Noi ce l’avevamo duro

Bossi scatenato contro i centristi
“Casini pirla, meritano solo legnate”

Comizio, a Reggio Emilia del leader della Lega Nord. Nel mirino l’Udc: invito a non votarla e, poi, pesanti affermazioni contro il partito dell’ex-presidente della Camera. “Le Riforme? Si faranno, volenti o nolenti”

°°° Ragazzi… veniamo da De gasperi, Togliatti, Berlinguer e Pertini e oggi siamo nelle mani di un faccendiere mafioso e di uno storpio che diceva di averlo duro… ed è rimasto invalido a casa di luisa corna. Forse ce l’aveva più duro lei!

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Istat taroccata

«Vulnerabile» un italiano su cinque

Una famiglia su cinque ha difficoltà economiche crescenti e il 6,3% addirittura non riesce ad arrivare a fine mese. Lo scenario è tratteggiato dall’Istat nel Rapporto annuale 2008. Secondo l’Istituto di statistica, il 22% circa delle famiglie italiane è vulnerabile mentre il 41,5% si può definire «agiato».

Nel dettaglio, l’Istat spiega che del 22% di chi ha problemi circa 2 milioni e mezzo di famiglie (il 10,4%) segnalano difficoltà economiche più o meno gravi e risultano potenzialmente vulnerabili soprattutto a causa di forti vincoli di bilancio. Spesso non riescono a effettuare risparmi e nella maggioranza dei casi non hanno risorse per affrontare una spesa imprevista di 700 euro. Sono la Sicilia (20,1% e la Calabria 17,1% le regioni dove è maggiore la frequenza di questo gruppo.

Le famiglie italiane conseguono, in media, un reddito in linea con quello medio europeo. L’Italia è però uno dei paesi con la maggiore diffusione di situazioni di reddito relativamente basso: una persona su cinque è a rischio di vulnerabilità economica. E forti sono le diseguaglianze nello stivale, con le maggiori difficoltà nel Mezzogiorno dove il fenomeno arriva a riguardare un individuo su tre. Lo evidenzia l’Istat nel Rapporto annuale 2008, spiegando che il 20% della popolazione vive in famiglie che hanno un reddito (equivalente) inferiore del 60% rispetto a quello mediano. Rischi altrettanto elevati si osservano in Spagna, Grecia, Romania, Regno Unito e nei paesi baltici. Questa situazione tocca invece soltanto una persona su dieci nei paesi scandinavi, nei Paesi Bassi, nella Repubblica Ceca e in Slovacchia.

Il rischio di vulnerabilità economica a causa di un reddito insufficiente è particolarmente elevato nelle regioni meridionali: la distribuzione disomogenea sul territorio delle situazioni di basso reddito è una peculiarità italiana. Nel 2007 sono esposte al rischio meno di otto persone su cento nel Nord-est, poco più di dieci nel Nord-ovest e nel Centro e circa una su tre nel Mezzogiorno. L’incidenza di popolazione a basso reddito è massima in Sicilia (41,2%), Campania (36,8%) e Calabria (36,4%). I valori meno elevati si registrano in Valle D’Aosta (6,8%) e nelle province autonome di Bolzano (6,6%) e Trento (3,8%).
Confrontando i diversi tipi di famiglia, il rischio di vulnerabilità economica cresce con il numero di figli, soprattutto se minorenni e in presenza di un solo genitore. Anche per effetto delle disparità territoriali (le famiglie numerose sono relativamente concentrate nel Sud e nelle Isole) in Italia il rischio di vulnerabilità economica per le famiglie con minori risulta particolarmente elevato. Nei paesi europei che investono più risorse nei trasferimenti sociali per la famiglia il rischio di vulnerabilità per i minori viene significativamente abbattuto. L’Italia, però, insieme agli altri paesi del Sud del continente, è caratterizzata da un’efficacia di questi trasferimenti sociali piuttosto bassa.


°°° Amici miei, noi sappiamo benissimo (vi ho raccontato più volte un significativo episodio di prima mano io stesso) quanto siano taroccati ANCHE i dati Istat sotto il regime burlesquoni. A spanne, diciamo che almeno tre italiani su cinque NON CE LA FANNO. E’ quello che vediamo noi, tutti quanti noi, ogni giorno tra parenti, amici e conoscenti. Cionondimeno, anche questa versione molto edulcorata dei dati è più che allarmante. Siamo quelli che stanno peggio di tutti in Europa, nonostante le minchiate fasulle del mafionano e dei suoi pappagallini senza alcuna credibilità. Siamo nel baratro e… la cosa più terribile NON E’ QUESTA, amici, la cosa più terribile è che, mentre tutti gli altri paesi cominciano a vedere un po’ di luce, QUI LA PARTE DELLA CRISI PIU’ PESANTE DEVE ANCORA ARRIVARE!!!

