Turismo (che diminuisce ogni anno) in Sardistan: una pizza a portar via, scrausa, 7 euro!

Un amico è andato l’altra sera a prendere una pizza margherita con capperi a un locale senza pretese appena fuori Olbia, la Porta Smeralda. C’erano 10 clienti, ma ha aspettato 35 minuti e ha visto alcuni gruppi di stranieri che entravano, guardavano i prezzi, e scappavano borbottando. Non solo, ma hanno il menu esclusivamente in italiano e un cameriere (o forse il gestore) che parla a malapena la nostra lingua e bestemmia un inglese fatto di tre parole pronunciate malissimo. 7 euro una cagatina che anche buona a Olbia la mangi seduto per 5 euro! E poi si lamentano che c’è poca gente. Voi non avete idea di quanto io disprezzi questi sciacalli che stanno finendo il lavoro di devastazione cominciato dal mafionano.

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Mafia, pasta connection: 5000 ristoranti in mano ai boss

A Roma e Milano un locale su 5 è della mafia. Se ci fosse una contabilità unica, si scoprirebbe che i clan possiedono una holding dal 16 mila addetti. Pagamento in contanti, pochi tavoli occupati: è la formula che permette di evitare i controlli
di ENRICO BELLAVIA

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È LA più grande catena di ristoranti in Italia, conta almeno 5 mila locali, 16 mila addetti, e fattura più di un miliardo di euro l’anno. Non ha un marchio unico e i proprietari sono diversi. È la catena dei ristoranti dei boss. Spuntano lontano dai territori tradizionali, compaiono dietro marchi prestigiosi, hanno bilanci sempre in attivo. Gigantesche lavanderie alla luce del sole dei capitali del narcotraffico. Tutti insieme costituiscono una holding che ha dieci volte i ricavi del gruppo Sebeto (Rossopomodoro e Anima e Cozze), incassa 15 volte di più dei Fratelli La Bufala e un quinto di un colosso internazionale come Autogrill, che però di insegne ne ha 5.300 in 42 Paesi. Ma perché proprio i ristoranti? In che modo costituiscono un canale di riciclaggio? Quali sono i sistemi utilizzati?

LA PRESENZA DEI BOSS
Da Roma a Milano, passando per la Toscana, l’Emilia, la Liguria, non c’è indagine recente sulla presenza dei clan dalla quale non salti fuori il nome di un ritrovo alla moda creato dal nulla o ristrutturato senza badare a spese per portare a galla il denaro sporco delle cosche in un vortice di cambi societari, di insegne che hanno stravolto uno dei comparti più celebrati dell’economia del Belpaese, attanagliato da una morsa criminale che – stima Enzo Ciconte, già presidente dell’Osservatorio sulla legalità del Lazio – “assoggetta complessivamente il 15 per cento dell’intero settore”.

Nelle città più grandi, Roma e Milano, si calcola che un locale su cinque sia nell’orbita dei boss. I Piromalli della Piana di Gioia Tauro a Roma e sul Garda, i Coco Trovato da Catanzaro tra Lecco e la Madonnina, i Papalia di Platì sotto al Duomo, gli Iovine, i Bidognetti e gli Schiavone da San Cipriano d’Aversa e Casal di Principe a Campo de Fiori, a Ostia o a Fimicino come a Modena. Gli Arena da Isola Capo Rizzato in Romagna, forti di una radicata presenza nel settore turistico-alberghiero. I Pesce-Bellocco di Rosarno e poi gli Alvaro di Sinopoli nel cuore della Dolce Vita romana. I Morabito da Africo a dettar legge all’Ortomercato di Milano dove Salvatore, il nipote di Giuseppe, ‘u tiradritto, entrava in Ferrari esibendo un regolare pass da facchino. E lì si era fatto autorizzare il “For the King”, un night che era il suo ufficio di rappresentanza nel cuore della Wall Street – 3 miloni di euro al giorno – della frutta e verdura italiana.
Clan che si fanno la guerra in Calabria si ritrovano soci in affari a migliaia di chilometri. E negli affari alimentari si mischiano obbedienze diverse. In un locale di Brera, gestito da calabresi, era di casa il figlio di Tanino Fidanzati, il siciliano re della droga milanese. I Caruana da Siculiana, in provincia di Agrigento, con base a Ostia, si erano spinti a Chioggia, per trattare un complesso turistico. Nel litorale laziale, il boss Carmine Fasciani era in affari con i napoletani, gestendo il “Faber Village” e un ristorante. È questa la nuova frontiera di una mafia che non conosce confini. “La quinta mafia”, la definisce Libera.

