Papi, Cicci, Giampi, Lillo e Lalla

Yacht, donne e politica. Il mondo di «Cicci»
di Federica Fantozzi

Chi sono le ragazze sul Magnum di Berlusconi in procinto di trascorrere lo scorso Ferragosto a Villa Certosa? È caccia ai nomi delle foto pubblicate dall’”Espresso”. “Dagospia” soffia sulle Papi-girls riprendendo l’articolo di Marco Lillo e Peter Gomez: «Due future stelline di reality, un’aspirante giornalista Mediaset, una giovane promessa PdL».

Quest’ultima, in camicetta bianca, somiglia molto alla neo-europarlamentare Licia Ronzulli. Lei, in partenza per Bruxelles, ha fretta: «Non ho tempo di rispondere alle sue domande». Ma dov’era a Ferragosto? «Arrivederci». Poi viene identificata Siria, concorrente saffica dell’ultimo Grande Fratello: «Non rilascio dichiarazioni – replica – Parli con Endemol». Smentisce invece di essere a bordo Susanna Petrone, da settembre conduttrice di “Guida al campionato” e in lizza per sostituire la Hunziker a Zelig.

È l’ultimo capitolo di una vicenda mediatica cominciata con il corso di politica “pret-à-porter” a via dell’Umiltà. E le studentesse – “starlet” di belle speranze, avvenenti dirigenti locali e fanciulle di ottima famiglia – falcidiate dall’ira coniugale. In un frullatore di gelosie incrociate, polpette avvelenate, registrazioni vere o presunte, rivelazioni clamorose e bocche cucite. Vedi la stanza di Arcore da cui “Papi Natale” attinge doni per le favorite, tra cui le chiavi di una mini nascoste in mazzi di rose. Anche se negli ultimi giorni qualcuna l’ha cambiata con un altro modello di auto perché da “status symbol” si va trasformando in carta d’identità. Certo, scrive Filippo Ceccarelli, «fra letterine, meteorine, gossipine, farfalline, gemelline, pare, anche montenegrine, e api regine, non ci si capisce più niente».

MI MANDA CICCI
«E come sta Cicci?» «Bene, magari è al governo». A “Tetris” era diventato un tormentone: se vogliamo una valletta – si erano detti gli autori del programma condotto da Luca Telese all’epoca su RaiSat Extra – deve essere una vera raccomandata. Detto fatto, avevano chiesto al direttore di rete che aveva chiesto al presidente di Raisat… e lei era sbucata fuori. Adriana Verdirosi: bella, bruna, spigliata, raccomandata da Cicci, entità misteriosa e mai svelata. Un ministro? «Chissà». È giovane? «Dentro sì». Sposato? «Non voglio saperlo». La sorpresa è arrivata quando hanno letto il suo nome tra le partecipanti al corso. «L’abbiamo invitata a fare campagna elettorale – rievoca Telese – Ha accettato. Poi, due giorni dopo, l’attacco di Veronica sul “ciarpame senza pudore” e non ha più risposto al telefono».

CUORI INFRANTI
Quelle che alle 16 erano in lista e alle 18 non più. Emanuela Romano, 28enne napoletana, alta e bruna, psicologa con master in marketing a Publitalia, impegnata nel comitato “Silvio ci manchi” è stata depennata nonostante il padre Cesare, artigiano di presepi, abbia minacciato di darsi fuoco sotto Palazzo Grazioli: «È tutto ricomposto – dice ora – Io sono un militante. Mi ero solo risentito per lo sgarbo». Come lei la 25enne Chiara Sgarbossa, ex miss Veneto ed ex meteorina di Emilio Fede, furibonda per l’inutilità delle pacche sulle spalle ricevute da La Russa al corso. E così racconta l’antefatto: «Avevo il contatto diretto con Marinella, la segretaria di Berlusconi. Una settimana dopo lui mi ha telefonato di persona, mi ha fatto tre domande. Sei laureata? Sì. Sai le lingue? Sì. Ci sono foto nude di te? No. Manda tutto a Marinella e vieni al corso».

