Santanchè: “Silvio rappresenta il nuovo, è il Pdl ad essere vecchio”

Che questa sciammannata sia da pigliare a calci sulla dentiera lo sanno tutti. Il guaio è che si ostina ancora a starnazzare le sue minchiate! Questo accrocchio di plastica scaduta, nota oper essere stata socia di un criminale internazionale (Briatore), per aver paragonato la Minetti a Nilde Jotti, e per mostrare a tutti il dito medio ogni volta che se lo sfila dal culo, crede di essere una grande statista. Purtroppo per lei è solo una piccola, vecchia baldracca da rottamare in fonderia.

 

 

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Allegriaaaaaaaaa! Ottimismoooooooooo!

POVERA ITALIA!
di Antonio Frenda n(La Voce.it) 18.06.2009

Gli italiani si sono impoveriti negli ultimi anni? Le indagini di Istat e Banca d’Italia fotografano una situazione difficile per le famiglie numerose, per chi non ha lavoro e per il Sud. Ma nelle indagini sulla povertà si dovrebbe considerare un paniere che per tutta l’area euro rappresenti l’insieme dei beni e servizi considerati essenziali per uno standard di vita di una famiglia minimamente accettabile. E poi analizzare la percentuale di famiglie che si avvicina o si allontana da quella soglia ogni anno e nel corso degli anni.

Gli italiani si sono impoveriti negli ultimi anni?
È questa la domanda alla quale hanno cercato di rispondere l’Istat, con l’ultima indagine sulla povertà, e la Banca d’Italia con l’Indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro.
Una premessa è essenziale per analizzare i dati e provare a fornire delle risposte: gli indicatori statistici campionari sono indizi utili a comprendere i fenomeni e possono non fornire risposte univoche.

I DATI

poveri

Dall’indagine Istat sulla povertà emergono alcuni dati particolarmente significativi.
La stima dell’incidenza della povertà assoluta, cioè la percentuale di famiglie e di persone povere sul rispettivo totale delle famiglie e delle persone residenti in Italia, è aumentata significativamente dal 2005 al 2007 per le famiglie con tre o più figli minori, contro una sostanziale stabilità statistica del fenomeno povertà per gli altri nuclei familiari considerati, con un’incidenza evidentemente più elevata al Sud rispetto al resto del paese. Inoltre, circa un quinto delle famiglie che non hanno un reddito da lavoro né un reddito derivante da una pregressa attività lavorativa risulta in condizione di povertà assoluta.

Altri utili dati Istat sulla povertà oggi disponibili, quelli cioè quelli sulla povertà relativa (in cui le soglie di povertà sono definite solo rispetto all’ampiezza familiare e non al territorio), presentano dal 2003 al 2006 una sostanziale stabilità della povertà in Italia nel periodo considerato, circa l’11 per cento, con un Sud in cui si presenta con valori superiori al 20 per cento.
Come opportunamente rileva su questo sito Linda Laura Sabbadini, “la misura della povertà assoluta è particolarmente utile per la progettazione di politiche di contrasto al fenomeno”.
La Banca d’Italia, invece, restringendo l’attenzione agli ultimi quindici anni, rileva giustamente come non vi sia evidenza, nei dati campionari sulla distribuzione dei redditi, di un assottigliamento dei ceti medi o ancora di un impoverimento delle famiglie. Sottolinea però come il contrasto tra Nord e Sud determini un livello della povertà e della disuguaglianza dei redditi familiari in Italia ben superiore a quello dei paesi nordici e dell’Europa continentale.
La Banca d’Italia, tramite l’indagine campionaria sui bilanci delle famiglie italiane nel 2006, evidenzia però già da tempo che nel periodo 2000-2006 il reddito delle famiglie con capofamiglia dipendente, in termini reali, è rimasto sostanzialmente stabile, rispetto a una crescita del 13,86 per cento per le famiglie con capofamiglia autonomo.
Letti i dati, e fatte le dovute premesse, è necessario proporre una diagnosi, lasciando ad altri esperti una prognosi completa. I dati Istat evidenziano che il problema della povertà concerne le famiglie (di tre o più figli dice l’indagine), ma interpretandoli con buon senso si può ipotizzare un problema di povertà, quantomeno soggettiva, sempre più sentito al crescere della prole: la povertà soggettiva indica la percezione degli individui circa l’adeguatezza del proprio reddito familiare per condurre una vita considerata dignitosa. Tale povertà soggettiva è probabilmente alimentata dall’assenza di una tassazione dei redditi basata sui quozienti familiari.
I dati citati inoltre rappresentano il ben conosciuto problema di un Sud depresso e di chi non ha un lavoro: questi ultimi sono impoveriti dall’assenza di un organico sistema di welfare state. Potrà rappresentare un importante passo avanti in tal senso il sistema degli ammortizzatori sociali, che a regime potrebbe essere organizzato su due pilastri, pubblico e privato, come spiega il Libro Bianco sul welfare presentato dal ministro Maurizio Sacconi.

