazionale, un Jobs act stra spinto e lavoratori dentro i consigli d’amministrazione e di gestione delle aziende, dove si decidono le strategie (perché una impresa italiana che tira c’è: si chiama manifatturiero).

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