CERCHI CONCENTRICI
Raccontano che nella piazza di Todi, avvistando da lontano due bionde che si sbracciavano il premier abbia gelato sindaco e consiglieri umbri: «Belle fighe circolano da queste parti». Imbarazzo: oltre che distanti, le signore erano anche “agées”. È il bis del «posso palpare l’assessora» all’Aquila, il sequel di infiniti comizi e passeggiate. A Berlusconi piacciono le donne, come ad altri 50 milioni di italiani, dice chi lo difende. Si dibatte su: galanteria, voyerismo, satiriasi, priapismo indotto da pillole azzurrine o iniezioni.

Di certo, oltre a migliaia di fortunate che possono vantare complimenti, compresa la finlandese Tarja Halonen, esiste un più ristretto gruppo che frequenta Villa Certosa e Palazzo Grazioli. Dove il tavolo è sempre apparecchiato per 50. Ed esiste un cerchio ancora più riservato: quelle che vantano (o millantano) con il premier frequentazioni private, notti a palazzo, incontri ravvicinati. Come Evelina Manna, che in un’intercettazione lo rimprovera: «Non essere freddo con me».

L’ASSE PUGLIESE
E come Patrizia D’Addario, ex candidata alle Comunali di Bari ed escort d’alto bordo. Pugliese come Angela Sozio, la “rossa” delle sexy saune del GF riapparsa al congresso fondativo del PdL; come la neo-eurodeputata Angela Matera, e come Elvira Savino, la Tacco 12 di Montecitorio, coinquilina della somma reclutatrice Sabina Began.

La D’Addario però è una professionista, come le colleghe interrogate dai pm baresi: smistate da «Giampi», pagate migliaia di euro a notte. Non le uniche, forse, nel mucchio procace che ha trascorso Capodanni ed estati sarde rimborsate con diaria di 1500 euro più shopping libero. Un bel salto di qualità rispetto al borsello in cui uno degli assistenti di Berlusconi raccoglie, in ogni occasione pubblica, biglietti da visita e numeri di telefono delle fans adoranti.

°°° L’Italietta di burlesquoni ormai è un vero troiaio. L’avevo detto in tempi non sospetti che l’Italia in mano a “Papi” sarebbe andata a puttane…

°°° rita-carla

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POMPA A VILLA CERTOSA

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IL REGIME A UN PASSO DAL BARATRO

Il premier e i consigli per gli acquisti
di MASSIMO GIANNINI

“Non date pubblicità ai media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo”. Questa, dunque, è la “dottrina Berlusconi” sul libero mercato. Questi sono i “consigli per gli acquisti” che l’Imprenditore d’Italia impartisce ai suoi “colleghi”. L’uomo che sognava di essere la Thatcher, che si celebrava come “l’unico alfiere dell’economia liberale” nel ’94 e come “il vero missionario della tv commerciale in Europa” nel ’96, oggi concepisce così i rapporti tra produttori, clienti ed utenti. Non un contratto. Neanche un baratto. Piuttosto un ricatto.

Le parole pronunciate dal presidente del Consiglio dal palco confindustriale di Santa Margherita Ligure sono un ulteriore, drammatico esempio dei tanti “virus letali” che si stanno inoculando nelle vene di questo Paese. è un problema gigantesco, che chiama in causa sia chi produce quei virus (il presidente del Consiglio) sia chi li subisce (l’establishment politico-economico).
L’infezione promana direttamente dal capo del governo, dalla sua visione del potere, dalla concezione tecnicamente “totalitaria” delle sue funzioni. Proprio lui, che dovrebbe essere il primo a conoscere e difendere le ragioni del mercato, le umilia e le distrugge in nome di un interesse politico superiore: il suo. Il ragionamento fatto ai giovani industriali è agghiacciante: “Bisognerebbe non avere ogni giorno una sinistra e dei media che cantano la canzone del pessimismo. Anche voi dovreste fare di più: non dovreste dare pubblicità a chi adotta questi comportamenti”. Nell’ottica distorta del Cavaliere, la pubblicità non è più uno strumento da impiegare liberamente nella competizione economica: non si distribuisce più in base all’utilità del mezzo, all’efficacia del messaggio e alla profittabilità dell’investimento. Diventa invece un’arma da usare selettivamente nella battaglia politica: si distribuisce, a prescindere dall’efficacia del messaggio e dalla profittabilità dell’investimento, solo in base alla “fedeltà” del mezzo. Il presidente del Consiglio chiede agli imprenditori una sostanziale alterazione delle regole del mercato, con l’unico scopo di punire chi non è d’accordo con la politica del suo governo.

