Se permettete…

E ora la procura indaga
anche sulle feste a Cortina
«Undici anni fa mio padre si è ucciso perché non riusciva a portare a termine il progetto del residence»

Patrizia D’Addario (Rocco De Benedictis)
PATRIZIA D'ADDARIO

BARI — La replica di Patrizia D’Addario all’accusa del premier di essere stata «mandata e retribuita» è secca: «Smentisco che ciò sia accaduto. Qualora l’onorevole Berlusconi sia in possesso della minima prova a sostegno della sua affermazione, lo invito a volerla trasmettere all’autorità giudiziaria. Se così non fosse vorrei pregarlo di astenersi da simili affermazioni». Reagisce duro la donna. Dopo essere rimasta «blindata» per una settimana, consapevole che ogni sua mossa sarebbe stata controllata e analizzata parla per rispondere «a frasi infamanti». E la rabbia monta «perché le altre si spacciano per ragazze-immagine e prendono soldi, mentre io che ho soltanto raccontato la verità vengo massacrata». C’è soprattutto un punto che Patrizia ribadisce: «Non sono stata io a presentare una denuncia. Il magistrato mi ha convocata perché voleva sapere che rapporti avessi con Gianpaolo e se lui mi avesse portata a palazzo Grazioli. È stato in quel momento che ho deciso di ammettere quanto appariva già evidente».

Il pubblico ministero aveva infatti ascoltato centinaia di conversazioni telefoniche dell’imprenditore barese che ingaggiava squillo da portare a feste e vacanze a Roma e a Villa Certosa in Sardegna. E lei, che in quei colloqui compare spesso, è stata chiamata come testimone. Non nega Patrizia di aver maturato in questi mesi risentimento nei confronti del premier «ma solo perché sono stata ingannata. La seconda volta che l’ho visto, quando ho trascorso la notte con lui, non ho preso soldi: mi sono fidata della sua promessa di aiutarmi a costruire il residence sul terreno della mia famiglia. È il cruccio della mia vita perché mio padre si è ucciso quando ha capito che non sarebbe riuscito a portare a termine quel progetto. Ci aveva investito tutti i suoi soldi, pur di realizzarlo aveva accumulato debiti. Undici anni fa, quando era ormai sull’orlo del fallimento, si è suicidato».

L’inchiesta della Procura di Bari va avanti e trova nuove conferme. Alcune ragazze hanno ammesso quanto emergeva già dalle intercettazioni: fine settimana trascorsi a Cortina in compagnia di facoltosi clienti nelle suite di alberghi di lusso oppure nella villa di un noto industriale. E soprattutto hanno confermato il ruolo di un «mediatore» che avrebbe aiutato Tarantini a organizzare le trasferte. Si chiama Max ed è l’uomo che gli ha presentato Patrizia. Nelle audiocassette che la donna ha consegnato due giorni fa, la voce di Max è stata registrata più volte. A metà ottobre 2008 fu lui a dirle che c’era una festa a Roma e poi la portò da Gianpaolo. L’accordo fu chiuso in meno di un’ora: «2.000 euro per una cena da Berlusconi», anche se poi Patrizia ne prese «soltanto 1.000 perché non ero rimasta». Max era ospite nella villa di Tarantini durante la vacanza in Sardegna nell’estate dello scorso anno e a metà agosto partecipò con lui alla cena per una sessantina di invitati a Villa Certosa. Portarono un gruppo di amici e lì trovarono Sabina Began, la donna ritenuta molto vicina al presidente del Consiglio che gli avrebbe presentato l’imprenditore barese. Un vorticoso giro di eventi mondani nel quale Patrizia è stata coinvolta e che adesso ha contribuito a svelare. «Sapevo che mi avrebbero accusata delle peggiori nefandezze — chiarisce — ma io sono inattaccabile perché ho sempre detto la verità e infatti Berlusconi non può negare le circostanze che ho rivelato. Io non sono in cerca di successo. Avevo soltanto chiesto un aiuto per finire la costruzione di quel residence. I ritardi mi hanno costretto a pagare un mutuo altissimo».

La donna — che il Pdl ha candidato alle elezioni comunali con la lista «La Puglia prima di tutto» — spiega che «tutti erano a conoscenza di quello che facevo per mantenere la mia famiglia, visto che da quando mio padre non c’è più sono io ad occuparmi di mia madre, oltre che di mia figlia. E se ho deciso di raccontare la verità l’ho fatto anche per loro. Ero stata chiamata dal magistrato e volevo che non ci fossero ombre. In questi mesi Tarantini mi ha chiesto più volte di tornare a Roma, gli ho detto di no perché il patto non era stato mantenuto. Lui sapeva che avevo le prove degli incontri e quando casa mia è stata svaligiata ho cominciato ad avere paura. Ho capito che non dovevo nascondere nulla di quanto era accaduto».

Fiorenza Sarzanini
24 giugno 2009

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°°° Se permettete, amici, tra una ragazza coraggiosa che ammette di fare un mestiere non proprio invidiato: pur sapendo di attirarsi contro le ire del farabutto più potente d’Italia, e uno dei più grandi cazzari della Storia del mondo… beh, mi sembra evidente che credo fino all’ultima virgola di ciò che dice Patrizia. Conosco sulla mia pelle i metodi di Mafiolo. Patrizia D’Addario svetta in questo confronto mille anni luce avanti. Il Cavaliere (de ‘stogazzo) è sempre più patetico: pensate che a un attacco del Guardian (uno dei più prestigiosi quotidiani del mondo) replica con un’intervistina fasulla a “Chi”… Questo è il livello, gente!

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L’Aquila

Amici, ciò che ho capito io finora, nella confusione fatta ad arte dal regimetto inefficiente e pasticcione, è che NULLA E’ STATO ANCORA FATTO. I poveri terremotati prima morivano di freddo nelle tende e ora muoiono di caldo, ma a Mafiolo che gli frega? Lui ha sparato le sue minchiate per i soliti polli e poi, fottuti i voti, è sparito. Le tende sono malsane, erano pronte migliaia di roulottes, ma al premier non piacciono e quindi… manco ci dovesse vivere lui! Ma la roulotte è mille volte più sana e vivibile di una tenda. Col turismo in mano alla Brambilla, gli albergatori della costa possono stare tranquilli: non verranno disturbati dai flussi dei vacanzieri e quindi potranno tenere ad libitum gli sfollati. Gli unici soldi a disposizione sono i 480 milioni arrivati dalla UE e le uniche casette già in loco sono CINQUE casette di legno arrivate dalla Sardegna e pagate con soldini nostri. Il sedicente “governo” ha impiegato tre giorni per rendere effettivo il LODO ALFANO e a quasi TRE MESI dal terremoto ancora NON HA FATTO UN CAZZO. Mi basta questo per avvalorare sempre più il mio disprezzo per questi delinquenti.

