Il governo del fare… CAZZATE

Protestano i sindacati: “Siamo furibondi, questo accade mentre si parla
di tolleranza e si fanno proclami sui risultati della lotta alla criminalità”
Scattano i tagli agli straordinari
la rabbia dei poliziotti romani

di ALBERTO CUSTODERO

IL MINISTERO dell’Interno ha tagliato 4000 ore di straordinari alla polizia romana, il 5% del monte ore della Questura della Capitale per un importo di circa 40 mila euro al mese. La notizia ha suscitato le proteste di tutti i sindacati di polizia. I poliziotti, prendendo a prestito la battuta del titolare del Viminale Roberto Maroni quando gli fu bocciata alla Camera la proposta di portare a sei mesi il soggiorno nei Cie (“sono furibondo”, tuonò allora), commentano il decurtamento della busta paga con un “anche noi siamo furibondi”.

I primi a protestare sono quelli politicamente più “vicini” al governo, l’Ugl polizia. “E’ vergognoso – dice Massimo Nisida, segretario provinciale di Roma – Allora si abbia anche il coraggio di tagliare i servizi di ordine pubblico”. “Questo – aggiunge Enzo Letizia, segretario nazionale dei Funzionari di polizia – è il primo effetto su Roma dei tagli nella Finanziaria per 16 milioni di euro al Dipartimento pubblica sicurezza. E tutto ciò mentre il Viminale parla di tolleranza zero e, sotto elezioni, fa proclami sui risultati della lotta alla criminalità”. “I proclami sono una cosa – chiosano in coro Letizia e Nisida – questi tagli sono i fatti”. Al ministro Maroni che fa sua la “tolleranza zero”, Letizia ricorda che “chi inventò quella politica dura di sicurezza, l’ex sindaco di New York Giuliani, aumentò del 40% le risorse alla polizia”.

Ancora Nisida dell’Ugl: “Si tratta dell’ennesimo attacco alla dignità professionale di chi è chiamato a presidiare il territorio e tutelare la sicurezza dei cittadini, anche perché, oltre a essere letteralmente sottopagato (meno dell’ora ordinaria), lo straordinario in Polizia, purtroppo, sopperisce alla grave carenza di personale dovuta al blocco delle assunzioni e del turn over”.

“E impensabile – continua Nisida – che il governo da un lato si faccia garante di assicurare la pacifica riuscita di importanti eventi nazionali e internazionali con grande sacrifcio delle forze dell’ordine e, dall’altro, sottragga importanti risorse proprio a questi”.

A questo punto i sindacati dell’Ugl richiamano e fanno propria la proposta fatta in campagna elettorale dal segretario del Pd, Dario Franceschini, che aveva proposto l’election day per risparmiare risorse da destinare alla polizia. “Con il solo election day – conclude Nisida – accorpando europee, amministrative e referendum, il governo avrebbe evitato di spendere ingenti somme che avrebbe potuto destinare alle forze dell’ordine. Ora la rabbia di noi poliziotti cresce”. “Continuiamo a non capire – dichiara Letizia – perché il governo e il Viminale abbiano sottratto al Dipartimento di pubblica sicurezza cento milioni per dirottarli a fare controllare il territorio dalle ronde di cittadini”.

Sulla stessa linea critica – ma riferendosi non alle ronde di cittadini, bensì a quelle dei militari – anche Claudio Giardullo, segretario genereale Silp Cgil. “Alle forze di polizia – spiega – si fanno mancare le risorse mentre il governo progetta di aumentare la costosa presenza di militari per il pattugliamento delle città. Questo, per noi, non solo non è una soluzione, ma è un ulteriore aggravio di lavoro per le forze dell’ordine come il caso emergenza rifiuti a Palermo dimostra”.