Il paradosso è che a sostenere questa tesi sia il capo del governo, che è al tempo stesso proprietario di Mediaset (e dunque di una delle maggiori concessionarie italiane) e azionista (attraverso il Tesoro) delle principali aziende pubbliche o semi-pubbliche del Paese. Come si regoleranno i dirigenti di Publitalia, nel distribuire le campagne pubblicitarie sulle radio e le televisioni? E come si regoleranno i manager di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, nel distribuire le loro campagne pubblicitarie sui quotidiani e i settimanali? Sarà interessante verificarlo, di qui ai prossimi mesi.

L’infezione inquina progressivamente il corpo della società italiana, delle classi dirigenti, delle istituzioni di garanzia. Una parola sugli imprenditori, innanzi tutto. Ancora una volta, bisogna constatare con rammarico che quando il Cavaliere ha lanciato il suo ennesimo anatema, dai giovani e dagli “anziani” di Confindustria non solo non si sono levate proteste, ma viceversa sono arrivati addirittura gli applausi. Eppure, per chi fa impresa e combatte ogni giorno sui fronti più esposti della concorrenza, le aberrazioni berlusconiane non dovrebbero trovare diritto di cittadinanza, in un convegno della più importante associazione della cosiddetta “borghesia produttiva”.

Se esistesse davvero, una classe dirigente responsabile e consapevole del suo ruolo dovrebbe reagire, cacciando il mercante dal tempio. Invece tace, o addirittura condivide. E non solo nei saloni di Santa Margherita Ligure. Poche ore più tardi, nella notte di Portofino, il Cavaliere ha cenato con due alti esponenti del gotha confindustriale. Marco Tronchetti Provera (presidente di Pirelli ed ex azionista di riferimento di Telecom) e Roberto Poli (presidente dell’Eni) erano al suo fianco, mentre il premier smentiva la smentita dei suoi uffici di Palazzo Chigi, e confermava che con quell’intemerata sulla pubblicità ce l’aveva proprio con i giornali “nemici”, e in particolare con “Repubblica”.
Ebbene, anche in quella occasione nessun distinguo, nessuna presa di distanza da parte di chi dovrebbe preferire le leggi mercatiste di Schumpeter a quelle caudilliste di Berlusconi.

Ma una parola va spesa anche sulle cosiddette Autorità amministrative indipendenti, chiamate a tutelare la concorrenza, e sulla cosiddetta libera stampa, chiamata a difendere il diritto all’informazione. Solo in un Paese in cui si stanno pericolosamente snaturando i meccanismi di “check and balance” può accadere che di fronte a certe nefandezze ideologiche non ci siano organi di vigilanza capaci di fare semplicemente il proprio dovere. L’Antitrust non ha nulla da dire, sulla pretesa berlusconiana di riscrivere le regole del mercato pubblicitario con criteri di pura convenienza politica? E il giornale edito dalla Confindustria non ha nulla da dire, sul tentativo berlusconiano di condizionare le scelte commerciali dei suoi azionisti?
Domina il silenzio-assenso, nell’Italia berlusconizzata. Tutto si accetta, tutto si tollera. Anche un mercato schiaffeggiato dalla mano pesante del Cavaliere, invece che regolato dalla mano invisibile di Adam Smith.

°°° Orripilante. Abbiamo una classe industriale di incapaci, di servi, ladri ed evasori fiscali. A queste merdine va benissimo un bandito al potere: ruba lui, rubiamo tutti. Alè!

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LE PERICOLOSE EVOLUZIONI DI MAFIOLO