LE CAUSE DEL MALESSERE

Dalla diagnosi alle cause del malessere.
– Nel 1995, il reddito italiano pro capite era superiore di circa il 4 per cento a quello medio relativo ai quindici paesi dell’UE; nel 2008 è invece sceso sotto la media circa del 10 per cento: in pratica, “l’italiano medio” si è impoverito quasi di 1 punto percentuale all’anno in rapporto agli altri partecipanti all’Unione Europea. Anche il confronto con i salari medi netti annuali nei paesi Ocse è poco soddisfacente per il nostro paese, come risulta dal grafico che segue. Occorre considerare che se la crescita del Pil di un paese si ferma, o addirittura vi è decrescita, gli altri Stati possono comportarsi anche in maniera opposta o comunque diversa. Infatti, i dati relativi al 2008 disponibili per gli altri paesi indicano per il Pil un aumento dell’1,3 per cento in Germania, dell’1,1 per cento negli Stati Uniti, dello 0,7 per cento in Francia e nel Regno Unito, e una diminuzione dello 0,7 per cento in Giappone. In Italia il prodotto interno lordo è invece calato dell’1 per cento rispetto all’anno precedente;
– Secondo le statistiche della Commissione europea per il 2008, considerando i dati corretti per il potere di acquisto, fatto pari a 100 il reddito pro capite medio nell’area euro, esso è pari a 104,8 in Germania, a 91,7 in Italia, a 84,5 in Slovenia: gli italiani quindi possiedono un reddito medio molto più vicino a quello sloveno che a quello tedesco;
– Per capire l’impatto rilevante del Pil sulla vita delle persone, occorre considerare che una delle sue componenti è rappresentata dai consumi delle famiglie, ad esempio di beni durevoli.

(elaborazione grafica dei dati di Francesco Pugliese)

pover

Concludendo, è bene rilevare come le soglie di povertà corrispondano alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un determinato paniere di beni e servizi: nelle indagini sulla povertà, può essere utile considerare anche un paniere che rappresenti l’insieme dei beni e servizi che, nell’area euro, e per una determinata famiglia, sono considerati essenziali al fine di conseguire uno standard di vita minimamente accettabile e analizzare la percentuale di famiglie che si avvicina o si allontana (a seconda del punto di partenza) da tali soglie annualmente, nel corso degli anni. Per i paesi primi entranti potrebbe poi contribuire all’analisi il definire una soglia di “malessere”, superiore a quella della povertà.
In una società globalizzata, per comprendere le condizioni di vita delle collettività, è bene operare confronti anche su sottoinsiemi con caratteristiche economiche comuni, per avere comparazioni omogenee ed esaustive. I cittadini, nel giudicare l’adeguatezza del proprio reddito familiare per condurre una vita dignitosa, osservano territori anche lontani, grazie ai mass media, a Internet, alla sempre maggiore mobilità. E sono soggetti a prezzi, come quelli dei beni durevoli, che spesso tendono a convergere in presenza di politiche monetarie comuni.

* L’articolo e le opinioni in esso contenute sono presentate dall’autore a titolo personale e non impegnano l’Istat, presso cui egli svolge l’attività di ricercatore.


°°° Sì, amici miei, certo… l’avvento di Silvio Burlesquoni nell’agone politico italiano ci ha praticamente disastrato. Nonostante l’ottimo lavoro di Prodi per mettere pezze su pezze ai danni fatti da Mafiolo, la devastazione è stata ed è così massiccia che stiamo finendo davvero malissimo. In compenso però siamo diventati il paese più conteso dai comici satirici di tutto il mondo. In effetti un capo di governo così patetico e clownesco e dei ministri così inutili e improbabili… li abbiamo solamente noi in tutto il mondo. E vi sembra poco? ALLEGRIAAAAAAAAAAAAA!

b-pinotto

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Il cazzaro, la cosca e… la dura realtà