APTOPIX ITALY BERLUSCONI

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La farsa tragica

La corsa delle divise al posto in lista
A guidare la “hit” delle candidature c’è la polizia penitenziaria

Mille agenti delle forze dell’ordine candidati: per loro stipendio pieno e permessi
A. BARBERA, F. SANSA
ROMA
Altro che disaffezione per la politica. In Italia c’è chi le elezioni le aspetta con ansia divorante. Poliziotti, forestali, agenti di polizia penitenziaria affollano le liste elettorali. Al Nord, al Centro, al Sud, spesso con liste improbabili, in luoghi improbabili. All’inizio può sembrare un caso o una scelta dei partiti dettata dalla fame di sicurezza che assilla gli italiani. Ma poi si capisce che ci deve essere dell’altro. Come spiegare altrimenti la lista che nel 2008 si presentò a San Pietro in Amantea (Cosenza): «I tredici candidati erano tutti agenti di polizia penitenziaria e nessuno era del Paese», sospira Francesco Gagliardi, un maestro che segnalò l’episodio. Nel nome del partito i poliziotti penitenziari infilarono una parola che sentono spesso sul luogo di lavoro: San Pietro per la Libertà. «Da anni un gruppo di agenti di Campobasso formano una lista che si presenta nei comuni vicini», sospira Donato Capece, segretario nazionale del Sappe, il sindacato della Polizia Penitenziaria. Quest’anno i candidati dovrebbero essere più di mille.

Tanti, così tanti, che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria mercoledì ha diffuso una circolare che dispone un censimento degli agenti aspiranti politici. I conti sono presto fatti: soltanto nel carcere di Augusta, in Sicilia, ci sono 17 candidati su 250 agenti. Niente rispetto a quanto accadde alle Amministrative nel 2007, quando 70 erano in lista, il 35 per cento dell’organico. Anche nei commissariati di polizia in questi giorni si contano le poltrone vuote: 17 a Roma, 44 a Bologna, 20 nel torinese. Nei corridoi degli uffici c’è chi racconta di quell’agente campano emigrato a Brescia per candidarsi per i Pensionati. Oppure di quel giovane poliziotto bolognese che nel 2008 si candidò in Friuli e a Piacenza. Sempre sconfitto. Sempre con i Pensionati. Ma da dove nasce questa passione politica che spinge a candidarsi a destra e a sinistra? I maligni indicano l’articolo 81 della legge 121 del 1981, quella che riformò il comparto sicurezza: «Gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale».

Insomma, un mese e mezzo senza lavorare a stipendio pieno (tranne qualche indennità). Una norma del tutto eccezionale rispetto a qualunque contratto pubblico e privato: «I contratti collettivi prevedono l’aspettativa in caso di candidatura, ma può essere negata e comunque non è mai retribuita», spiega Alfredo Garzi della funzione pubblica Cgil. «La norma era nata con un altro spirito», sostengono Flavio Tuzi e Filippo Bertolami del sindacato di polizia Anip-Italia Sicura. «Si voleva così garantire l’osmosi tra forze dell’ordine e società civile, per evitare quel muro contro muro anche violento tra uomini in divisa e cittadini». Ma qualcosa non funzionò, ottenere consenso dalle persone su cui prima dovevi esercitare l’autorità di polizia può creare cortocircuiti e il Dipartimento di Pubblica Sicurezza introdusse il divieto di lavorare dove ci si era candidati. Risultato: i candidati ci sono lo stesso, ma si assiste a una migrazione elettorale. Tuzi e Bertolami la spiegano così: «Adesso ci sono due categorie. I furbi che si presentano in circoscrizioni lontane dal posto di lavoro pur di usufruire dei 45 giorni di aspettativa retribuita oppure coloro che ci credono davvero e vorrebbero impegnarsi nella società civile».

