Oggi le comiche

Tentato colpo di spugna sulla concussione Ue. Li Gotti: “Quale eurodeputato state cercando di graziare?”
L’Osce: “Il ddl sugli ascolti non rispetta gli standard internazionali sulla libertà di stampa”
Prostituzione, la legge slitta a ottobre
Sicurezza e intercettazioni, ingorgo al Senato

di LIANA MILELLA

ROMA – Rinviato a dopo l’estate. Doveva essere uno dei fiori all’occhiello del governo Berlusconi, sicuramente del ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna, che in questi mesi ne ha chiesto a gran voce una celere approvazione. Ma ora il ddl sulla prostituzione, che prevede il carcere per il cliente che va con una lucciola in luoghi pubblici, è divenuto fonte di profondo imbarazzo per la maggioranza, al punto da dovergli staccare l’etichetta “urgente” e sostituirla con un bel rinvio. Tutta colpa dell’ormai famosa (e infelice) definizione di Niccolò Ghedini su Berlusconi “utilizzatore finale” delle escort baresi. Dunque un cliente anche lui, seppure in luoghi chiusi, quindi non punibile.

Ma come si fa a discutere di un simile tema giusto in questi giorni? E mentre l’ex pm, e ora esponente Pd Felice Casson, preannuncia emendamenti sull’utilizzatore? Alla commissione Giustizia del Senato pure il presidente Filippo Berselli, che un anno fa voleva introdurre il foglio di via obbligatorio per le squillo, deve soprassedere. Mentre tra i banchi si svolge un ameno siparietto. Un senatore Pdl, con un sorriso sornione, dice a uno dell’opposizione: “Ma ti pare che adesso possiamo discutere delle norme della Carfagna?”.

Ufficialmente è colpa dell’ingorgo in commissione dove si ritrovano assieme ddl prostituzione, ddl sicurezza, ddl intercettazioni, ddl processo penale. A Berselli il presidente del Senato Schifani ed emissari del governo hanno chiesto di dare corsia preferenziale a sicurezza e ascolti, in coda il resto, a partire dalle norme anti-utilizzatori. Con due risultati. Via dibattiti a rischio per i facili doppi sensi, subito la sicurezza (in aula la prossima settimana forse con la fiducia) perché la Lega scalpita; a seguire gli ascolti, col governo che segue gli sviluppi del Bari-gate pronto a emendare il testo. Che comunque, lo confermano i senatori ex magistrati, sarà subito applicabile, ad esempio trasferendo un pm che parla del processo o che viene denunciato da un indagato, o bloccando l’uso delle telefonate di un’inchiesta per aprirne un’altra. Una legge bavaglio, che taglia le unghie ai pm (anche se il Guardasiglli Alfano lo nega), che fa dire a Miklos Haraszti, relatore per i media dell’Osce: “Non corrisponde agli standard internazionali sulla libertà si stampa”.

Tra giustizia e sicurezza sarà un luglio di fuoco. E se n’è avuta un’anticipazione ieri quando il governo, con l’ennesimo colpo di mano, ha cercato di emendare pure la legge (presentata da Casson e Luigi Li Gotti dell’Idv) che ratifica la convenzione Onu sulla corruzione vecchia del 2003. Sorpresa: ecco la richiesta di approvare una nuova versione dell’articolo 322bis del codice penale che disciplina corruzione, concussione, peculato commessi da europarlamentari o funzionari Ue, cancellando la concussione.

Martedì sera se ne accorge Casson che subemenda il testo, in aula grida Li Gotti: “Quale eurodeputato state cercando di graziare?”. Casson non ha dubbi: “Per il principio del favor rei la legge si applica ai reati precedenti”. E Li Gotti: “È un colpo di spugna”. Il centrista Gianpiero D’Alia: “Come si può pensare che, per lo stesso reato di concussione, un funzionario di Regione venga imputato e uno di Stasburgo no?”. Il governo tenta la prova di forza, boccia la modifica di Casson che risponde con la richiesta di voto segreto. Seduta sospesa. Alla ripresa la maggioranza ritira l’emendamento. “Tutto è bene quel che finisce bene” chiosa la capogruppo Pd Anna Finocchiaro.