Conti Pubblici
COSA CI SARÀ DOPO LA CRISI
di Andrea Boitani e Massimo Bordignon

15.06.2009

E’ la peggiore crisi dagli anni Trenta. Ma è utile guardare più lontano nel tempo, per capire le possibilità del nostro paese, che oltretutto ha beneficiato meno della crescita precedente. Aumenteranno disavanzi e debiti pubblici, in particolare nei paesi avanzati. Si ridurrà la domanda Usa ed è illusorio contare sulla Cina per riavviare un modello fondato sulle esportazioni. Servirebbero una politica fiscale sempre più europea e riforme strutturali. Difficili da realizzare. Ma l’alternativa è una progressiva emarginazione dell’Europa. E dell’Italia.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita”. L’incipit dantesco rappresenta un’eccellente descrizione della situazione economica attuale. La selva è davvero oscura: quest’anno il Pil mondiale si ridurrà dell’1,3 per cento; del 2,8 per cento negli Stati Uniti e del 4,2 per cento nell’area euro, del 4,4 per cento in Italia (il 5 per cento secondo BankItalia). Il tasso di disoccupazione, nell’area euro, salirà sopra il 10 per cento nel 2010: la peggior crisi dagli anni trenta. (1) Perché si sia persa la “diritta via” è ancora dibattuto. Sappiamo ormai tutto sui meccanismi della crisi finanziaria e della bolla del debito. Capiamo meno come vi si sia potuti arrivare, se per imbecillaggine dei controllori, esuberanza irrazionale dei mercati, cecità dei cantori del libero mercato o altro. Non sappiamo neppure quando qualche raggio di luce illuminerà la selva, se già alla fine del 2009, nel 2010 o ancora più lontano nel tempo. Per ora, gli unici segnali di conforto sono che la velocità di caduta del prodotto è diminuita e che le borse hanno un po’ recuperato, aiutate dall’inondazione di liquidità prodotta dalle banche centrali. Ma i prezzi delle materie prime e del petrolio sono in deciso rialzo, probabilmente per le strozzature presenti dal lato dell’offerta, e questo potrebbe far abortire la ripresa prima ancora che si consolidi. Forse, è però utile gettare uno sguardo un po’ più lontano nel tempo, anche per capire quali possibilità abbia un paese come il nostro, che oltre a essere uno dei più colpiti dal fallout della crisi, è anche quello che ha di meno beneficiato della crescita che l’ha preceduto.

FATTI

Intanto, nonostante che il dibattito si sia quasi esclusivamente concentrato sulla crisi finanziaria, all’origine della stessa c’è soprattutto una situazione di perdurante squilibrio internazionale, alimentato dagli Stati Uniti e dagli altri paesi che impiegano più risorse di quante ne producano, e della Cina e di alti paesi, petroliferi, ma non solo, che producono più risorse di quante ne impieghino. La bolla finanziaria aveva reso conveniente (e perciò possibile) il continuo afflusso di risorse dai paesi in surplus ai paesi in deficit, sotto la forma di capitali in cerca di rendimenti e, perciò, la perpetuazione degli squilibri mondiali. Con ciò era stata anche resa possibile una continua crescita della domanda mondiale, trainata dagli Usa, che, a sua volta, aveva consentito la crescita trainata dalle esportazioni di tanti paesi, asiatici ma anche europei, a cominciare dalla Germania. La crescita del valore della ricchezza finanziaria e del credito ha permesso l’espansione della domanda Usa, nonostante che gran parte dei redditi da lavoro siano rimasti costanti in termini reali per molti anni e la distribuzione del reddito sia divenuta sempre più squilibrata. Un fenomeno del genere si era verificato anche negli anni precedenti alla Grande Depressione, almeno negli Stati Uniti.
Per contrastare la crisi, gli Usa, che hanno pochi stabilizzatori automatici, hanno fatto ricorso a massicce dosi di stimolo fiscale discrezionale, il 2 per cento del Pil, al netto di quanto speso per i salvataggi bancari: il crollo della ricchezza finanziaria e il credit crunch minacciavano infatti di far crollare la domanda interna, che non poteva essere alimentata dallo smobilizzo di risparmi privati, ormai da tempo inesistenti presso il ceto medio e le classi popolari. In Europa, lo stimolo fiscale discrezionale è stato complessivamente più contenuto; il Fondo monetario internazionale lo ha di recente giudicato “nel complesso adeguato”, ma in Italia è stato quasi nullo: lo 0,2 per cento del Pil nel 2009. In Cina è stato annunciato uno stimolo di dimensioni simili a quello Usa: 2 per cento del Pil nel 2009 e nel 2010. Ma è difficile sapere in che misura la spesa effettiva corrisponderà agli annunci. Come effetto di questi interventi e della recessione, disavanzi e debiti pubblici cresceranno in tutti i paesi, e in quelli avanzati in particolare, fino a un livello massimo del rapporto debito su Pil del 140 per cento nel 2010, secondo le stime dell’Fmi. Nel marasma, una buona notizia per noi è che il differenziale tra l’Italia e i paesi europei “virtuosi” si va riducendo: mentre prima della crisi si prevedeva per il 2009 un differenziale di 40 punti tra Italia e Germania, ora si prevede un differenziale di “soli” 30 punti. Comunque abbastanza per frenare l’azione di stimolo fiscale “unilaterale” del nostro governo.