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Da Travaglio

Il reality show

Sui siti internet c’è da tempo una rubrica fissa dedicata ai «cappelli di Berlusconi». È una photogallery con le immagini del premier-pompiere, del premier-esploratore-artico, del premier-cow boy, del premier-giocatore-di-baseball etc etc. Ieri s’è aggiunta quella del premier-cuoco-delle-tendopoli. E presto la galleria sarà arricchita da un premier-primo-ufficiale nelle crociere sul Mediterraneo che ieri ha promesso ai terremotati abruzzesi. Sono cose che succedono qua da noi, a Berlusconistan, come la nostra povera Italia è stata appena ribattezzata dal Time.

La rubrica sui cappelli è nata da un’evoluzione di quella sui capelli, con una p, che fu inaugurata dallo storico trapianto del 2004 e dalla conseguente bandana che, per la gioia della famiglia Blair, andò a coprire i follicoli in fiore. Sono passati appena cinque anni, ma sembrano mille. La bandana creò un po’ di stupore. Oggi il premier potrebbe sistemarsi sul cranio la Nike di Samotracia o Mara Carfagna o, perché no?, Fabrizio Cicchitto e pochi ci farebbero caso.
Il travisamento è la condizione ordinaria del presidente dello Stato libero di Berlusconistan. A volte è fisico, ed ecco i cappelli, i capelli, il cerone e i tacchi a spillo, altre volte si estende all’intera realtà che lo circonda e, ahìnoi, ci circonda. A volte ha la funzione di nasconderla, la realtà, altre di obbligarci a distogliere lo sguardo da essa per rivolgerlo altrove. Scoppia il penoso caso-Noemi ed ecco un furibondo attacco al Parlamento, ai giudici, alla moglie e al composito fronte della «stampa comunista»: da Famiglia Cristiana al Financial Times. La crisi economica divampa ed eccolo – il giorno in cui il governatore della Banca d’Italia nella sua relazione annuale dà le cifre di un’autentica catastrofe – tra le consuete macerie abruzzesi. È un po’ nervoso. Forse teme che qualcuno, tra la folla, possa gridare qualcosa di inopportuno. Chissà. Fatto sta che sferra un attacco preventivo alla magistratura «eversiva» che vuole «cambiare il voto popolare». A cosa si riferisce? Niente. Riprende il controllo, cambia maschera. Ed ecco il cappello da cuoco e le promesse a vanvera. Gli allegri campeggiatori abruzzesi potranno proseguire la vacanza sul mare. Già, andranno in crociera. Sul Titanic.

Le cifre del naufragio parlano di una disoccupazione destinata a superare il 10 per cento. Di due milioni di precari che a fine anno resteranno senza lavoro. Di un milione e 600mila lavoratori che non avranno alcun sostegno se perderanno il posto. Di altri 800mila che devono sopravvivere con 500 euro al mese. E parlano, sia pure con molta prudenza, dell’inadeguatezza di una politica economica che ha trascurato le prime e più fragili vittime della crisi: i lavoratori precari e le piccole imprese.
Com’era naturale, il premier si è detto soddisfatto. Ha definito il discorso del governatore «molto berlusconiano». E subito dopo è rientrato nel camerino per preparare la prossima puntata di quello che l’organo del Partito comunista americano, il New York Times, ieri ha definito «un reality show».

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ELIO e le storie… inventate

il padre della diciottenne racconta a Il Mattino come è nata l’amicizia
Il padre di Noemi: «Ecco come
ho conosciuto Silvio Berlusconi»
Don Sciortino (Famiglia Cristiana): «Non si può rappresentare il popolo col velinismo»

Noemi Letizia
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ROMA – Una stretta di mano al presidente del Milan, e una serie di contatti in occasioni pubbliche, fino alla lettera «accorata» del premier alla famiglia Letizia, che perse tragicamente un figlio di 19 anni, nel 2001: il padre di Noemi -la ragazza di 18 anni al centro dell’attenzione in questi giorni per la sua conoscenza con il presidente del consiglio-, Benedetto (detto Elio), racconta al quotidiano Il Mattino la storia del legame con Silvio Berlusconi: «A Roma, era il 1990, lui era presidente del Milan, ancora non era in politica. Lo vidi, mi avvicinai e gli strinsi la mano, nulla di più». La vera conoscenza ci fu a Napoli nel 2001: «Era maggio, in piazza del Plebiscito, c’era un comizio con Berlusconi e Fini». Letizia andò a cena all’Hotel Vesuvio, dove era ospite, appunto, il premier: «Sapevo che gli piacevano libri e cartoline antiche. La mia era e resta una famiglia di librai. Mi avvicinai e chiesi se potevo portargli in dono delle cartoline antiche. Mi disse di prendere contatti con la segreteria attraverso una guardia del corpo, e così feci».

LA MORTE DEL PICCOLO YURI – Nel luglio 2001, la famiglia Letizia fu colpita dalla morte di Yuri, 19 anni, in un incidente stradale: «Feci arrivare la notizia al presidente, e due giorni dopo mi viene recapitata una lettera accorata, toccante. Credo che sia nato quel giorno il mio rapporto con lui. Lo sentii vicino, sincero, partecipe. Poi seguì una telefonata. Fui colpito dalla sua straordinaria sensibilità». A Natale dello stesso anno, a Roma con la famiglia, Letizia presenta la moglie e la figlia a Berlusconi: «Fu la prima volta che vide Anna e Noemi. Proprio in quella occasione, per sdrammatizzare dopo aver ricordato la tragica fine di mio figlio, lui disse a Noemi, che aveva 10 anni: considerami come il tuo nonnino. Allora intervenni io e dissi: «Nonno mi sembra ingeneroso, meglio che lo chiami papi».