Nella capitale lavorava Candeloro Parrello, boss di Palmi, che nel portafoglio delle sue attività sequestrate, per un totale di 130 milioni, aveva “La Veranda” a Fiano Romano e uno stabilimento balneare a Punta Ala in provincia di Grosseto. Dalla pizzeria “Bio Solaire” di via Valtellina a Milano, di cui era socio occulto, Vincenzo Falzetta amministrava gli affari di Francesco Coco Trovato che all’Idroscalo aveva impiantato il “Cafè Solaire”. I Molè che con i Piromalli controllavano i container cinesi al porto di Gioia Tauro avevano invece individuato nel complesso di “Villa Vecchia”, hotel storico con due ristoranti a Monteporzio Catone un ottimo investimento per far fruttare una fetta dei 50 milioni a disposizione. A curare l’affare era Cosimo Virgiglio, titolare di una ditta di import-export. L’hotel era diventato la base del clan e quando i vecchi proprietari avevano provato a protestare, Virgiglio aveva provveduto a farli sloggiare nottetempo. Nino Molè, erede di Rocco ucciso nel 2008, per dire alla fidanzata che lì era ormai tutto della famiglia, spiegava: “Tu mangi la pasta gratis”.

DOVE C’E’ PIZZA C’E’ MAFIA
“Dove c’è pizza c’è mafia”, ha sostenuto un dei pochi pentiti calabresi all’indomani della strage di Duisburg, che rivelò al mondo quanto la Germania che mangiava italiano fosse infestata dal bubbone. Lo aveva intuito negli anni Ottanta anche Giovanni Falcone indagando sulla Pizza Connection. Il sistema però si è evoluto. Come mai i boss si interessano sempre di più ai ristoranti? Una premessa è d’obbligo: tra i tavoli gira normalmente molto contante. Una condizione essenziale per non lasciare tracce. I pagamenti elettronici, al contrario, sono facilmente riscontrabili, costituiscono uno degli strumenti per la cosiddetta tracciabilità del denaro. Ecco perché tra le attività commerciali i locali pubblici sono quelli più ambiti, complice quella che Lino Stoppa, presidente della Fipe, la federazione dei pubblici esercizi, chiama “liberalizzazione di fatto”.

Il flusso di contante è la condizione essenziale sia per chi investe in attività ad alto rendimento sia per chi, invece, è a caccia solo di un paravento. Alla “Rampa”, il locale di Trinità dei Monti che la magistratura romana voleva sequestrare perché ritenuto di proprietà dei Pelle-Vottari di San Luca in Aspromonte, la prima cosa che notarono i finanzieri incaricati delle indagini è che non si accettavano carte di credito e lo scrissero nel loro rapporto. La Rampa, anche per via della posizione, ha sempre avuto una folta clientela, ma ci sono ristoranti acquistati per milioni, rimessi totalmente a nuovo eppure drammaticamente deserti. Posti in cui non entra mai nessuno. Ma le luci rimangono accese fino a tardi e il personale è sempre presente. A che servono quei locali fantasma? Primo, per giustificare lavori edili e acquisti di arredi ampiamente sovrastimati, pagamenti di merce mai acquistata che nessuno ha mai veramente consegnato e di piatti che non sono stati cucinati. Quei locali servono a far girare pezzi di carta. Per far affiorare soldi che erano già nel cassetto. Chi li gestisce non ne ha alcun bisogno: sono solo una copertura per introiti altrimenti ingiustificabili. Il sistema funziona a prescindere dal numero effettivo di clienti. E naturalmente è ampiamente praticato da chi riempie i coperti per davvero ma può moltiplicarli.