Giardullo: “Nel capoluogo siciliano c’è stato un aumento di carico di lavoro della polizia che ha dovuto scortare non solo il personale dell’azienda raccolta rifiuti, ma anche i soldati che avrebbero dovuto scortarli. Ciò dimostra che l’esercito non era in grado di badare alla propria sicurezza, né a quella dei dipendenti della ditta. La morale è che, per tutelare le ronde dell’Esercito, sono state sottratte risorse per la sicurezza dei cittadini”.

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Un pizzico di verità

Frottole e calunnie
di GIUSEPPE D’AVANZO

Frottole e calunnie
Silvio Berlusconi, pur in questo momento difficile della sua avventura politica, dovrebbe trovare un maggior controllo per riconciliarsi con una realtà che, nei suoi monologanti flussi verbali, diventa ogni ora di più leggenda, fiaba, sceneggiatura da scrivere e riscrivere secondo l’urgenza del momento. Il premier deve fare questa fatica, se ne è in grado, nel rispetto soprattutto di chi lo ascolta (e anche di se stesso).

Da giorni, il premier urla a gola piena e in qualsiasi occasione propizia contro Nicoletta Gandus, presidente del collegio che ha condannato David Mills testimone corrotto dal premier. Berlusconi con ostinazione ne vuole screditare la credibilità, la reputazione, l’imparzialità e umiliandola, senza un contraddittorio, pensa di salvare la faccia dinanzi al mondo; di cancellare con la sola forza della sua voce onnipotente e delle sue frottole indiscutibili (e mai discusse dai media) l’illegalità che il processo Mills ha ricostruito e la serena indipendenza che ha ispirato il giudizio. Il premier, da anni e da tre giorni tutti i giorni, dipinge quel giudice come “un nemico politico”, come “un avversario in tutti i campi”, come “un’estremista”. I suoi avvocati sono giunti a rimproverare a Nicoletta Gandus “attacchi e insulti contro il premier”. Quali?

L’aver firmato un appello di “condanna della politica di repressione violenta e di blocco economico messa in atto dal governo israeliano nei confronti della popolazione palestinese” senza dire che la Gandus è ebrea e quell’appello era firmato da ebrei e “in nome del popolo ebreo”. Il capo del governo sostiene che quel giudice “ha dimostrato avversione nei suoi confronti”. La prova? La Gandus ha firmato un appello contro la legge sulla fecondazione assistita o, con centinaia di giuristi e accademici, un appello alla politica – a tutta la politica – per riequilibrare leggi che avrebbero distrutto “il sistema giudiziario e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi”, come poi è stato. Da quell’appello vengono maliziosamente estratte, a proposito della legge berlusconiana che modifica i tempi della prescrizione (la “Cirielli”), due sole parole, “obbrobrio devastante”. Le due parole sono gettate sul viso della Gandus come se fossero state dette o scritte da lei e non dal presidente della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli.

Nel corso del tempo, Berlusconi si è spinto fino alla calunnia. Al devoto Augusto Minzolini, neodirettore del Tg1, riferisce di avere un asso nella manica per dimostrare la faziosità di quel giudice. “Ho un testimone che ha ascoltato una conversazione tra il presidente del Tribunale Nicoletta Gandus, e un altro magistrato. La Gandus ha detto questa frase al suo interlocutore. “A questo str… di Berlusconi gli facciamo un c… così. Gli diamo sei anni e poi lo voglio vedere fare il presidente del Consiglio”” (la Stampa, 18.06.08). Dov’è finito questo testimone? Perché non ha mai raccontato in pubblico e a un altro giudice la volontà pregiudiziale della Gandus? Di questo testimone non si è avuta più notizia né nelle carte della ricusazione presentata dai legali del capo del governo né, dopo un anno, ora che Berlusconi è ripartito lancia in resta contro la magistratura.
Quel testimone non è mai esistito, quella conversazione non c’è mai stata. Berlusconi ha inventato l’una e l’altra di sana pianta calunniando il giudice milanese, mentendo a tutti coloro che lo hanno ascoltato e magari lo hanno preso sul serio.