Così un mese e mezzo prima delle elezioni gli uffici si svuotano. Per la gioia di chi parte e il mal di fegato di chi resta e deve lavorare come un pazzo per coprire i buchi nell’organico lasciati dai colleghi. Bianco o nero, lavativi e onesti? Non è così semplice. Sebastiano Bongiovanni è agente di polizia penitenziaria ad Augusta e consigliere comunale. Ma politica lui la fa davvero: nel 2007 segnalò alla Procura di Siracusa che 70 suoi colleghi erano candidati alle elezioni, «Non perché si trattasse di lavativi, anzi. Dovremmo candidarci tutti e 250». Prego? «Sì perché la nostra vita è un inferno. I detenuti sono più di seicento, in un carcere che cade letteralmente a pezzi, dove l’acqua c’è soltanto tre ore al giorno. E noi rischiamo la vita per 1.500 euro al mese, senza possibilità di trasferimenti». Sì, i politici abbondano soprattutto tra chi fa i servizi più usuranti, come gli agenti dei Reparti Mobili, quelli che passano le domeniche in mezzo ai fumogeni degli stadi. Ma c’è anche chi usa la politica per ottenere il trasferimento che non arriva mai. Semplice: basta candidarsi nella città dove lavori. E’ vietato, incompatibile, così all’amministrazione non resta che spostarti altrove. Ferie, indennità, trasferimenti altrimenti impossibili… e poi c’è chi dice che la politica è lontana dalla gente.

UN POLIZIOTTO CANDIDATO IN INCOGNITO

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ALTO TRADIMENTO

Dalle carte, in parte inedite, del processo ancora in corso a Verona
sul tentativo di secessione leghista, emerge il ruolo dell’attuale ministro
Maroni, la passione delle ronde
Nel ’96 reclutava le Guardie padane

In una lettera come membro del “Governo provvisorio” invitava gli iscritti
a presentare le domande di adesione. “Esercitiamoci al tiro a segno”
di ALBERTO CUSTODERO (Repubblica)

Maroni, la passione delle ronde Nel ’96 reclutava le Guardie padane

Il ministro degli Interni, Roberto Maroni
ROMA – Da reclutatore della ronde della Repubblica Federale della Padania a regolarizzatore delle ronde della Repubblica Italiana. Dalle carte, in parte inedite, dell’indagine svolta nel ’96 dall’allora procuratore di Verona Guido Papalia sulla secessione leghista è possibile ricostruire nei dettagli l’iperbole politica di Roberto Maroni passato da “portavoce” del comitato provvisorio di liberazione della Padania, nel 1996. A ministro dell’Interno in carica del terzo Governo Berlusconi.

LA LETTERA DEL RECLUTATORE – IL RICORSO DEL GUP

L’indagine del procuratore Papalia contro tutto lo stato maggiore della Lega Nord aveva per oggetto la secessione (“la loro intenzione di disciogliere l’unità dello stato”), e le ronde padane (la Guardia nazionale padana e le “camicie verdi, aventi all’evidenza caratteristiche paramilitari”). E’ tutt’ora pendente
presso il gip veronese in attesa che la Consulta si pronunci su un conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato (vedi allegato, ndr) per l’uso che la procura veronese ha fatto delle intercettazioni telefoniche di alcuni parlamentari leghisti. In questa inchiesta sulla “costituzione, il 14 settembre del ’97, a Venezia, di un governo della Padania” (da allora mai disciolto) il cui presidente del consiglio risultava Maroni, sono attualmente ancora indagati tre ministri leghisti del governo Berlusconi: lo stesso Maroni, il
ministro per le Riforme e leader leghista Umberto Bossi, e il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli.

Da quei documenti giudiziari che portano il timbro della procura di Verona, emergono dal passato dettagli e particolari che acquistano oggi nuovi significati soprattutto se riletti alla luce del dibattito di in corso sul ddl sicurezza. E sulla determinazione della Lega Nord a porre oggi la fiducia sul pacchetto di norme fra cui spicca, non a caso, la regolarizzazione su tutto il territorio nazionale delle ronde.

Le carte della procura di Verona testimoniano che Maroni, tredici anni fa, era il “portavoce” del “Comitato di liberazione della Padania” il cui statuto prevedeva “la non collaborazione, la resistenza fiscale e la disobbedienza civile” come “forma di lotta democratica per garantire il diritto di autodeterminazione dei
popoli”. E che si avvaleva delle “camicie verdi” per garantire il “servizio d’ordine organizzato nell’ambito dei territorio della Padania”.