°°° C’è poco da commentare. Semplicemente, siamo nelle mani di un’accolita di malavitosi che si parano il culo a forza di leggi ad personam e di voti di fiducia. E l’Italia è in completo disfacimento…

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Allegriaaaaaaaaa! Ottimismoooooooooo!

POVERA ITALIA!
di Antonio Frenda n(La Voce.it) 18.06.2009

Gli italiani si sono impoveriti negli ultimi anni? Le indagini di Istat e Banca d’Italia fotografano una situazione difficile per le famiglie numerose, per chi non ha lavoro e per il Sud. Ma nelle indagini sulla povertà si dovrebbe considerare un paniere che per tutta l’area euro rappresenti l’insieme dei beni e servizi considerati essenziali per uno standard di vita di una famiglia minimamente accettabile. E poi analizzare la percentuale di famiglie che si avvicina o si allontana da quella soglia ogni anno e nel corso degli anni.

Gli italiani si sono impoveriti negli ultimi anni?
È questa la domanda alla quale hanno cercato di rispondere l’Istat, con l’ultima indagine sulla povertà, e la Banca d’Italia con l’Indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro.
Una premessa è essenziale per analizzare i dati e provare a fornire delle risposte: gli indicatori statistici campionari sono indizi utili a comprendere i fenomeni e possono non fornire risposte univoche.

I DATI

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Dall’indagine Istat sulla povertà emergono alcuni dati particolarmente significativi.
La stima dell’incidenza della povertà assoluta, cioè la percentuale di famiglie e di persone povere sul rispettivo totale delle famiglie e delle persone residenti in Italia, è aumentata significativamente dal 2005 al 2007 per le famiglie con tre o più figli minori, contro una sostanziale stabilità statistica del fenomeno povertà per gli altri nuclei familiari considerati, con un’incidenza evidentemente più elevata al Sud rispetto al resto del paese. Inoltre, circa un quinto delle famiglie che non hanno un reddito da lavoro né un reddito derivante da una pregressa attività lavorativa risulta in condizione di povertà assoluta.

Altri utili dati Istat sulla povertà oggi disponibili, quelli cioè quelli sulla povertà relativa (in cui le soglie di povertà sono definite solo rispetto all’ampiezza familiare e non al territorio), presentano dal 2003 al 2006 una sostanziale stabilità della povertà in Italia nel periodo considerato, circa l’11 per cento, con un Sud in cui si presenta con valori superiori al 20 per cento.
Come opportunamente rileva su questo sito Linda Laura Sabbadini, “la misura della povertà assoluta è particolarmente utile per la progettazione di politiche di contrasto al fenomeno”.
La Banca d’Italia, invece, restringendo l’attenzione agli ultimi quindici anni, rileva giustamente come non vi sia evidenza, nei dati campionari sulla distribuzione dei redditi, di un assottigliamento dei ceti medi o ancora di un impoverimento delle famiglie. Sottolinea però come il contrasto tra Nord e Sud determini un livello della povertà e della disuguaglianza dei redditi familiari in Italia ben superiore a quello dei paesi nordici e dell’Europa continentale.
La Banca d’Italia, tramite l’indagine campionaria sui bilanci delle famiglie italiane nel 2006, evidenzia però già da tempo che nel periodo 2000-2006 il reddito delle famiglie con capofamiglia dipendente, in termini reali, è rimasto sostanzialmente stabile, rispetto a una crescita del 13,86 per cento per le famiglie con capofamiglia autonomo.
Letti i dati, e fatte le dovute premesse, è necessario proporre una diagnosi, lasciando ad altri esperti una prognosi completa. I dati Istat evidenziano che il problema della povertà concerne le famiglie (di tre o più figli dice l’indagine), ma interpretandoli con buon senso si può ipotizzare un problema di povertà, quantomeno soggettiva, sempre più sentito al crescere della prole: la povertà soggettiva indica la percezione degli individui circa l’adeguatezza del proprio reddito familiare per condurre una vita considerata dignitosa. Tale povertà soggettiva è probabilmente alimentata dall’assenza di una tassazione dei redditi basata sui quozienti familiari.
I dati citati inoltre rappresentano il ben conosciuto problema di un Sud depresso e di chi non ha un lavoro: questi ultimi sono impoveriti dall’assenza di un organico sistema di welfare state. Potrà rappresentare un importante passo avanti in tal senso il sistema degli ammortizzatori sociali, che a regime potrebbe essere organizzato su due pilastri, pubblico e privato, come spiega il Libro Bianco sul welfare presentato dal ministro Maurizio Sacconi.