°°° Questo cumulo di minchiate, scritte sicuramente da ghedini e fede o rossella o’hara, non stanno né in cielo né in terra. Il bischero è separato dalla moglie da dieci anni e vive da tutt’altra parte. Nessuno, nemmeno i domestici o i gorilla di Mafiolo, può confermare nulla senza prendersi una bella pernacchia sul muso. Assolutamente inattendibile e delirante. Fosse vero (ma ci sono le dichiarazioni di Gino a smentire tutta questa balla in maniera clamorosa e PROVATA)… ipotizziamo che fosse vero questo delirio. Ma allora qualcuno ci deve mostrare un miliardo di altre cose analoghe: dove abitano le famiglie che burlesquoni aveva promesso di ospitare dopo il terremoto del 2002? In quali delle sue case vivono le famiglie terremotate dell’Aquila che lui ha giurato di ospitare “in qualcuna delle mie case”? Dove lavorano i ragazzi albanesi che lui spergiurò di “sistemare” quand’era all’opposizione e spandeva merda su Prodi, che invece risolse immediatamente e bene il problema delle “carrette del mare” provenienti con gli scafisti dall’Albania? Cioè, A CAZZARO! Qui siamo svegli e documentati, non ci puoi certo prendere per il culo tu, vecchio malato. Di queste domande ne abbiamo almeno mille. Poi ci spieghi come mai, scrivi a uno sconosciuto inesistente una lettera accorata e gli telefoni… e te ne fotti di milioni di altre persone più importanti e molto più bisognose. Ma vacccagare, silvio!

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La farsa tragica

La corsa delle divise al posto in lista
A guidare la “hit” delle candidature c’è la polizia penitenziaria

Mille agenti delle forze dell’ordine candidati: per loro stipendio pieno e permessi
A. BARBERA, F. SANSA
ROMA
Altro che disaffezione per la politica. In Italia c’è chi le elezioni le aspetta con ansia divorante. Poliziotti, forestali, agenti di polizia penitenziaria affollano le liste elettorali. Al Nord, al Centro, al Sud, spesso con liste improbabili, in luoghi improbabili. All’inizio può sembrare un caso o una scelta dei partiti dettata dalla fame di sicurezza che assilla gli italiani. Ma poi si capisce che ci deve essere dell’altro. Come spiegare altrimenti la lista che nel 2008 si presentò a San Pietro in Amantea (Cosenza): «I tredici candidati erano tutti agenti di polizia penitenziaria e nessuno era del Paese», sospira Francesco Gagliardi, un maestro che segnalò l’episodio. Nel nome del partito i poliziotti penitenziari infilarono una parola che sentono spesso sul luogo di lavoro: San Pietro per la Libertà. «Da anni un gruppo di agenti di Campobasso formano una lista che si presenta nei comuni vicini», sospira Donato Capece, segretario nazionale del Sappe, il sindacato della Polizia Penitenziaria. Quest’anno i candidati dovrebbero essere più di mille.

Tanti, così tanti, che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria mercoledì ha diffuso una circolare che dispone un censimento degli agenti aspiranti politici. I conti sono presto fatti: soltanto nel carcere di Augusta, in Sicilia, ci sono 17 candidati su 250 agenti. Niente rispetto a quanto accadde alle Amministrative nel 2007, quando 70 erano in lista, il 35 per cento dell’organico. Anche nei commissariati di polizia in questi giorni si contano le poltrone vuote: 17 a Roma, 44 a Bologna, 20 nel torinese. Nei corridoi degli uffici c’è chi racconta di quell’agente campano emigrato a Brescia per candidarsi per i Pensionati. Oppure di quel giovane poliziotto bolognese che nel 2008 si candidò in Friuli e a Piacenza. Sempre sconfitto. Sempre con i Pensionati. Ma da dove nasce questa passione politica che spinge a candidarsi a destra e a sinistra? I maligni indicano l’articolo 81 della legge 121 del 1981, quella che riformò il comparto sicurezza: «Gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale».

Insomma, un mese e mezzo senza lavorare a stipendio pieno (tranne qualche indennità). Una norma del tutto eccezionale rispetto a qualunque contratto pubblico e privato: «I contratti collettivi prevedono l’aspettativa in caso di candidatura, ma può essere negata e comunque non è mai retribuita», spiega Alfredo Garzi della funzione pubblica Cgil. «La norma era nata con un altro spirito», sostengono Flavio Tuzi e Filippo Bertolami del sindacato di polizia Anip-Italia Sicura. «Si voleva così garantire l’osmosi tra forze dell’ordine e società civile, per evitare quel muro contro muro anche violento tra uomini in divisa e cittadini». Ma qualcosa non funzionò, ottenere consenso dalle persone su cui prima dovevi esercitare l’autorità di polizia può creare cortocircuiti e il Dipartimento di Pubblica Sicurezza introdusse il divieto di lavorare dove ci si era candidati. Risultato: i candidati ci sono lo stesso, ma si assiste a una migrazione elettorale. Tuzi e Bertolami la spiegano così: «Adesso ci sono due categorie. I furbi che si presentano in circoscrizioni lontane dal posto di lavoro pur di usufruire dei 45 giorni di aspettativa retribuita oppure coloro che ci credono davvero e vorrebbero impegnarsi nella società civile».

Così un mese e mezzo prima delle elezioni gli uffici si svuotano. Per la gioia di chi parte e il mal di fegato di chi resta e deve lavorare come un pazzo per coprire i buchi nell’organico lasciati dai colleghi. Bianco o nero, lavativi e onesti? Non è così semplice. Sebastiano Bongiovanni è agente di polizia penitenziaria ad Augusta e consigliere comunale. Ma politica lui la fa davvero: nel 2007 segnalò alla Procura di Siracusa che 70 suoi colleghi erano candidati alle elezioni, «Non perché si trattasse di lavativi, anzi. Dovremmo candidarci tutti e 250». Prego? «Sì perché la nostra vita è un inferno. I detenuti sono più di seicento, in un carcere che cade letteralmente a pezzi, dove l’acqua c’è soltanto tre ore al giorno. E noi rischiamo la vita per 1.500 euro al mese, senza possibilità di trasferimenti». Sì, i politici abbondano soprattutto tra chi fa i servizi più usuranti, come gli agenti dei Reparti Mobili, quelli che passano le domeniche in mezzo ai fumogeni degli stadi. Ma c’è anche chi usa la politica per ottenere il trasferimento che non arriva mai. Semplice: basta candidarsi nella città dove lavori. E’ vietato, incompatibile, così all’amministrazione non resta che spostarti altrove. Ferie, indennità, trasferimenti altrimenti impossibili… e poi c’è chi dice che la politica è lontana dalla gente.

UN POLIZIOTTO CANDIDATO IN INCOGNITO

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SSSSSSSSSSSSST… silenzio.