Oggi Maroni è il ministro dell’Interno della “tolleranza zero” che – contro il parere di tutti i sindacati dei poliziotti che lo accusano, come dice Enzo Letiza del’Anfp, di “togliere il monopolio dell’ordine pubblico alla Polizia e di stornare fondi dalle forze dell’ordine ai volontari della sicurezza” – vuole legittimare tutte le ronde d’Italia. Comprese forse anche quelle di cui nel ’96 era reclutatore e responsabile: la “Federazione della Guardia nazionale padana” e le “camicie verdi” (tutt’ora esistenti e operanti nelle realtà del Nord nell’ambito della Protezione civile, seppure con la faccia più presentabile di onlus).

Secondo l’atto costitutivo in origine di questa Federazione – presente fra le migliaia di carte processuali – sottoscritto da Maroni, Gnutti e Bossi, uno degli scopi della Gnp era “proporre l’esercizio del tiro a segno come momento di pacifico riferimento storico, come attività sportiva, di svago e motivo di aggregazione sociale”. Non a caso, nei moduli di iscrizione alla Gnp era prevista la domanda sul possesso di porto d’armi da parte dell’aspirante. Tiro a segno e porto d’armi, tuttavia, non si spiegano di fronte al dettato dell’art. 2 comma “d” che mette tra i princìpi ispiratori delle Guardie padane: “… il rifiuto di ogni attività che implichi anche indirettamente il ricorso all’uso delle armi o della violenza”.

In sostanza, il Maroni ministro dell’Interno potrebbe legittimare, oggi – fra le tante ronde sparse un po’ ovunque per il Paese – anche l’ex servizio d’ordine del governo provvisorio della Padania di cui era membro e portavoce, oggi onlus.

Che fosse proprio lui il reclutatore della Gnp, del resto, emerge con inoppugnabile chiarezza da una pagina spuntata dai trenta faldoni stipati nell’ufficio del gip di Verona.

Si tratta di una lettera del 7 ottobre del ’96, firmata a mano “affettuosi saluti padani, Roberto Maroni”, nella quale l’attuale ministro dell’Interno annunciava che per la costituzione della Gnp erano arrivate talmente tante domande, “che il governo Provvisorio della Repubblica Padana ha proceduto nel giro di pochi giorni alla costituzione di 19 Compagnie provinciali”.

“Per consentire tale reclutamento – si legge ancora in quella lettera di Maroni – il Governo padano ha approvato una campagna di reclutamento di volontari in tutte le provincie”. “Attenzione – ammoniva poi – La domanda di adesione alla Gnp deve essere trasmessa al goverrno via fax e nessuna scheda dovrà essere conservata all’interno della sezione della Lega Nord. La Gnp riveste carattere strategico per il futuro della Padania”. Che cosa fosse in realtà quel carattere strategico della Gnp lo chiarirà, il 22 settembre del ’96, Irene Pivetti, ex presidente della Camera leghista, al procuratore Papalia che la interrogò come teste.

“Bossi mi spiegò – verbalizzò la Pivetti – cosa significasse per lui la Guardia nazionale Padana: “quando un popolo si sveglia, mi disse, ha bisogno del suo esercito”. La regolarizzazione delle ronde che la Lega farà passare ponendo oggi la fiducia alla Camera è questione antica. Ci aveva già provato nel ’96 con la
Repubblica Padana. In un documento acquisito il 13 gennaio del ’98 dalla Questura di Pavia c’è infatti una “proposta di legge d’iniziativa del governo della Padania” rivolta al suo Parlamento. E intitolata “norme per la costituzione della Guardia nazionale Padana e per il riconoscimento delle associazioni volontarie di prevenzione e controllo della sicurezza dei cittadini e del territorio denominato Guardia nazionale Padana”.

Ciò che a Maroni non riuscì nel ’97 quando era portavoce del Governo Provvisorio della Repubblica Padana, gli potrebbe riuscire in questi giorni, dieci anni dopo, come ministro dell’Interno della Repubblica italiana.

°°° Siamo davanti a una vera e propria sovversione dello Stato e della Carta Costituzionale, a un colpo di stato con la vaselina, a un ministroi (dei miei coglioni) colpevole di ALTO TRADIMENTO! Che si fa?

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Che peccato!…

Molestie in classe, 11 anni al maestro
e 5 al preside che non lo denunciò
dirigenti,scolastici
Gli episodi in una scuola elementare nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro. Le accuse per l’insegnante erano pesantissime
E’ stato condannato a 11 anni di reclusione un maestro di 42 anni accusato di aver molestato otto bambini quando insegnava in una scuola elementare alla periferia nord di Milano. Lo hanno stabilito i giudici della nona sezione penale del Tribunale di Milano, che hanno condannato anche il preside dell’istituto, accusato di concorso omissivo nelle violenze, a cinque anni e mezzo di reclusione. Entrambi sono stati interdetti in perpetuo da qualunque incarico nelle scuole.