SCENARI

1 – Visto che la crisi è dovuta a squilibri internazionali, è probabile che il processo di aggiustamento spinga verso una loro riduzione. La domanda privata interna Usa si ridurrà e, con essa, le importazioni (la domanda pubblica, ammesso che compensi quella privata, dovrebbe essere meno import-intensive). Se verrà a mancare il traino Usa, sembra anche poco sensato contare sulla Cina per riavviare un modello fondato sulle esportazioni. Il Pil cinese è ancora troppo piccolo per trainare e non c’è alcuna garanzia che la Cina abbandoni, lei per prima, la via dell’export-led, che finora le è servito egregiamente.

2 – I paesi europei, presi singolarmente, sono troppo indebitati o troppo piccoli per potersi avventurare nel finanziamento in disavanzo di un volume di spesa pubblica aggiuntiva sufficiente a sostenere la domanda aggregata. Inoltre, c’è un problema di free-riding: un’espansione in un singolo paese, in un’economia fortemente integrata come quella europea, finisce per avvantaggiare soprattutto i partner commerciali, così disincentivando l’espansione stessa.

3 – Non è impossibile che gli Stati Uniti scelgano la via di un’inflazione controllata per bruciare un po’ di debito e di liquidità accumulati in questi anni. Un po’ di svalutazione del dollaro serve a riequilibrare almeno parzialmente i conti con l’estero. Ma gli Usa non possono permettersi un’eccessiva svalutazione della loro moneta se devono, come devono, continuare ad attrarre capitali dall’estero per finanziare i loro debiti interni. In Europa, la via dell’inflazione sembra comunque sbarrata dalla Bce e dalla tradizionale avversione tedesca; ma questo, a sua volta, impedisce una più coraggiosa politica di indebitamento da parte dei singoli stati membri.

4 – Non sembrano riscuotere grande consenso, né in Italia né in altri paesi europei, quelle manovre “intertemporali” che sarebbero capaci di dare credibilità al consolidamento della finanza pubblica nel medio periodo, a fronte di un più robusto stimolo fiscale oggi. Le raccomandazioni dell’Fmi e del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi vanno in quella direzione, ma rischiano di rimanere inascoltate. Sebbene i periodi di crisi siano quelli in cui sarebbe più necessario e utile fare le riforme “strutturali”, sembra che proprio in questi periodi governi nazionali siano più timorosi del solito e, perciò, incapaci di vincere le resistenze delle corporazioni.

5 – La crisi avrebbe potuto essere l’occasione per una politica più forte da parte dell’Unione Europea. Ma ciò non è avvenuto. Anche l’idea di una regolazione comune dei mercati finanziari stenta a farsi strada, nonostante le pressanti raccomandazioni degli organismi finanziari internazionali, mentre forme varie di protezionismo mascherato emergono in molti settori. L’idea stessa di mercato unico europeo è ora in difficoltà.

RISCHIO EMARGINAZIONE

Le conclusioni sono ovvie e un po’ sconfortanti. Servirebbe una politica fiscale sempre più “comunitaria” (cioè europea) e sempre meno nazionale. Una politica che, non potendo più contare sul traino delle esportazioni, insista di più su una crescita della domanda interna europea, eliminando le residue barriere agli scambi, soprattutto nei servizi, e sui grandi progetti infrastrutturali europei, provvedendo finanziamenti europei non solo simbolici, come per gli attuali progetti Ten. In questo senso vanno le proposte di molti. Peccato che sembrino di difficilissima realizzabilità. I risultati delle elezioni europee, con l’affermazione delle forze nazionalistiche e anti-europee, sono un pessimo segnale in questo senso. Eppure, non pare che ci siano molte altre possibilità, se l’obiettivo è quello di riuscire presto “a riveder le stelle”. Altrimenti, la progressiva emarginazione dalla storia dell’Europa, e con essa dell’Italia, sembra un rischio molto concreto.

(1) Imf, World Economic Outlook, aprile 2009.

NON SI VEDE LA FINE DELLA CRISI

vedi-meglio

IL MALE DELL’ITALIA

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IL PESSIMO PILOTA GEORGE W. BUSH HA CREATO IL DISASTRO:
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