Monsignor Bertolaso, arruola i parroci per i miracoli ai terremotati
di Marco Bucciantini

Sembra il ‘48. Si arruolano i preti, con circolari ministeriali travestite da lettere accorate. «Diffondete il buonumore, dobbiamo fare bella figura». Una volta chiedevano direttamente il voto giusto, per lo scudocrociato. E c’è anche il ciclista del popolo che si prende la maglia di leader, ed è un sussulto condiviso, «nazionale», con il vecchio compagno Alfredo che tormenta la tivù per sentire meglio e il giovane frate Michele che solleva i pugni quando Di Luca trova un buon finale sulla vetta dolomitica e si prende la maglia rosa, per il suo Abruzzo. Nel ‘48 fu Bartali al Tour, salvatore della patria dopo le pallottole a Togliatti. Allora fece storia, questa volta fa almeno calore.

La maglia rosa e le tuniche nere
Guido Bertolaso ha chiamato il vescovo, «basta, me ne vado, troppe lamentele» Aveva appena letto l’editoriale del Centro, il quotidiano degli abruzzesi. Si chiedeva di superare in fretta – prima che l’afa soffochi le tendopoli – questa prima fase, e sistemare gli sfollati in prefabbricati più consoni, intimi. Non era un richiamo demagogico: Assolegno ha già fatto sapere che le casette si possono fare in pochi giorni. Qualcosa di simile fa intuire anche l’assessore friulano Vanni Lenna, giunto ieri all’Aquila per ricordare i tempi e i modi di una rinascita felice, governata dal territorio, senza new town. «Porteremo la nostra esperienza sui moduli abitativi possibili prima della ricostruzione stabile». Le necessità quotidiane tornano a occupare la vita e manca il modo di soddisfarle, e questo crea un logico malumore che il governo ha dato ordine di celare.

È arrivato il caldo, 30 gradi umidi, e se è vero che la protezione civile ha promesso l’arrivo dei condizionatori intanto mancano anche i semplici ventilatori. Farebbero comodo alla famiglia Bran, peruviani di Lima, che vivono in undici nei 14 metri quadrati della tenda numero 106 nel campo di Piazza d’Armi. Sono due nuclei, gli uomini furono i primi a venire in Italia. Fanno i camerieri al ristorante Le Fiaccole, in centro. Le donne sono badanti, poi c’è il ragazzo che fa il muratore e le bambine che vanno a scuola. Adesso sono qui a invecchiare di noia: il ristorante è franato, la ditta edile è ferma, le famiglie da badare sono poche tende più in là, le scuole sono chiuse. I Bran hanno nomi italiani, o così li hanno “adattati”: Anita torna dai lavatoi con la tinozza piena di magliette e asciugamani di spugna, e stende tutto al sole gentile del tardo pomeriggio. Mario è sulla branda e si strofina i piedi fra loro e fissa il soffitto di stoffa. Manca l’aria. I letti sono sei: tre matrimoniali, tre singoli. Loro – ripetiamo – sono 11 e agitano un periodico che si stampa a Roma per le comunità sudamericane, “Expreso Latino”, dove sono fotografati, sopravvissuti e sorridenti.

“Caro Arcivescovo”
Non bisogna sapere della famiglia Bran. Non bisogna sapere dei dodici casi di dissenteria dell’ultima settimana. E nemmeno del caso di tubercolosi a Pizzoli. Si deve far sapere che va tutto bene, che l’Abruzzo rifiorisce miracolosamente. Bertolaso ha chiesto al vescovo Giuseppe Molinari il sostegno della Curia: «Tenete la gente tranquilla, rassicuratela che va tutto bene». Così, dopo l’articolo del Centro e la successiva presa di posizione del presidente della provincia Stefania Pezzopane, che bazzica continuamente i campi per verificare di persona lo stato delle cose, il vescovo si è mosso con zelo. Dapprima ha radunato i parroci, chiedendo loro un lavoro «tenda a tenda» per consolare gli sfollati.

Ogni campo ha una chiesetta, e sono attivi (fin da subito) preti delle diocesi del centro Italia. Monsignor Molinari ha poi scritto alla stessa Pezzopane, rimproverandola di «fare politica», e di fomentare i malumori delle persone che vivono questa situazione di disagio. Le ha rinfacciato lo scoramento di Bertolaso. La Pezzopane ha risposto: «Caro Arcivescovo, per me indimenticato don Giuseppe (Molinari fu suo insegnante di religione, ndr), proprio lei mi ha insegnato a privilegiare chi è in difficoltà. Sollecitando più attenzione per le persone nelle tende e chiedendo per loro una migliore sistemazione, ho assecondato una necessità di rispetto per le loro vite già provate, non una ricerca di polemica».

Alle 18 e 39 frate Oreste Renzetti conclude la messa nella tenda bianca e saluta una ventina di convenuti, «andate in pace». «Noi facciamo sempre il solito lavoro, di sostegno, di conforto. Parliamo, non avevamo bisogno di questi ordini». Dopo 40 giorni dal terremoto ci sono 35.852 persone sfollate in 178 aree, circa 800 sono rientrate nelle case, molte famiglie hanno ottenuto l’agibilità per l’abitazione, ma manca la verifica sull’impianto del gas, e ci vorranno settimane. Intanto i poliziotti, dimenticati al vescovo, si lamentano e scrivono al ministro Maroni: «Non ci pagano gli straordinari, è scandalosao». Ma non lo fate sapere in giro.
14 maggio 2009

°°° Sparito dalle tv, sparito dai giornali di regime, del terremoto non si parla più. Non c’è un solo cent per la ricostruzione e silvio berlusconi ha già dimenticato le mille minchiate sparate a reti unificate, fingendo commozione per le persone assassinate dai suoi amici costruttori e da lui medesimo, con i condoni edilizi a raffica.
Ora, questi poveri sfollati, dopo un mese al gelo, si stanno arrostendo e soffocano sotto il primo caldo. Nemmeno un ventilatore. Ecco: questa è l’esatta fotografia del Cazzaro. Un coglione malavitoso che vende sogni, ma ci riempie costantemente di INCUBI!