I fatti risalgono al 2007. Secondo quanto accertato dalla indagini il maestro, Antonio Silvestre, avrebbe molestato dal settembre al dicembre 2007 alcuni suoi alunni, tra cui una bambina ipovedente e autistica, palpeggiandoli e spesso istigandoli a compiere angherie sui compagni. Il maestro era finito agli arresti domiciliari nel maggio dello scorso anno e poi a febbraio di quest’anno, in base al nuovo decreto sicurezza, per lui era stato disposto il carcere. Misura che è stata confermata dai giudici della nona sezione penale.

Il preside, secondo l’accusa non avrebbe denunciato quello che accadeva nella sua scuola, nonostante i familiari dei bambini avessero segnalato più volte gli episodi. Nel dicembre 2007, secondo l’accusa, il preside si era soltanto limitato a mettere l’insegnante in malattia. Dopo la lettura della sentenza il maestro è rimasto impassibile e, come ha spiegato il suo avvocato, Gabriele Casartelli, “non ha detto nulla e ha manifestato soltanto preoccupazione per i suoi familiari”. In particolare, la sorella dell’imputato è scoppiata in lacrime e si è messa a gridare per pochi secondi. Hanno parlato invece di una sentenza “durissima e giusta” i famigliari dei bambini che si sono costituiti parti civili nel processo.

“Da questo processo ne escono benissimo i bambini e ne esce a pezzi l’istituzione scolastica”, ha spiegato il procuratore aggiunto Marco Ghezzi, che ha rappresentato l’accusa. Il pm aveva chiesto per l’insegnante una condanna a 16 anni di reclusione, parlando di un “museo degli orrori” nella sua requisitoria. Per il preside, invece, aveva chiesto otto anni. “Spero che cose del genere non accadano più – ha aggiunto Ghezzi – e spero che i dirigenti scolastici e gli insegnanti non nascondano più la testa sotto la sabbia come gli struzzi”. Il problema secondo Ghezzi, è che l’istituzione scolastica dovrebbe rispondere tempestivamente e “i dirigenti scolastici non dovrebbero aspettare le denunce scritte per compiere azioni disciplinari”.

A QUANDO ANCHE IL RISVEGLIO DELLA CHIESA CONTRO I PEDOFILI?

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Da Vittorio Zucconi

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In termini eleganti e processuali, quello che è stato detto nell’oscena puntata, si chiama “blame the victim”, colpevolizzare la vittima, genere della ragazza violentata che “se l’era cercata”, perchè girava in minigonna. In termini più nazional popolari, la signora Berlusconi, che ora dovrebbe scusarsi con il marito dopo essere stata umiliata in pubblico dall’attempato gallinaro, è la classica “cornuta e mazziata”. Magnifico e solenne esempio dato agli uomini italiani di come “the first husband”, il primo marito e l’uomo più popolare della nazione concepisce il rapporto con le donne. E chi ha fornito il bastone siamo stati noi, gli abbonati della Rai usata dal proprietario di Mediaset per combattere le proprie vicende matrimoniali private. Scusate se mi ripeto: Alice nel Paese delle Meraviglie.

In attesa dello show di Silvio Berlusconi davanti al proprio ciambellano a Porta a Porta, suggerisco, come chiave di interpretazione delle parole che sentiremo scorrere, questo dialogo fra Alice e la Regina Rossa, nel meraviglioso “Attraverso lo specchio” di Lewis Carrol:
— Ma nel nostro paese, — disse Alice, che ancora ansava un poco, — generalmente si arriva altrove… dopo che si è corso tanto tempo come abbiamo fatto noi.
— Che razza di paese! — disse la Regina – Qui invece, per quanto si possa correre si rimane sempre allo stesso punto. Se si vuole andare in qualche altra parte, si deve correre almeno con una velocità doppia della nostra.
L’Italia è Alice. Ha ormai attraversato lo specchio e le parole significano soltanto, come dice il Cappellaio Matto, quello che il Cappellaio Matto vuole che significhino. Se si accetta di vivere nel regno delle meraviglie, tutto si spiega, e niente si spiega. E sul regno dell’assurdo e del nonsense si stende rassicurante il sorriso dello Stregatto. Lasciate perdere editoriali, blog, talk show, saggi. Per capire l’Italia del 2009 si deve leggere Lewis Carrol.