In un caso o nell’altro, il ristorante è il terminale di una filiera alimentare: dai prodotti della terra alle carni, dalle mozzarelle al caffè. E il giro di fatture parte da lontano. Dalla produzione, al trasporto, dallo smistamento alla vendita. Un sistema economico parallelo fittizio o sovrastimato. “Negli ortomercati e nella grande distribuzione c’è il cuore dell’interesse delle mafie che si spinge fino ai ristoranti”, dice l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione.

Il fisco diventa un costo necessario per far tornare in circuito il denaro sporco, ma presenta dei vantaggi. Costa meno di quel 30 per cento che in media tengono le agenzie che a livello internazionale si occupano di occultare il denaro delle mafie ed è ampiamente recuperabile con altri artifizi contabili. E poi è a rischio zero: “Non esiste l’autoriciclaggio”, sottolinea Maurizio De Lucia, pm della Direzione nazionale antimafia.

LE FAMIGLIE IN CUCINA
Quasi mai i boss compaiono direttamente nella gestione delle attività. Usano i prestanome e difficilmente tengono un’insegna a lungo. Scelgono come forma giuridica le società, comprano e vendono rapidamente. Sbaraccano e ricominciano da un’altra parte. “Un turn over frenetico” che è più di una spia di inquinamento, fa notare Lorenzo Frigerio di Libera Lombardia. Ogni anno aprono 2.000 nuovi ristoranti e le società sono in numero doppio rispetto a quelle che chiudono i battenti.

I boss si fidano solo di mogli e figli. Ma qui confidano nella oggettiva difficoltà delle indagini, nella farraginosità della procedura, nelle lungaggini di un processo che parte largo con i sequestri e finisce nell’imbuto strettissimo delle effettive confische. Ai parenti prossimi è riservata la porzione meno fragile di quella costruzione. Salvata quella il meccanismo si autorigenera e la prima attività commerciale “pulita” può giustificare successive acquisizioni. Fino a nuove indagini. “Ormai – dice Alberto Nobili, memoria storica della procura di Milano – arrestiamo i nipoti dei capimafia degli anni Ottanta”.

Ma come entra un clan nel mondo della ristorazione? L’acquisto è solo una delle forme. Lontano dai territori del Sud dove l’usura è praticata ma sotto traccia anche dove, come in Sicilia con Cosa nostra, è espressamente vietata agli uomini d’onore, i boss usano il prestito come forma di finanziamento di attività fino a quel momento perfettamente legali. Il boss sostiene i conti del ristorante e punta a prendersi tutto, magari lasciando il vecchio proprietario come intestatario senza potere e senza soldi. Era la specialità del clan di Biagio Crisafulli che aveva base a Quarto Oggiaro e alla Comasina a Milano. È Accaduto ad Amelia, in provincia di Terni dove il clan calabrese dei Marando aveva acquisito per un credito da 50 mila euro il 50 per cento del “Parco degli Ulivi”. Era accaduto al ristoratore Nino Istrice a Palermo che si era fatto aiutare dal boss Salvatore Cocuzza. Il rischio di esproprio per usura è in cima alle preoccupazioni dei ristoratori romani e i dati sul turnover delle aziende confermano i timori. A Roma interessa 26 mila commercianti, alle prese con 3 mila istanze di fallimento ogni anno.

Per Vincenzo Conticello, il titolare della “Antica focacceria San Francesco” di Palermo, che ha denunciato gli estorsori in un drammatico confronto d’aula cominciò tutto, non diversamente che per i ristoratori campani, con una fornitura di mozzarelle. Il grossista era il rampollo del boss Masino Spadaro. Del resto l’ultima indagine sul racket nel capoluogo siciliano ha svelato come l’imposizione di un marchio di caffè fosse una moderna testa d’ariete per entrare nelle aziende.