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L AQUILA - TERREMOTO IN ABRUZZO - SILVIO BERLUSCONI TRA I TERREM

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la farsa del mafionano

Berlusconi: «È Veronica
che deve scusarsi con me»

Il premier: «So da chi
è sobillata, il divorzio
potrei chiederlo io»

°°° AMICI, VE LO POSTO TUTTO IL PEZZO DEL CORRIERE, PERCHE’ E’ LA QUINTESSENZA DELLA FALSITA’,DEL MASCHILISMO PIU’ ABBIETTO, E DELLA STATURA MISERABILE DI QUESTO DELINQUENTE:

L’ira del cavaliere: «è la terza volta che mi fa scherzi così in campagna elettorale»
«Veline in lista? No, sono laureate
Ecco la verità sulla festa di Noemi»
Berlusconi: «Veronica è caduta in un tranello, dovrà chiedermi scusa pubblicamente»

Arcore, domenica sera. Una domenica molto diversa da tutte le al­tre. Silvio Berlusconi è amareggiato. «Sono indignato». Ha letto, con sorpre­sa, dell’intenzione di sua moglie di di­vorziare. Prima, afferma, non ne sapeva nulla. «Veronica è caduta in un tranello. E io so da chi è consigliata. Meglio, so­billata. La verità verrà fuori, stia tran­quillo». Presidente, e lei pensa che si possa, come in altre occasioni, riconciliare un rapporto che dura da quasi trent’anni, di cui diciannove di matrimonio? «Non credo, non so se lo vo­glio io questa volta. Veronica dovrà chiedermi scusa pubbli­camente. E non so se basterà. È la terza volta che in campagna elettorale mi gioca uno scher­zo di questo tipo. È davvero troppo».

E i figli? Non dovete pensare ai tre figli, e poi c’è un altro ni­potino in arrivo? «I figli sono solidali con me». «Sa come chiamo io tutto quello che è ac­caduto in questi giorni? Crimi­nalità mediatica». Non esageri, presidente, Repubblica e Stam­pa hanno fatto semplicemente il loro lavoro. E non le dico la mia sofferenza. No, sostiene il Cavaliere che c’è un disegno. Una manovra per metterlo in difficoltà ed esporlo persino al ridicolo, proprio nel momento in cui la sua popolarità è al massimo. E sua moglie ne sa­rebbe diventata complice in­consapevole. «Veronica è sem­plicemente caduta in un tranel­lo mediatico». Sì, ma le veline le avete messe in lista e poi, do­po la lettera di sua moglie al­l’Ansa («Ciarpame senza pudo­re, io e i miei figli siamo vitti­me… ») le avete tolte? «Guardi, direttore, voglio dirlo una vol­ta per tutte, e chiaramente: non avevamo messo in lista nessuna velina e quelle tre che sono state escluse all’ultimo minuto erano bravissime ragaz­ze, con ottimi studi. Altro che veline. Veronica ha creduto al­le tante cose inesatte scritte sul­la stampa, purtroppo».

E le tre ragazze entrate effetti­vamente nelle liste delle candi­dature per le europee? «Lara Comi ha due lauree, ha coordi­nato i giovani del Pdl in Lom­bardia, è dirigente della Giochi Preziosi. Mai andata in tv. Licia Ronzulli è una manager della sanità di altissimo livello, è re­sponsabile delle professioni sa­nitarie e delle sale operatorie del Galeazzi; l’imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli la stima molto, va due volte l’an­no in Bangladesh. Barbara Ma­tera è laureata in scienze politi­che, me l’ha consigliata Gianni Letta, è la fidanzata del figlio di un prefetto suo amico. Ecco, ha fatto una parte in Carabinie­ri 7 su Canale 5, ma mai la veli­na. Insomma, mi creda, è una montatura. Parliamo di tre ra­gazze in gamba su settantadue candidati. E che male c’è se so­no anche carine? Non possia­mo candidare tutte Rosy Bin­di... ».

Presidente, e poi c’è la fe­sta napoletana della giovanis­sima Noemi Letizia, alla qua­le lei ha partecipato a sorpre­sa. «Anche qui sono state scrit­te cose inesatte. Le racconto come è andata veramente. Quel giorno mi telefona il pa­dre, un mio amico da tanti an­ni. E quando sa che in serata sarei stato a Napoli, per controllare lo stato di avan­zamento del progetto per il termovalorizzatore, insiste perché passi almeno un attimo al compleanno della figlia. So­lo due minuti, mi assicura. La casa è vicina all’aeroporto. Mi faresti un grande regalo. Non molla. Io non so dire di no. Era­vamo in anticipo di un’ora e ci sono andato. Nulla di strano, è accaduto altre volte per com­pleanni e matrimoni. Pensi che ho fatto le fotografie con tutti i partecipanti, i camerieri, persi­no i cuochi. Le pubblicherà Chi sul prossimo numero perché me le ha chieste quel diavolo di Signorini». D’accordo, pre­sidente, ma perché quella ragazza Noemi la chiama papi? «Ma è un scherzo, mi volevano dare del nonno, meglio mi chia­mino papi, non crede?».

Quell’episodio, dice Berlusconi, è stato mon­tato ad arte. E Veronica avrebbe creduto a mol­te delle versioni, false, sulla serata napoleta­na, domenica 26 aprile, conclusa con un incon­tro con Aurelio De Lauren­tiis. Quella sera il suo Napo­li aveva battuto l’Inter, fa­cendo un favore al Milan nel­l’inseguimento impossibile alla capolista. «Ho ringraziato De Laurentiis che si è fatto per­donare a metà l’eliminazione dalla Champions’ League che ci inflisse, battendoci, nello scorso campionato».

Amareggiato e deluso, Silvio Berlusconi non pensa che que­sta volta sia possibile una ri­conciliazione. Arcore e Mache­rio, dove risiede la moglie, so­no vicine. Gli amici comuni se lo augurano. Basterebbe poco. Una spiegazione franca, come succede fra coniugi. Ma nella domenica quasi estiva di Arco­re l’aria è molto diversa dalle al­tre volte. E il Cavaliere è offe­so. Chi lo conosce bene dice che questa volta, per ricon­quistare Veronica, non andrà di sorpresa al suo compleanno a Marrakesh, avvici­nandola vestito da berbero per poi sve­larsi di colpo con un bellissimo gioiello in re­galo. Ma non si sa mai. Il nostro modesto auspicio è che ciò avvenga. Magari in forma del tutto privata.

(f. de b.)