LE CAUSE DEL MALESSERE

Dalla diagnosi alle cause del malessere.
– Nel 1995, il reddito italiano pro capite era superiore di circa il 4 per cento a quello medio relativo ai quindici paesi dell’UE; nel 2008 è invece sceso sotto la media circa del 10 per cento: in pratica, “l’italiano medio” si è impoverito quasi di 1 punto percentuale all’anno in rapporto agli altri partecipanti all’Unione Europea. Anche il confronto con i salari medi netti annuali nei paesi Ocse è poco soddisfacente per il nostro paese, come risulta dal grafico che segue. Occorre considerare che se la crescita del Pil di un paese si ferma, o addirittura vi è decrescita, gli altri Stati possono comportarsi anche in maniera opposta o comunque diversa. Infatti, i dati relativi al 2008 disponibili per gli altri paesi indicano per il Pil un aumento dell’1,3 per cento in Germania, dell’1,1 per cento negli Stati Uniti, dello 0,7 per cento in Francia e nel Regno Unito, e una diminuzione dello 0,7 per cento in Giappone. In Italia il prodotto interno lordo è invece calato dell’1 per cento rispetto all’anno precedente;
– Secondo le statistiche della Commissione europea per il 2008, considerando i dati corretti per il potere di acquisto, fatto pari a 100 il reddito pro capite medio nell’area euro, esso è pari a 104,8 in Germania, a 91,7 in Italia, a 84,5 in Slovenia: gli italiani quindi possiedono un reddito medio molto più vicino a quello sloveno che a quello tedesco;
– Per capire l’impatto rilevante del Pil sulla vita delle persone, occorre considerare che una delle sue componenti è rappresentata dai consumi delle famiglie, ad esempio di beni durevoli.

(elaborazione grafica dei dati di Francesco Pugliese)

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Concludendo, è bene rilevare come le soglie di povertà corrispondano alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un determinato paniere di beni e servizi: nelle indagini sulla povertà, può essere utile considerare anche un paniere che rappresenti l’insieme dei beni e servizi che, nell’area euro, e per una determinata famiglia, sono considerati essenziali al fine di conseguire uno standard di vita minimamente accettabile e analizzare la percentuale di famiglie che si avvicina o si allontana (a seconda del punto di partenza) da tali soglie annualmente, nel corso degli anni. Per i paesi primi entranti potrebbe poi contribuire all’analisi il definire una soglia di “malessere”, superiore a quella della povertà.
In una società globalizzata, per comprendere le condizioni di vita delle collettività, è bene operare confronti anche su sottoinsiemi con caratteristiche economiche comuni, per avere comparazioni omogenee ed esaustive. I cittadini, nel giudicare l’adeguatezza del proprio reddito familiare per condurre una vita dignitosa, osservano territori anche lontani, grazie ai mass media, a Internet, alla sempre maggiore mobilità. E sono soggetti a prezzi, come quelli dei beni durevoli, che spesso tendono a convergere in presenza di politiche monetarie comuni.

* L’articolo e le opinioni in esso contenute sono presentate dall’autore a titolo personale e non impegnano l’Istat, presso cui egli svolge l’attività di ricercatore.