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Il mafioso dell’utri

Un uomo colto. Sul fatto
di Marco Travaglio

Ci sia consentito di ringraziare dal più profondo del cuore il sen. Marcello Dell’Utri, noto pregiudicato e soprattutto bibliofilo tra i più raffinati. Grazie perché non delude mai: trent’anni dopo la prima intercettazione che lo immortalò a colloquio con l’eroico Mangano, continua a ricevere mafiosi e a farsi beccare al telefono senza usare precauzioni. L’altro giorno, quando girava voce di un misterioso senatore sorpreso a colloquio con uomini della ‘ndrangheta, ci siamo detti: no, non può essere ancora lui. Basta con questa cultura del sospetto che associa il suo nome a qualunque scandalo dell’orbe terracqueo. Ogni tanto si riposerà anche lui, che diamine. Invece s’è scoperto che l’uomo al telefono col bancarottiere Aldo Miccichè, latitante in Venezuela, era Dell’Utri. L’uomo che riceveva nel suo studio Antonio Piromalli, reggente del clan calabrese impegnato nei brogli esteri, e suo cugino Gioacchino, avvocato radiato dall’Ordine per una condanna di mafia, era ancora lui. L’uomo che poi ringraziava Miccichè per avergli mandato a casa quei «due bravi picciotti», era sempre lui. Grazie senatore per agevolare, con la sua sostenibile leggerezza dell’essere, gl’investigatori. La prima volta fu nel 1980, quando si fece sorprendere al telefono con Vittorio Mangano a parlare di «cavalli». La seconda nel 1986, quando il Cavaliere lo chiamò per informarlo di una bomba appena esplosa nella villa in via Rovani: ma «fatta con molto rispetto, quasi con affetto», un «segnale acustico» tipico dell’eroico Mangano (che fra l’altro non c’entrava perché era in galera). La terza un mese dopo, quando il mafioso Tanino Cinà gli telefonò per annunciargli l’arrivo di quattro cassate: una per lui, una per suo fratello, una per Confalonieri, una extralarge da 10 chili per Silvio. Le rare volte in cui non parla al telefono, le sue agende parlano per lui: due appunti del novembre ’93 («2-11, Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema personale»\, «Mangano verso il 30-11») rivelano che, mentre dava gli ultimi ritocchi a FI, riceveva a Publitalia il solito Mangano, reduce da 11 anni di galera per mafia e droga. Altre volte, al telefono, parlano di lui gli amici degli amici. Come due uomini legati alla mafia catanese, Papalia e Cultrera, che il 25 marzo ’94 si preparano alla prima vittoria azzurra: «Il giorno in cui Berlusconi salirà, come ho detto in una cena alla presenza anche di Marcello, si dovranno prendere tante soddisfazioni… fra cui l’annientamento dell’amministrazione (la giustizia, ndr), perché sono gruppi di comunisti!». Marcello è lo stesso che il 12 ottobre ’98 riceve nell’ufficio di via Senato a Milano Natale Sartori (socio della figlia di Mangano in una coop di pulizie), pedinato dalla Dia in un’indagine per droga. Due mesi dopo, 31 dicembre, la Dia filma Dell’Utri mentre incontra a Rimini il falso pentito Pino Chiofalo, che organizza un complotto per calunniare i veri pentiti che accusano Marcello. Maggio ’99: Dell’Utri è candidato in Sicilia all’Europarlamento: un picciotto di Provenzano, Carmelo Amato, vota e fa votare: «Purtroppo dobbiamo portare a Dell’Utri, se no lo fottono. Pungono sempre, ‘sti pezzi di cornuti (i giudici, ndr). Questi sbirri non gli danno pace». Maggio 2001: il boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, parla col mafioso Salvatore Aragona: «Con Dell’Utri bisogna parlare», «alle elezioni ’99 ha preso impegni» col boss Gioacchino Capizzi «e poi non s’è fatto più vedere». Aragona rivela: «Io sono stato invitato al Circolo, che è la sede culturale e intellettuale di Dell’Utri in via Senato, una biblioteca famosa». Nel 2003 Vito Roberto Palazzolo, condannato per narcotraffico, imputato per mafia e rifugiato in Sudafrica, aggancia Dell’Utri e la moglie perché premano sul ministro di Giustizia – scrivono i pm – «per ammorbidire le richieste di rogatoria e di estradizione». Nel 2005 la Procura di Monza intercetta due finanzieri, Savona e Pelanda, che parlano del Ponte sullo Stretto e il secondo ha appena saputo dall’amico Dell’Utri che «la gara d’appalto la vince l’Impregilo». Profezia puntualmente avverata. Nel 2005, scandalo scalate & furbetti. Mica c’entrerà Dell’Utri anche lì? No, nelle intercettazioni lui non parla e nessuno parla di lui. Ma poi arrestano Fiorani, e questo parla di 200 mila euro da sganciare ai senatori forzisti Grillo e Dell’Utri. Nessun reato, stabiliscono i giudici. Ma il suo motto è quello di Piercasinando: «Io c’entro». Sempre. Come diceva Montanelli, « Dell’Utri è un uomo colto. Soprattutto sul fatto».

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