DALLA VERANDA AL CAFE’ DE PARIS
A Napoli quasi non fa sensazione che Giuseppe Setola, il capo degli stragisti casalesi si sia impadronito della “Taverna del Giullare” in piazza dei Martiri. O che Carmine Cerrato, a capo degli scissionisti di Scampia avesse a disposizione per i summit l’ex “Etoile” chiuso al pubblico. E Palermo non si è certo sorpresa quando i Graviano volevano comprarsi “La Cuba”, uno dei locali più in della città, né quando Provenzano ha fatto capolino dietro la proprietà di un resort sulle Madonie con cantina d’eccellenza. Roma invece ebbe un sussulto quando l’anno scorso Ros e Scico e le Procure di Reggio Calabria e Roma scoprirono che il “Cafè de Paris” di via Veneto, dopo un periodo di declino, era finito nelle mani del clan alleato degli Alvaro-Palamara di Sinipoli e Cosoleto: gli avevano piazzato un barbiere calabrese come manager. Ma l’acquisto del Cafè de Paris non era che il coronamento di un’architettura finanziaria, una scalata da 200 milioni di euro costruita con cura a partire dal 2001.

Era cominciato tutto quando Vincenzo Alvaro, figlio di Nicola che aveva ereditato il bastone del comando a Cosoleto, e la moglie Grazia Palamara si era stabilito a Roma per scontare il divieto di soggiorno in Calabria facendosi assumere come aiuto cuoco da un cugino al “Bar California” di via Bissolati, a una manciata di metri da via Veneto. In sette anni Vincenzo Alvaro ha chiuso accordi che gli garantivano il controllo di sei bar e tre ristoranti. È al California che fa la sua comparsa Damiano Villari, un barbiere di Sant’Eufemia di Aspromonte che ha un reddito da 15 mila euro e conclude per 2,2 milioni di euro l’acquisto del Cafè de Paris, dopo aver comprato anche l’esclusivo “George’s” di via Sicilia: un affare da 1 milione di euro. Oggi il George’s è chiuso. Un cartello avverte di rivolgersi alla portineria vicina. Dove ricordano ancora la folla di auto di lusso che intasavano la strada all’ora dell’aperitivo. Il California è ancora aperto, lo gestisce un amministratore giudiziario. Alla cassa c’è un giovane calabrese che non vuol dire il nome, non conosce Grazia Palamara e Vincenzo Alvaro e dice di non aver visto mai Damiano Villari. Racconta che il bar è di un certo suo cugino calabrese, “persona che si alza alle 4 del mattino”. Sostiene che il bar gli sarà restituito. “Sta finendo, sta finendo”, ripete scrollando le spalle. La pensa così anche l’egiziano che serve compito ai tavoli del Cafè de Paris: “Finirà presto, con i proprietari si stava meglio. Loro sì che hanno i soldi”.

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Buongiorno a tutti!

Bentrovati, amigos. Siamo andati con Gianni e Santa (gli amici di Imperia) a prendere cozze e calamari. Messe le cozze in acqua salata in frigo e innaffiato la scalinata del giardino, siamo qui a vedere cosa succede nel mondo. L’altra sera qui c’è stata una grande manifestazione organizzata dal

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Er magnaccione

Da Repubblica

La nota del premier dopo le rivelazioni su un’inchiesta della
procura di Bari che indaga per induzione alla prostituzione

Berlusconi, nuovo attacco ai giornali
“Spazzatura, non mi condizionerà”
In alcune intercettazioni imprenditori parlerebbero di soldi versati a ragazze
per partecipare a feste nelle abitazioni sarde e romane del presidente del Consiglio

Silvio Berlusconi

b-magnaccia

ROMA – “Ancora una volta si riempiono i giornali di spazzatura e di falsità. Io non mi farò certo condizionare da queste aggressioni e continuerò a lavorare, come sempre, per il bene del Paese”. Questa volta a far arrabbiare Silvio Berlusconi, che in una dichiarazione diffusa oggi attacca nuovamente la stampa, è il Corriere della Sera, con le notizie, riportate in prima pagina, sull’inchiesta della procura di Bari relativa ad appalti nel settore sanità concessi in cambio di mazzette, con intercettazioni nelle quali alcuni imprenditori coinvolti parlerebbero di soldi versati a ragazze per partecipare a feste nelle abitazioni romane e sarde di Silvio Berlusconi.