°°° Sì, amici miei, certo… l’avvento di Silvio Burlesquoni nell’agone politico italiano ci ha praticamente disastrato. Nonostante l’ottimo lavoro di Prodi per mettere pezze su pezze ai danni fatti da Mafiolo, la devastazione è stata ed è così massiccia che stiamo finendo davvero malissimo. In compenso però siamo diventati il paese più conteso dai comici satirici di tutto il mondo. In effetti un capo di governo così patetico e clownesco e dei ministri così inutili e improbabili… li abbiamo solamente noi in tutto il mondo. E vi sembra poco? ALLEGRIAAAAAAAAAAAAA!

b-pinotto

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le minchiate di tvemonti e mafiolo

IL FEDERALISMO SECONDO TREMONTI
di Maria Cecilia Guerra 05.05.2009

Approvata definitivamente la legge delega sul federalismo fiscale, resta ora la partita della sua attuazione. Ed è tutta da giocare perché i principi contenuti nella delega sono molto generali e possono dar luogo a esiti assai differenziati. Come correttamente ci ricorda il ministero dell’Economia, la completa riscrittura della struttura della spesa e delle entrate pubbliche auspicata dalla legge manca ancora sia dei supporti fondamentali di conoscenza sia delle scelte politiche che ne caratterizzeranno il mix finale fra autonomia e solidarietà nazionale.

L’approvazione definitiva della legge delega sul federalismo è stata accolta dall’esultanza della Lega in Parlamento (“una giornata storica”). Molto più cauta la reazione della stampa: “che cosa succederà adesso?” È impossibile al momento prevederlo: i principi contenuti nella delega sono molto generali e possono dar luogo a esiti molto differenziati. Come più volte è stato sottolineato anche in questo sito,l’esame dei possibili effetti della delega manca poi di un supporto cruciale: l’analisi quantitativa delle poste in gioco.
Per capire quanto la partita del federalismo sia ancora tutta da giocare, è interessante leggere la sintetica analisi proposta dalla Ruef – Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica alle pagine 160-162, di cui riportiamo alcuni stralci (in corsivo), con alcune sottolineature (in grassetto).

UNA PREMESSA

La Ruef premette che “Il processo di quantificazione finanziaria degli aspetti connessi all’attuazione del federalismo fiscale, in relazione al testo del disegno di legge delega (…) si presenta come un’operazione oggettivamente molto complessa e ciò anche in considerazione dell’incertezza del relativo quadro di riferimento. Ne deriva che non è possibile determinare ex ante le conseguenze finanziarie dell’intero processo, a causa dell’elevato numero di variabili che dovranno essere definite in sede di redazione dei decreti legislativi di attuazione”.

CLASSIFICAZIONE E DEFINIZIONE DELLE FUNZIONI DELLE REGIONI E DEGLI ENTI LOCALI

Un primo problema riguarda la definizione e la classificazione delle funzioni delle regioni e degli enti locali. La delega sul federalismo prevede infatti che mentre per i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) erogate dalle regioni (e che interessano campi rilevanti quali la sanità, l’istruzione e l’assistenza) e per le funzioni fondamentali degli enti locali deve essere previsto il finanziamento integrale del fabbisogno standard, per le altre funzioni regionali e degli enti locali il finanziamento deve avvenire principalmente con entrate proprie, assistite da un fondo di perequazione che elimina solo in parte le differenze fra le capacità fiscali dei diversi territori. In altre parole, per Lep e funzioni fondamentali si cerca di assicurare, attraverso un finanziamento adeguato e una perequazione delle risorse che tiene conto delle diversità nei bisogni, una certa omogeneità di offerta sul territorio nazionale, per le altre funzioni invece gli spazi di autonomia e differenziazione sono molto più ampi.
Ma la Ruef ci ricorda che:“Non risultano agevolmente individuabili le specifiche attività amministrative da ricondurre alle funzioni di competenza delle regioni e degli enti locali, né è chiaro quali attività amministrative siano da ricondurre ai livelli essenziali delle prestazioni per le regioni e quali alle funzioni fondamentali per gli enti locali”.
Più in particolare, secondo la Ruef, l’individuazione dei Lep è “una scelta di definizione degli standard minimi di servizio che, oltre agli aspetti tecnici, potrà riflettere anche più ampi obiettivi di politica economica. Tale valutazione non potrà che aver luogo in sede di confronto tra i rappresentanti dei livelli istituzionali interessati all’attuazione del federalismo fiscale”.
Per ora quindi se ne sa poco o nulla. La delega non detta nessun principio per la definizione di tali livelli, in quanto essi non saranno oggetto di un decreto attuativo ma dovranno essere definiti con legge dello Stato. L’unica cosa che il Mef sembra dare per acquisita è che si tratta di standard minimi: lo slittamento semantico, da livelli “essenziali” a livelli “minimi”, non può infatti essere casuale, dopo un dibattito che dura orami da un decennio sulle diverse implicazioni, in termini di riconoscimento dei diritti di cittadinanza, dell’una o dell’altra definizione.