La Gandus accoglie da anni in silenzio gli insulti del capo del governo, ascolta imperturbabile le frottole che sparge sul suo conto. Fa bene a tacere. Berlusconi chiede soltanto la rissa per superare le curve che lo stanno screditando (o rivelando). Il premier ci va a nozze nel discorso pubblico che si fa nebbia e rissa. Ne ricava la radicalizzazione del suo consenso, e questo è l’unica cosa che gli serve e vuole. E tuttavia, anche per Berlusconi, ci deve essere un limite alla manipolazione della realtà e proporgli quel limite, la necessaria coerenza delle sue parole alle cose, ai fatti, alla storia delle persone, deve essere fatica quotidiana di chi lo ascolta. Può continuare, il premier, a ripetere senza che alcuno lo interrompa di non aver mai conosciuto David Mills nonostante l’avvocato inglese abbia detto e scritto di averlo incontrato, per lo meno, in due occasioni? Quando Berlusconi verrà a spiegarci che la seconda guerra mondiale è scoppiata perché un dissennato Belgio ha invaso il distratto Terzo Reich? O che il Sole gira intorno alla Terra immobile? Può credere il premier di essere sempre nella poltrona bianca di Porta a Porta?


°°° Ed ecco, amici, dopo le minchiate di ghedini, di gasparri, di lupi, e di tutti i picciotti della cosca – A RETI UNIFICATE – il serio e documentato D’Avanzo ci porta un po’ di verità su questi attacchi volgari, mafiosi, e falsi di silvio berlusconi nei confronti di una giudice ESEMPLARE, corretta, e di onestà specchiata. Fate girare.

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Altra truffa di Mafiolo

SE LO STATO NON VUOLE INCASSARE IL DIVIDENDO DIGITALE(da la Voce.info)
di Tommaso Valletti 24.04.2009

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. Ma in Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. E mentre all’estero i governi mettono all’asta senza limitazioni quelle liberate dalla tecnologia digitale, da noi la competizione riguarda solo tre canali e sarà riservata agli operatori televisivi. Di sicuro, la delibera danneggia lo sviluppo economico e inficia il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato, l’8 aprile, i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. La delibera prevede ventuno reti nazionali e definisce le procedure per la messa a gara del dividendo digitale. Il presidente Corrado Calabrò ha aggiunto che “in linea con quanto avviene in tutta Europa, la procedura pubblica sarà del tipo beauty contest”. Il sottosegretario alle Comunicazioni, Paolo Romani, ha espresso la propria soddisfazione dopo l’emanazione della delibera che “rappresenta il primo passo formale di un percorso intrapreso in piena sintonia con la Commissione europea dopo mesi di intenso e costruttivo confronto. (…) Il percorso così delineato rappresenta un ulteriore stimolo all’azione lineare, coerente e costruttiva intrapresa da questo governo per lo sviluppo della comunicazione nel nostro paese, avviato con la progressiva digitalizzazione del comparto radiotelevisivo e con le misure favorevoli allo sviluppo della banda larga”. (1)

COS’È IL DIVIDENDO DIGITALE

Nulla di tutto ciò è vero. Non è vero che vi sia stato confronto. Non è vero che in tutta Europa si assegni il dividendo digitale con un beauty contest. Non è vero che queste misure favoriscano lo sviluppo della banda larga. Non è vero che nel nostro paese vi sia mai stata una linea coerente per lo sviluppo della comunicazione, in modo particolare, per quello che riguarda le frequenze elettromagnetiche.
Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, di cosa stiamo parlando? Il passaggio dalla tv analogica alla tv digitale permette di utilizzare meno banda grazie alla maggiore efficienza delle tecniche digitali rispetto a quelle analogiche. Dunque, gli attuali canali, quando trasmessi con tecniche digitali, hanno bisogno di minori frequenze, liberando le vecchie, che possono essere assegnate ad altri usi e utilizzatori: è questo il cosiddetto “dividendo digitale”.