Il titolare di un’azienda, la Tecnhospital – società barese che si occupa della fornitura di tecnologie ospedaliere, su cui la procura indaga per stabilire se sia stata favorita negli appalti – avrebbe avuto rapporti con Berlusconi nel corso degli anni, riferisce il Corriere. E in alcuni colloqui telefonici, l’imprenditore avrebbe parlato delle feste, cui era invitato del premier, e avrebbe tenuti i contatti con ragazze che venivano invitate a partecipare a questi eventi nelle residenze di Berlusconi, con riferimenti anche al versamento di soldi a quelle che decidevano di andare, tutti da verificare.

Il quotidiano intervista inoltre una ragazza, Patrizia D’Addario, che racconta (sostenendo di avere registrazioni che lo provano) di aver ottenuto denaro e una candidatura alle elezioni baresi dopo due feste a palazzo Grazioli. La D’Addario, candidato consigliere comunale per la lista “La Puglia prima di tutto”, che appoggia il candidato sindaco del Pdl Di Cagno Abbrescia, dice di poter provare la sua presenza a Palazzo Grazioli. Una delle due occasioni fu la sera dell’elezione di Barack Obama.

Dice poi di essere stata pagata per andare a Roma e di aver incontrato il premier insieme ad altre ragazze. “Un mio amico di Bari mi ha detto che voleva farmi parlare con una persona che conosceva, per partecipare ad una cena che si sarebbe svolta a Roma. Io gli ho spiegato che per muovermi avrebbero dovuto pagarmi e ci siamo accordati per 2.000 euro. Allora mi ha presentato un certo Giampaolo”, dice la D’Addario. Arrivata a Roma, sostiene di essere stata prelevata da un autista e portata da Giampaolo. “Con lui e altre due ragazze siamo entrati a Palazzo Grazioli in una macchina coi vetri oscurati. Mi avevano detto che il mio nome era Alessia”, racconta ancora al Corriere. Poi “siamo state portate in un grande salone e lì abbiamo trovato tante ragazze, saranno state una ventina. Come antipasto c’erano pezzi di pizza e champagne. Dopo poco è arrivato Silvio Berlusconi”. La D’Addario dice di aver ricevuto solo 1.000 euro dei 2.000 pattuiti “perché non ero rimasta”.

La seconda volta, invece, sostiene di essersi trattenuta. “E’ stato sempre Giampaolo a organizzare tutto… Con l’autista ci ha portato nella residenza del presidente, ma quella sera non c’erano altre ospiti. Abbiamo trovato un buffet di dolci e il solito pianista. Quando mi ha visto Berlusconi si è subito ricordato del progetto edilizio che volevo realizzare”, di cui avevano discusso la volta precedente, secondo quanto riferisce. “Poi mi ha chiesto di rimanere”, racconta.

Intanto, fonti ufficiose della Procura di Bari confermano che è in corso un’indagine per induzione alla prostituzione in luoghi esclusivi di Roma e della Sardegna. L’inchiesta, che coinvolge i responsabili della Technospital, Gianpaolo Tarantini ed il fratello Claudio, sarebbe scaturita da elementi acquisiti nell’ambito di accertamenti per presunti episodi di corruzione relativi a forniture di protesi.

Nell’inchiesta si ipotizza che l’imprenditore abbia contattato e inviato in residenze private alcune ragazze. Il titolare delle indagini è il pm Giuseppe Scelsi, che nell’inchiesta originaria ipotizza i reati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Queste ipotesi criminose vengono contestate ai due imprenditori in concorso con Silvia Tatò, titolare di alcuni centri di riabilitazione, e a Vincenzo Patella, primario di ortopedia del Policlinico di Bari.