CLASSIFICAZIONE E QUANTIFICAZIONE DEI TRASFERIMENTI ERARIALI

La delega prevede la soppressione dei trasferimenti erariali esistenti e la loro sostituzione con compartecipazioni o tributi propri. Poiché però i trasferimenti attuali servono per finanziare tipologie di spesa diverse che, come si è detto, con l’attuazione del federalismo fiscale saranno assistite da garanzie di copertura finanziaria differenziate, occorre “una puntuale identificazione delle finalità per le quali tali trasferimenti sono attualmente erogati e delle loro fonti di finanziamento. Si tratta di un’operazione che dovrà realizzarsi in un contesto caratterizzato da una serie di finanziamenti senza vincolo di destinazione o destinati ad interventi molto specifici nei singoli territori, rendendo così impegnativo ricondurre i medesimi trasferimenti ad una delle tre tipologie (Lep, non Lep e interventi speciali) previste dal disegno di legge”.

SUPERAMENTO DEL CRITERIO DELLA SPESA STORICA A FAVORE DEI COSTI STANDARD

La delega richiede che la quantificazione dei fabbisogni di spesa per i Lep e per le funzioni fondamentali avvenga con riferimento ai costi standard per la loro erogazione. Per valutare tali costi è indispensabile conoscere, quantomeno, la spesa storica per ciascuna funzione. Le informazioni finanziarie di base dovrebbero essere rilevate dai bilanci dei diversi soggetti istituzionali. A questo proposito, però, la Ruef ci ricorda che “i bilanci regionali risultano fortemente disomogenei e scarsamente confrontabili, mentre i bilanci degli enti locali sono classificati secondo uno schema omogeneo e sono oggetto di rilevazione da parte del ministero dell’Interno. Anche per questi ultimi, in ogni caso, si rileva una certa disomogeneità delle metodologie contabili adottate, per ciò che, in particolare, attiene l’applicazione della classificazione funzionale e il diversificato ricorso alle esternalizzazioni dei servizi”.

I COSTI DEI SERVIZI ESTERNALIZZATI

La delega prevede infatti che, ai fini della determinazione del fabbisogno finanziario, si tenga conto della spesa relativa a servizi esternalizzati, o svolti in forma associata, per la rilevante incidenza che tale fenomeno ha presso gli enti territoriali. “Un elemento di criticità deriva dal fatto che non sono disponibili bilanci consolidati degli enti locali e delle loro società ed aziende partecipate, per cui non risulta possibile definire con precisione il livello di spesa pubblica degli enti territoriali. Inoltre, nei casi in cui gli enti hanno esternalizzato anche le fonti di finanziamento, i bilanci sono ancor meno rappresentativi delle attività svolte a livello locale”.
Insomma, come correttamente ci ricorda il Mef, la completa riscrittura della struttura della spesa e delle entrate pubbliche auspicata dalla delega sul federalismo manca ancora sia dei supporti fondamentali di conoscenza sia delle scelte politiche che ne caratterizzeranno il mix finale fra autonomia e solidarietà nazionale.

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