°°° Una marea di cazzate, amici miei. Come al solito. Noto soltanto due cose che stridono troppo:
a) le “veline” laureate… come lui, che si è comprato persino la licenza elementare? Come la Gelmini, che si è comprata la laurea a Reggio Calabria?
b) Va a Napoli per seguire il termovalorizzatore DI NASCOSTO? Lui, che non va nemmeno a pisciare senza le telecamere? E poi, siccome la villetta di Noemi è vicina all’aeroporto, decide di fare una scappata di DUE MINUTI… però le porta un preziosissimo collier di oro e brillanti… roba che si tiene abitualmente nel cruscotto della macchina… e fa le foto con tutti i cuochi e i camerieri. Dunque… se il papi vero della squinzia è un misero impiegato del Comune – e quindi, come tutti gli impiegati NON RIESCE AD ARRIVARE A FINE MESE… chi cazzo glieli ha pagati i cuochi e i camerieri, per non parlare del resto della festa da Mille e una notte?! Infine, dice AL PAPPONE: ” È la terza volta che in campagna elettorale mi gioca uno scher­zo di questo tipo. È davvero troppo.” Oh, cribbio! Sia la ex moglie che i magistrati lo beccano SEMPRE sotto elezioni… Ma roba da matti! Il fatto è che in questo paese SIAMO SEMPRE sotto elezioni. Ma se tu ti comportassi da UOMO con tua moglie e da persona ONESTA nella vita… nessuno ti romperebbe i coglioni, né sotto elezioni, né mai!
O mafiolo, MA VAI A CAGAREEE!

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Bottino craxi: la storia vera

BETTINO CRAXI
Nasce che pesa ottanta chili: aveva creato delle riserve di cibo al di fuori della placenta, un canale segreto con l’esofago materno, e si era mangiato tutto .
Sua madre era stata l’unica donna al mondo a perdere trenta chili durante la gravidanza. L’unica ecografia esistente, conservata alla NASA, ci mostra Bettino al terzo mese con due mani già formate, grandi come la Montedison, mani senza fine. E il resto del corpo: un bozzolo. Due ore dopo la nascita, gli piovve addosso la prima denuncia: la levatrice si era resa conto che a “levare” era stato abile e veloce anche il neonato; quattro carabinieri dei Nocs gli aprirono faticosamente, e dopo aspra lotta, i pugnetti chiusi e ricuperarono la fede e l’anello di fidanzamento della levatrice medesima. Dopo la sua nascita, il corpo di sua madre si era afflosciato come un sacco vuoto; le erano persino rientrati i seni. Fu necessario comprargli un biberòn. Due biberòn… quindici biberoni maxi. Li ingoiava come niente e non risputava nemmeno la plastica: cacava palloncini. Suo padre, brava persona, decise di comprare un biberòn formato gigante e si recò a Disneyland, sicuro di trovarlo. Al suo ritorno, si ritrovò in mezzo a una strada, con l’immenso biberòn tra le braccia: Bettino aveva messo in vendita la casa con tutti gli arredi e si era trasferito all’Hotel Raphael di Roma, che prendeva chiunque.
Di intelligenza prontissima e precoce nel fisico, si iscrisse da solo al vicino collegio svizzero. A tre anni era già in quinta elementare. Aveva problemi solo con la matematica: gli avevano spiegato che 3 + 3 = 6 e lui l’aveva capito subito e si era montato la testa convinto di sapere tutto. A quel punto, la sua maestra, frau Gruber, decise di farlo impazzire e spiegò che non solo tre più tre faceva sei, ma anche quattro più due faceva sei; e addirittura cinque più uno faceva sei! Insomma, Bettino si convinse che TUTTO facesse sei… Perciò, più tardi, decise di lasciare ai vari Cusani, Larini, Giallombardo, Ruju & c. l’incombenza dei numeri e lui decise di fare i conti solo con Borrelli e Di Pietro. O meglio, non decise lui, ma questa è un’altra storia.
A otto anni diede un altro saggio della sua scaltrezza: entrato in un bar di via Veneto, ordinò un gelato mastodontico e prese la via della porta. Il padrone lo bloccò: ”Beh? Non lo paghi il gelato?” “E perché, lei l’ha pagato?” chiese l’impudente Bettino.“Certo che io l’ho pagato!” gridò il barista. “E allora? Mica lo dobbiamo pagare due volte.” concluse Bettino, lapalissiano, scappando via. Arrivò incolume ai vent’anni e conobbe una splendida ragazza romana di nome Sandra. Lei faceva l’attrice e altro con Fellini. Lui la corteggiò assiduamente e fu l’unico a farlo: agli altri uomini lei la mollava subito. Andarono a fare un pic nic a Villa Pamphili. Era una splendida giornata di sole e Sandra non aveva messo le mutandine: perché perdere tempo? Non aveva messo nemmeno il cestino giusto, nel portabagagli della Vespa. A mezzoggiorno, accaldati ed affamati, si appartarono all’ombra di una quercia e aprirono felici il cestino di vimini… dentro c’erano i lavori a maglia della madre di Sandra!

.