Dal Corriere

I misteri, i sospetti e le intercettazioni dell’inchiesta di Bari
Un imprenditore pugliese al telefono parla di feste con le ragazze dal premier

Appalti nel settore della sanità concessi in cambio di mazzette. Sarebbe questa l’inchiesta che agita e rafforza l’idea del «complotto» nell’entourage del presidente del Consiglio. Nel corso dell’indagine sarebbero state infatti intercettate conversazioni che riguardano alcune feste organizzate a palazzo Grazioli e a Villa Certosa. E i personaggi coinvolti avrebbero fatto cenno al versamento di soldi alle ragazze invitate a partecipare a queste occasioni mondane. Gli accertamenti su questo fronte sono appena all’inizio, ma le voci corrono velocemente.

Dunque non si esclude che possa essere proprio questa la «scossa al gover­no» della quale ha parlato domenica scorsa Massimo D’Alema per invitare l’op­posizione «a tenersi pron­ta». Del resto due giorni fa era stato lo stesso ministro per i Rapporti con le Regio­ni, Raffaele Fitto, pugliese doc, a chiedere con una di­chiarazione pubblica a qua­li informazioni avesse avu­to accesso D’Alema, paven­tando così il sospetto che si riferisse proprio ad un’in­dagine condotta a Bari. Gli accertamenti sono stati avviati qualche mese fa e riguardano l’attività di un’azienda, la Tecnohospi­tal che si occupa – come è ben evidenziato anche nel suo sito internet – di «tec­nologie ospedaliere». A gui­darla sono due fratelli, Giampaolo e Claudio Taran­tini, che qui in città sono molto conosciuti. Impren­ditori che nel giro di pochi anni hanno fatto crescere la propria azienda fino ad ottenere numerose com­messe.

Ed è proprio su que­sto che gli ufficiali della Guardia di Finanza hanno cominciato a svolgere veri­fiche. L’obiettivo è quello di stabilire se la ditta sia sta­ta favorita negli appalti, da qui l’ipotesi investigativa di corruzione. Giampaolo è noto anche a Porto Rotondo, dove tra­scorre le estati in una splen­dida dimora che si trova non troppo distante da Vil­la Certosa. Con Silvio Berlu­sconi avrebbe avuto rap­porti nel corso degli anni. E sarebbe proprio lui ad avere parlato, durante alcu­ni colloqui telefonici, delle feste alle quali era stato in­vitato dal premier. In particolare sarebbero stati captati diversi contat­ti con ragazze che veniva­no invitate a recarsi nelle residenze di Berlusconi per partecipare a questi eventi.

A suscitare l’interesse dei magistrati è stato il riferi­mento al versamento di sol­di alle donne che accettava­no di partecipare. Bisogna infatti verificare se si tratti di una millanteria o se inve­ce possano esserci stati epi­sodi di induzione alla pro­stituzione. Gli accertamen­ti su questo aspetto dell’in­chiesta sono appena all’ini­zio. Si parla di alcune ragaz­ze che sarebbero state con­vocate in Procura come per­sone informate sui fatti, ma nulla si sa sull’esito di questi interrogatori. Si tratta comunque di una inchiesta destinata a far rumore e infatti dopo la sortita di Massimo D’Ale­ma si sono rincorse voci e indiscrezioni sulla possibi­lità che l’indagine potesse avere sviluppi immediati. Un’inchiesta che però ali­menta i sospetti denunciati dal Cavaliere in questi gior­ni di tentativi giudiziari di indebolirlo.

Fiorenza Sarzanini

°°° Ma quali falsità?! L’unico falso, ipocrita, malavitoso, pericoloso e dittatore è proprio lui: lo gnomo malato silvio burlesuoni! E certo che, uno che ha trascorso l’intera miserabile vita nel malaffare e al di fuori da tutte le leggi, HA PAURA DELLE INTERCETTAZIONI! Altro che privacy… Ora sapete che succede? Il lodo alfano verrà spazzato via dalla Corte Costituzionale, mafiolo verrà condannato per corruzione giudiziaria (Mills), verrà processato per corruzione di minorenne e istigazione alla prostituzione (visto che è tutto provato e documentato) e… finalmente farà l’ingloriosa fine che merita. E noi ce lo saremo finalmente levato dai coglioni. EWWIWA!!!