COSA ACCADE ALL’ESTERO

Le norme comunitarie, in verità molto generiche, impongono trasparenza e neutralità tecnologica nell’uso dello spettro. In concreto, ciò consiste in procedure a evidenza pubblica e non sottoposte a discriminazione nell’assegnazione.
Il Regno Unito ha deciso di allocare due terzi delle frequenze legate al passaggio dall’analogico al digitale a servizi radiotelevisivi, ma le procedure di assegnazione non sono note. Il restante terzo, un blocco comunque assai sostanzioso di 112 MHz, sarà messo all’asta senza vincoli sulle tecnologie o sugli utilizzi. L’analisi del governo britannico ha infatti concluso che quelle frequenze sono molto preziose e potenzialmente appetibili anche agli operatori mobili, o ai operatori fissi per la banda larga, o ad altri ancora. In mancanza di informazioni precise sui singoli business plan dei vari operatori, il governo farà l’unica cosa che abbia un senso economico: un’asta, senza restrizioni, assicurando che i diritti di proprietà siano rispettati e non si abbiano interferenze.
Anche la Francia sicuramente consentirà agli operatori mobili di concorrere per il dividendo digitale: uno studio commissionato dal governo stima a 25 miliardi di euro il beneficio di non limitare l’allocazione ai soli servizi televisivi. Il governo tedesco ha da poco annunciato che parte del dividendo digitale sarà utilizzato per offrire servizi wireless a banda larga. Per entrambi i paesi, tuttavia, non sono ancora note le modalità di assegnazione.
Negli Stati Uniti, circa un anno fa, sono state vendute all’asta frequenze a 700 MHz, molto vicine a quelle di cui stiamo parlando ora in Italia. In quell’asta sono stati incassati 19 miliardi di dollari per licenze vinte soprattutto da Verizon e AT&T, ma anche da nuovi operatori. Si trattava comunque della settantatreesima asta tenuta dalla Fcc a partire dal 1994 e oggi siamo già arrivati a settantanove: ecco un esempio di politica seria e capillare sulle frequenze. (2)

IL CASO ITALIAfar west,private,Comunità Europea,Umts,procedure infrazione,commina,Wi-Max,

E l’Italia? Continuiamo con le solite critiche al nostro paese? Purtroppo sì, e a ragion veduta. In Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. Pur senza entrare nel merito del far west delle tv private e delle continue procedure di infrazione che la Comunità europea ci commina, non si è mai voluto comprendere il valore economico delle frequenze elettromagnetiche e il costo legato a una loro assegnazione inefficiente. Si sono effettuate due aste: una nel 2000 per l’Umts e una l’anno passato per il Wi-Max. Ma sono due casi che purtroppo non hanno fatto scuola. Il 40 per cento delle frequenze è in mano al ministero della Difesa che non paga nulla per il loro utilizzo. E potrebbe anche non utilizzarle affatto. Nel Regno Unito, per esempio, il ministero della Difesa paga per le frequenze, il che ha comportato risparmi e la restituzione di quelle inutilizzate. Eppure, seguendo alcuni passi elementari, lo Stato italiano potrebbe incassare 2 miliardi di euro all’anno, oltre a liberare risorse che favoriscono lo sviluppo economico. (3)
La delibera sul dividendo digitale prevede che quattro canali siano dati a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia, due a ReteA e uno a Europa TV. Quanto ai restanti cinque canali, alcuni dettagli portano a pensare che a Rai e Mediaset sarà assegnato un ulteriore canale a testa. Restano quindi solo tre canali su cui sarà effettuato un beauty contest limitato a operatori televisivi. Nulla di preciso si sa a proposito delle frequenze per le 500 tv private, anche se è facile prevedere che si troveranno anche quelle prima o poi, sempre gratis o quasi.
La delibera danneggia sicuramente lo Stato e dunque i cittadini: non porterà ad alcun incasso, salvo briciole. Danneggia lo sviluppo economico, perché non abbiamo alcuna idea di come sono stati selezionati gli operatori prescelti. Di sicuro, colpisce tutti gli operatori che non siano televisivi, perché gli operatori mobili, ad esempio, non potranno concorrere per ottenere frequenze di cui sono assetati. Di certo inficia il pluralismo, visto che Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