Lei fece una risatina sciocca e lui non sottilizzò, forse pensando a cucina tipica o a qualche usanza locale, cominciò a mangiare gomitoli di lana, filo di scozia, cotone: bistecca ai ferri o lavori all’uncinetto tutto fa brodo, purché se magni! (Lui proveniva dalla Sicilia e da Milano in parti uguali. Altra cultura…)
Già che c’era si mangiò anche il cestino, erano fibre. E perché no? anche gli uncinetti e i ferri da quattro. Aveva carenza di ferro. Spolverò anche le ghiande sparse tutt’intorno e andò ad abbeverarsi al laghetto. Sperando di risucchiare qualche anatra, qualche bel cigno grasso… Poi tornò all’ombra, si grattò l’immensa schiena contro il tronco della quercia e, dopo un poderoso rutto, si sdraiò e prese subito a ronfare. Sandra aprì le gambe sconsolata e si guardò la patatina, sola soletta, tutto ciò che la penetrava era il ponentino. Si videro ancora e andarono a Fontana di Trevi. Bettino vide che la gente buttava un sacco di soldi nella fontana e chiese il perché. “Perché la lira non vale un cazzo.” rispose un vecchietto. E ancora non avevano governato né Bottino né Silvio… Bettino aveva capito che il lavoro è fatica e perciò decise di entrare in politica. Diventò amico di una persona per bene, Sandro Pertini, e lo circuì a tal punto che il vecchio, presentando il giovane gigante prensile, diceva: “Bravo giovine, figlio di pochi sì, ma onesti genitori.” Pertini era ingenuo e già un pochino andato. Lo invitava spesso a pranzo: “Vieni a pranzo da me domani – gli diceva – ci sarà anche Bettino.” “Ma Bettino sono io!” rispondeva il massiccio. “Non fa nulla, – tagliava corto il vecchio partigiano – vieni lo stesso.” Bettino cominciò col portargli la borsa e finì col portargli via il partito. Intanto continuava il giochetto dei gelati a scrocco in tutti i bar della capitale e della provincia. Quantità industriali di gelato. I baristi non lo beccarono mai, ma il diabete sì. Pertini lo portò con sé a Caprera per una ricorrenza garibaldina. Nella piccola isola aleggiava un’atmosfera di anacronistico patriottismo. C’era anche la televisione e un cronista, già che c’era, porse il microfono anche a Bettino: “A cosa pensa, lei così giovane, quando vede la bandiera italiana che sventola?” gli chiese. E Bettino: “Penso che c’è un casino di vento.” rispose con evidente senso pratico. Scoprì però Garibaldi e si innamorò del personaggio e della sua storia, anche se ebbe a criticarlo per la sua ambizione modesta: “I mille?! I miliardi, muovono il mondo! Cazzo i mille!” Si giocò subito la simpatia di tutti i presenti in camicia rossa.
Si giocò anche l’amicizia del vecchio Pertini, perché aveva il vizio di dargli delle poderose manate sulle gracili spalle. Sembrava farlo apposta: ogni volta che nonno Sandro portava alla bocca con mani tremolanti la solita tazza di brodo caldo, arrivava Bettino e giù una tremenda manata sulle spalle: “Come va, vecchia quercia?” Pertini lo mandò affanculo. Bettino, senza protettore, ricercato da tutti i baristi, decise di tornare a Milano e si adattò a fare l’assessore comunale. In quel periodo conobbe un giovane cantante di piano bar, che aveva un piano a nolo per suonare e un piano personale per fare soldi senza lavorare. Bettino aveva per le mani un piano di programmazione edilizia del Comune: fecero un piano per unire i due rispettivi piani. Questo giovane pianista disse di chiamarsi Elizabeth Arden, poi disse di chiamarsi Charles Aznavour, poi Cocò Chanèl, poi Silvio. Disse anche di essere dottore, poi infermiere, poi Gesù , cavaliere, muratore… Iniziava tutte le frasi con: “Mi consenta… te lo giuro sulla testa dei miei figli… sinceramente… onestamente… quantevveriddìo.” Tutte le cose che premettono i bugiardi, insomma.

Però al piano era un grande solista. Appena cominciava, la gente se ne andava e lo lasciava solo. E lo licenziavano. Ha cambiato più locali allora che idee adesso. Bettino, più monotono, ripeteva sempre la stessa solfa: “E a me quanto me ne viene?” Divennero amici per solitudine. Entrambi erano molto soli. E sòla (come dicono a Roma). Silvio pensò di sposarsi, matrimonio d’amore: per i soldi. Lui aveva preparato le carte per il matrimonio e sua moglie ci aveva messo le carte di credito. Anche Bettino si era sposato, contro una certa Anna. I due amici, ormai lanciati nel mondo degli affari, decisero di andare ad incontrare dei probabili soci a Bruxelles. Segno di riconoscimento: fedina penale da otto chili, accento palermitano marcato, coppola, e lettera di presentazione di Dell’Utri. Presero la macchina del suocero di Silvio e partirono da Milano alle due. Alle sette erano fermi a Strasburgo e litigavano:
“La benzina c’era! – giurava Silvio – Il serbatoio era pieno quando siamo partiti. Ha fatto il pieno mia moglie!”- E fu l’unica verità di tutta la sua vita.
“Tira fuori la benzina o ti spacco i sopratacchi! “ sbraitava Bettino. Un vecchio benzinaio emigrato spiegò pazientemente ai due che la benzina, come tutte le cose, finisce. Bettino ebbe un’illuminazione: “Quando diventerò ministro o presidente del consiglio aumenterò la benzina, così non finisce.” Mantenne, ahinoi, la minaccia. Giunti miracolosamente a Bruxelles si incontrarono coi futuri soci in un bar gestito da italiani. I gestori erano di Afragòla e tutti i clienti avevano strascicati accenti del mezzoggiorno d’Italia. Persino le etichette sulle bottiglie esposte erano adeguate all’ambiente: Gambàri, Ginzàno, Mardini, Scivàs… I nostri si sedettero intorno ad un tavolo, il tavolo era a forma di torta e la torta era a forma di penisola.
Quello che sembrava essere il capo, nonostante l’età avanzata, non aveva un capello bianco: era calvo. Silvio e Bettino decisero in seguito di imitarlo: si acquisisce l’aria da vero capo e non si spende un cazzo in shampo! L’accordo venne fatto e i due amici tornarono indietro. “Chi trova un amico trova un tesoro” recitava il vecchio detto. “Chi trova un tesoro, trova un casino di amici e amici degli amici.” aveva detto il vecchio siciliano. Appena superata la frontiera italiana, si fermarono a mangiare in un grill: la nostra cucina era certamente migliore. Ordinarono pollo e patatine: il pollo era una merda e veniva dal Belgio, le patate dalla Germania, l’olio per la frittura da un autoricambi. Bettino tentò il solito giochetto per non pagare: “Settantamila lire per due porzioni di pollo?! Ma chi è quel deficiente che ha fatto fuori un animale così prezioso?” il gestore li inquadrò subito e li lasciò andare. Abbassavano la media del locale. Alle porte di Milano l’auto li mollò di nuovo. Proseguirono a piedi, ma cominciò a diluviare. Cercarono riparo dentro un negozio di ombrelli, guardando per aria e fischiettando vaghi, fingendo di ignorare il proprietario che li puntava. Tipico. Gianni e Pinotto gli facevano una pippa! Tornarono alle rispettive occupazioni: Silvio ad accapparrarsi terreni agricoli e Bettino a cambiare, quasi legalmente, la destinazione d’uso.
Qualche anno dopo, Bettino venne invitato a Roma al congresso del Midas. Lo disse subito a Silvio che, da giovanotto magro coi capelli grassi, si stava trasformando in un grasso signore… uomo, via! senza capelli. Silvio, dall’alto della sua cultura, spronò l’amico: “Al Midas?! Il famoso re! Vai, vai, così impari i trucchi e tutto quello che tocchi diventa oro! “ E così fu. Al congresso del Midas, che era un albergo, il grosso Bettino divenne segretario del PSI.
Imparò i trucchi e cominciò a toccare tutto. Toccò anche un’aspirante attricetta, una certa Anja. Lui diceva di essere innamorato e, siccome l’amore è cieco, si aiutava tastando. Lei era molto bella. ”Sei una visione! La mia visione.” le diceva. E tastava. Visione, visone, anelli, pièd à terre…
Tocca oggi, tocca domani, ad Anja toccò pure GBR. “Sei la mia televisione!” esclamò lei. E lui toccava e foraggiava. E la gente chiacchierava. E ogni volta che lui tornava a Milano dalla moglie, Anna gli correva incontro gli buttava le braccia al collo. E cercava di strozzarlo. Intanto ebbero tre figli: Bobo, Bubu e Yoghy. Ma lui, invidioso di Silvio che millantava scopate a destra e a manca, cercò di scoparsi Manca, almeno quello, promettendogli la Presidenza della Rai. “C’è un bel cavallo all’ingresso“ gli diceva. Manca capì un cazzo e si iscrisse all’ippodromo di Tor di Valle, per prepararsi al compito. E’ ancora lì che cavalca. Bettino, ormai grasso e pelato come un vero capo, diventò Presidente del Consiglio. Cercò anche di scoparsi qualche nana o ballerina del suo éntourage… niente da fare. Il suo piccolo pisello si dissociava. Come tutti i suoi servitori anche lui era sempre a capo chino e piegato in due. Quindi non si ciulava. Ripiegò sul suo ruolo di statista. Promulgò leggi avveniristiche: aumentò per decreto le tariffe alberghiere invernali nelle località marittime, d’inverno le notti sono più lunghe, quindi…
Comprò casa a S.Moritz e decretò che avrebbe dovuto nevicare nel mese delle sue ferie;
aumentò, naturalmente: benzina, sigarette, pane, pasta, bolli, tasse, etc. Conobbe un avanzo di balera, grasso e unto: un certo Gianni de Michelis e, siccome questo parlava veneziano e non si capiva un cazzo di quello che diceva, lo nominò ministro degli esteri. Così, tra stranieri si sarebbero capiti.
Studiarono insieme un piano di aiuti al terzo mondo. Gianni prendeva malloppi di miliardi e correva in Africa, si inchiappettava qualche negretto: per venire incontro ai suoi bisogni, poi da lì volava in Svizzera e depositava i soldi in conti cifrati. A nome suo e di Bettino. Stanco ma felice, correva a fiondarsi in qualche discoteca alla moda. Con tutte le stragi del sabato sera, lui non ci rimase mai. Alla gente sarebbe andato bene che si fosse schiantato contro qualche platano anche di venerdì… Ma lui non diede questa soddisfazione. Un giorno, Bettino, tornando in incognito da casa di Anja a bordo della sua auto, sbagliò quattro volte uscita sul raccordo anulare. Dopo sei ore di giri a vuoto, chiese informazioni ad una famigliola, coniugi e tre figli, che faceva colazione sul prato di un’aria di sosta: “Scusino, per andare in via del Corso?” Si avvicinò il capofamiglia, alto, allampanato e con l’aria intelligente; l’uomo si chinò verso il finestrino e si mise a piagnucolare: ”Ci aiuti, signore. Ci siamo persi. Siamo qui dal viaggio di nozze…” Bettino si commosse e prese a lavorare con sè quel fulmine di guerra: si chiamava Ugo Intini. Intini non andava d’accordo con Signorile, un vice di Bettino. Un giorno vennero alle mani. Ugo mise le mani intorno alla gola di Signorile e giù schiaffi e pugni! Di Signorile, naturalmente, che aveva le mani libere. Bettino fu costretto ad accompagnare il malridotto Intini al Pronto Soccorso. Andò a parlare personalmente col medico.
Il dottore era comunista e, riconosciutolo, gli sparò:

.

“Se ci sono punti da applicare, un milione con anestesia e mezzo milione senza.”
“Prendo la seconda offerta – fece Bettino – mica è per me!”
Divenne amico di numerosi stilisti: Trussardi, Versàce (ma lui lo chiamava familiarmente Vèrsace)… Il primo gli regalò un manichino parlante, che lui battezzò Claudio e ne fece il suo vice. Doveva avere un qualche difetto di fabbricazione, però, perché fumava molto e aveva sempre le pupille sgranate. Lo mandò da un famoso tecnico a Malindi, ma Claudio fumò pure laggiù. Lo stilista preferito di Claudio era Volta-Gabbana. Per il dispiacere, Bettino prese ad ingrassare troppo. Un amico gli consigliò la dieta del fantino e lui cominciò a mangiare cavalli. Parlava alla tv ed aveva molto appeal. Prendeva molto. Nemmeno De Lorenzo e Pomicino insieme prendevano quanto lui. Inventò anche un modo di parlare con molte pause, che servivano per inserire gli stacchi pubblicitari. E tutto ciò che toccava diventava oro.
I suoi domestici pulivano i vetri con foulards di Yves S. Laurent e li gettavano dopo l’uso. Rivedeva spesso Sandra e se la portava nel suo appartamento. Lei gli raccontava di tutti quelli che l’avevano scopata nel frattempo e lui si addormentava felice. Intanto Silvio, grazie agli amici, stava ampliando l’impero televisivo e non solo: quando e dove c’era possibilità di una legge favorevole a qualche business, Bettino lo avvertiva e lui ci si ficcava. La società andava a gonfie vele. Ormai era un’ onorata società, con succursali in tutto il mondo. Bettino era ricco e famoso. Potentissimo. Tranne che dal lato virile: nonostante si dicesse che avesse tre coglioni, come l’antico Bartolomeo Colleoni. In realtà, era pieno di coglioni, soprattutto nel suo éntourage. E nella direzione nazionale del partito. Ogni riunione veniva preceduta da una coloratissima e chiassosa parata, con gente sui trampoli, fanfàra, ragazze pon pon e ragazze pom pin. Una marea di mariuoli. Gli combinarono tanti e tali di quei casini che, alla fine, lui per non vedere le porcherie che combinavano i suoi decise di andarsene in esilio. Come l’Eroe dei due mondi. Erano molto simili: Garibaldi aveva fatto i mille, Bettino i mille miliardi. Garibaldi aveva creato l’unità, Bettino aveva distrutto l’Avanti. Garibaldi aveva accanto a sé Anita, l’eroina, Bettino aveva Anja, e tutt’intorno la cocaina, il marocchino, e tanta buona erba. Garibaldi aveva detto OBBEDISCO! Bettino diceva OBBEDITE! Garibaldi era amico di Mazzini, Bettino era amico di Boldi. Garibaldi era andato a Marsala, lui andava a Chivas e Champagne. Troppe analogie. Non aveva nulla a che spartire coi suoi! Infatti si prese tutto lui e se ne andò per la tangente. Ad Hammamet.

( Plico arrivato in busta anonima da casa Forlani. N.d.A.)

craxi

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