OSPITI PREZZOLATE E FESTINI A VILLA CERTOSA

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La stampa oggi… deprimente

Apri i giornali e vedi che esistono ancora i pirati. E rapiscono marinai italiani! Ma dove cazzo sono Tremal-Najk e Sandokan? Ma chi l’ha scritto questo film nel 2009? Ma soprattutto: chi cazzo ha messo due ebeti come burlesquoni e frattini al posto degli eroi della mia gioventù?
Una coppia di spostati tedeschi, pure giovani, va ad Aosta a mangiare la pizza… come il mondo sa, è ad Aosta che si deve mangiare la pizza. A Napoli, semmai, ci vai per gustare la fonduta… accompagnato da Apicella che fa tintinnare il suo sonaglio. PerBach! Lo sanno tutti. Ma questi due non vanno da soli, naaaaa: ci vanno coi tre figlioletti di lei. Dice la mammina: «Non potevamo sfamarli, così li ho abbandonati». Giustamente. Mica da un ciabattino, li hanno mollati in una fornita pizzeria! Poi, dicono “Usciamo a fumare” e spariscono. Non hanno pagato il conto, ma hanno lasciato una sontuosa mancia: tre bambini! Potevano farsi dare il resto in capperi e acciughe. Mollano i bambini e scappano. E come scappano? Con un’Apixedda!!! Minca. Bonnie & Clyde si staranno rivoltando nella tomba. Ibra vuole mollare l’Inter: “Voglio provare qualcosa di nuovo” dice. E c’è bisogno di scappare? Trombati la de filippi e il suo moglio: come fanno tutti quelli che vogliono fare carriera in tv e al festival di Sanscemo e non rompere i coglioni all’uomo moderno!
Marchionne litiga col commissario Ue, Verheugen… Ma come cazzo fai a litigare con uno che si chiama come una minaccia pesante?! Quello, già come si presenta: TI SPETTINA!
Minorenne ucciso, in due in manette:
«Accoltellato e sepolto in giardino»
Due italiani hanno ucciso malamente questo ragazzo croato e sono stati arrestati. Giustamente. Primo, perché non sono rumeni. Secondo, perché hanno seppellito la vittima in giardino. Ben gli sta! Se lo seppellivano in salotto, non li avrebbero mai presi. Certo… sarebbe stato un lavoraccio: smontare il pavimento in cotto, scavare, seppellire, riptistinare le mattonelle, pulire, lucidare… No, no. Meglio che li abbiano catturati. Almeno si riposano.
Ancora sangue e attentati in Iraq:
bombe in una moschea, 60 morti

Muoiono come le moschee in quel cazzo di Iraq. E poi l’assassino era Saddam…
Ma anche in Abruzzo non scherzano: Nuove scosse Grasso: vigilare sulla ricostruzione. Speriamo che non ricostruiscano come avevano costruito. Magari finisce di crollare tutto in pieno G20 e speriamo che burlesquoni venga beccato dai crolli senza il casco da scemo. Almeno gli sfollati saranno in pari. E l’Italia si potrà finalmente rialzare.
Napolitano, nuova difesa della Carta «Resistenza vive nella Costituzione»
Beh, bossi e burlesquoni ci si puliscono il culo con la bandiera, figuriamoci con la Carta. Ma che vuoi difendere? Riempila di vetrini!
A Vigevano, sacrestano con svastica, la diocesi: pronti ad agire.
Ad agire come? Deporteranno a Dachau tutti i bigotti?
A Frosinone, Ragazzino si lancia da una finestra
della sua scuola al terzo piano: morto. Morto? Cazzo… strano!
E pensare che fino a un metro dal suolo non si era fatto un cazzo.

Amici, e questo era solamente il Corriere della serva!!! Ma come cazzo li fanno i titoli questi qui?

titolisti1

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