(1) Vedi anche Beauty contest per l’assegnazione delle frequenze in linea con gli altri Paesi Ue.
(2) http://wireless.fcc.gov/auctions/default.htm?job=auctions_home.
(3) C. Cambini, A. Sassano e T. Valletti (2007), Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà (a cura di), “Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica”, Il Mulino, Bologna.

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Il ragionierino inutile

IL TEMPO DELLE SCELTE
di Tito Boeri e Fausto Panunzi 21.04.2009

(da la Voce.info)

La strada del governo per affrontare la crisi è basata sull’attendismo. Una strategia rischiosa che può costare cara al nostro paese. Anche perché non è detto che il peggio sia passato. Vi sono segnali positivi nell’economia mondiale, ma sull’Europa incombe la crisi dei paesi dell’Est. In più il terremoto rischia di peggiorare ulteriormente i nostri conti pubblici. E’ tempo di definire con chiarezza le priorità di politica economica. Poniamo quattro domande in merito al Ministro Tremonti. Augurandoci che risponda al più presto.

E’ passato quasi un anno dall’insediamento del nuovo Governo. In materia di politica economica, l’impressione è che abbia spesso scelto di non scegliere. Ha affrontato la crisi prendendo tempo e, al massimo, varando alcuni interventi tampone per fronteggiare le richieste più pressanti che venivano dal mondo delle imprese. Ha scommesso tutto su di una crisi di breve durata sapendo che i tempi della crisi globale sarebbero stati dettati da eventi al di fuori del suo controllo.

E’ PRESTO PER FESTEGGIARE

E’ stata una scommessa molto azzardata perché il precipitare della crisi ci avrebbe colti impreparati, ma ci auguriamo tutti che la crisi sia davvero breve. Sin qui il crollo è stato più rapido che nel 1929 (si veda il grafico qui sotto). Speriamo ora di avere lasciato alle spalle il punto più basso e che la risalita sia altrettanto ripida che la discesa. Ci sono indubbiamente alcuni segnali positivi soprattutto dal settore immobiliare statunitense e dalla Cina. E l’euforia delle borse di tutto il mondo nell’ultimo mese segnala un cambiamento dei sentimenti, degli animal spirits. L’augurio è che l’ottimismo sia altrettanto contagioso di quel pessimismo che ci aveva portato sull’orlo del precipizio. Il rischio di una nuova degenerazione della crisi è tuttavia ancora presente perché l’eccessivo indebitamento delle banche è stato solo parzialmente ridotto sin qui. I fattori di instabilità del sistema finanziario internazionale non sono stati ancora affrontati alla radice. E sull’Europa incombe la crisi dei paesi dell’ex blocco sovietico.

COME SI USCIRÀ DALLA CRISI

Questa crisi appare comunque destinata a modificare la geografia economica mondiale, i rapporti competitivi fra gli Stati. E’ una crisi maturata oltreoceano, che lascerà lunghi strascichi in quella che sin qui è stata l’indiscussa prima potenza economica mondiale. Dovrà portare a termine un costoso processo di deleveraging, di riduzione del debito del settore privato. E’ un processo che riguarda in modo meno pronunciato l’Europa che può trovare la forza di investire nei settori di punta e riuscire ad attrarre quei talenti che sin qui andavano negli Stati Uniti. Oggi l’Europa può davvero ambire a diventare l’economia più competitiva del pianeta come promesso a Lisbona 10 anni fa.
Il nostro paese non può perciò continuare a stare a guardare. Certo, l’Italia, per colpa del suo debito pubblico, ha minori margini di manovra di altri Paesi. Proprio per questo ha più bisogno di definire in modo chiaro le sue priorità. Abbiamo l’opportunità oggi di uscire non solo dalla recessione, ma anche dalla stagnazione economica in cui siamo rimasti negli ultimi 15 anni. E i periodi di crisi sono quelli in cui si può trovare il consenso per fare quelle riforme che in tempi normali non si riescono a fare.

IL TERREMOTO COME CARTINA AL TORNASOLE

Il 24 aprile si terrà il Consiglio dei Ministri nelle aree terremotate. Le scelte (o le non scelte) che verranno compiute in quell’occasione saranno un’importante cartina di tornasole delle intenzioni di questa maggioranza. Vedremo se prevarrà, una volta di più, la strategia attendista..
L’attendismo non ha sin qui evitato un consistente peggioramento dei nostri conti pubblici. Si sono aperti tanti rubinetti in questi mesi che sarà difficile monitorare. Non ci sono stati risparmi nel pubblico impiego. Al contrario, ai dipendenti pubblici con contratti a tempo indeterminato, quelli che non rischiano il posto di lavoro a differenza dei precari e dei loro omologhi nel settore privato, sono stati una volta di più concessi incrementi salariali superiori a quelli del privato. Il fabbisogno è aumentato di 9 miliardi nei primi tre mesi del 2009. E ci sono vistosi segnali di un calo delle entrate fiscali, ben oltre quanto determinato dall’andamento dell’economia. In particolare, le entrate tributarie nei primi due mesi del 2009 sono calate del 7,2 per cento rispetto a un anno fa e non più di metà di questo calo può essere attribuito all’andamento dell’economia. Mentre è certo che l’esecutivo ha dato ripetuti segnali di un abbassamento della guardia sul fronte del contrasto dell’evasione.
Ora il Governo ha due strade di fronte a sé nell’affrontare il dopo-terremoto e i costi della ricostruzione. La prima strada è quella di ripetere quanto fatto dai governi precedenti in questi casi: introdurre una addizionale, una nuova tassa, magari chiamata “contributo di solidarietà”, i cui proventi potranno essere destinati alla ricostruzione. In una fase di depressione come quella che stiamo fronteggiando ci sembra una scelta sbagliata. La seconda strada è quella di usare l’emergenza creata dal sisma per definire le priorità di politica economica.

LE DOMANDE DA PORRE AL MINISTRO DELL’ECONOMIA

Le interviste al Ministro dell’Economia trattano spesso di filosofia. Evitano accuratamente di porre le domande che stanno più a cuore agli italiani. Ecco allora le domande cui ci auguriamo il ministro voglia al più presto rispondere.
Su quale stima dei costi della ricostruzione delle aree terremotate sta il governo ragionando? Non è possibile non avere ancora un numero a due settimane dal sisma. Ed è legittimo attendersi che il Governo abbia deciso come finanziare queste spese.
Ha in mente il Ministro, alla luce anche del terremoto di rivedere le priorità della spesa in conto capitale? In particolare, conviene sul fatto che sarebbe più opportuno rimandare il ponte sullo stretto e varare un piano straordinario di manutenzione e miglioramento dell’edilizia scolastica?
Cosa intende fare il ministro per contrastare l’evasione fiscale? Intende davvero coinvolgere i Comuni negli accertamenti? Con quali tempi? E intende ripristinare gli uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate?Una domanda di filosofia ci riserviamo di porla anche noi.
Quali confini intende il ministro stabilire per il mercato? Perché, ad esempio, la legge 33/09 appena approvata in Parlamento, su “misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi”, prevede che non vi sia più l’obbligo di lanciare un’OPA nel caso in cui il gruppo di controllo che già possiede il 30% del capitale sociale acquisisca un ulteriore 5%? Perché rafforzare così il suo controllo sulla società in un momento di scarsità di capitali di investimento? A chi giova questa norma se non a chi oggi ha il controllo di queste imprese? E in cambio di cosa si concede loro questo aiuto?

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