In vista di un massiccio spostamento familiare in Italia dagli Usa all’inizio dell’estate, sfoglio i vari “forum” (”fora”? Latinorum) di passeggeri che hanno volato Alitalia negli ultimi mesi, dopo il miracoloso salvataggio compiuto dal nostro “governo del fare”. I risultati della ricerca non sembrano incoraggianti e suggeriscono di starne “alialrga”. Sono soltanto le solite lamentele di passeggeri irritabili e sfortunati, o qualcuno di voi ha notizie ed esperienze di prima mano su questo nuova “good company” che ci è costata finora 3 miliardi di Euro a fondo perduto? O dobbiamo avvertire i terremotati d’Abruzzo che se il governo del fare otterrà gli stessi risultati nella ricostruzione dell’Aquila che ha ottenuto con la rinascita di Alitalia, faranno bene a emigrare? Attendo fiducioso notizie.

Ora, di tutti gli argomenti che si possono usare per difendere “lui” contro “lei”, secondo il classico e squallido schema italiano della Curva Nord e della Curva Sud, e presumo che ce possano essere, il più cretino e insolente è quello delle “faccende private”. Questo argomento, usato da colui che in introdotto in Italia e preso il potere vendendo prima di ogni altra cosa sè stesso, il proprio modo di essere, il proprio stile di vita privato, l’ostenazione di sè, del proprio corpiccino malato, guarito e restaurato, come elemento ideologico vincente sul grigiore burocratico e anonimo degli avversari, che ha imposto il modello della politica come “reality show” continuo, è semplicemente ridicolo. Chi di telecamera vive di telecamera soffre. L’obbiettivo, come scrisse un giornalista americano, non sbatte mai le palpebre.

°°° Ora, personalmente stenderei una spessa coltre di letame su quello che è avvenuto ieri sulla Tv cosiddetta pubblica, ma che di pubblico ha solo il pagamento del canone. Mi vergogno molto da parte del servo insetto, del direttore sottopadrone e melenso del Corriere della serVa, e dell’ignobile cazzaro mafioso che – per l’ennesima volta – ha avuto a disposizione da un suo sguattero invertebrato il balcone più ambito d’Italia… senza contraddittorio alcuno. Queste porcate si verificano esclusivamente in questo regimetto delle banane e sarebbe INCONCEPIBILE persino in Corea del Nord. Prosit.

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Il regime avanza…

… e il mondo è preoccupato.

Rapporto di Freedom House, organizzazione non-profit e indipendente
Libertà di stampa: l’Italia fa un passo indietro, unica nazione in Europa
La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati»

(da Freedomhouse.org)

NEW YORK – L’Italia è l’unico Paese europeo a essere retrocesso nell’ultimo anno dalla categoria dei «Paesi con stampa libera» a quella dei Paesi dove la libertà di stampa è «parziale». La causa: la «situazione anomala a livello mondiale di un premier che controlla tutti i media, pubblici e privati». Lo afferma in un rapporto Freedom House, un’organizzazione non-profit e indipendente fondata negli Stati Uniti nel 1941 per la difesa della democrazia e la libertà nel mondo, la cui prima presidente fu la first lady Eleanor Roosevelt. Lo studio viene presentato venerdì al News Museum di Washington e sarà accompagnato da un live web cast che si potrà scaricare sul sito Freedomhouse.org.

CLASSIFICA – Nell’annuale classifica di Freedom House, l’Italia va indietro come i gamberi, insieme a Israele, Taiwan e Hong Kong. «Un declino che dimostra come anche democrazie consolidate e con media tradizionalmente aperti non sono immuni da restrizioni alla libertà», ha commentato Arch Puddington, direttore di ricerca per Freedom House. Su un punteggio che va da 0 (i Paesi più liberi) a 100 (i meno liberi), l’Italia ottiene 32 voti: unico Paese occidentale con una pagella così bassa. I «migliori della classe» restano le nazioni del Nord Europa e scandinave: Islanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca e Svezia (prime cinque a livello mondiale). Le «peggiori»: Corea del nord, Turkmenistan, Birmania, Libia, Eritrea e Cuba.

PROBLEMA ITALIA – Il «problema principale dell’Italia», secondo Karin Karlekar, la ricercatrice che ha guidato lo studio, è Berlusconi. «Il suo ritorno nel 2008 al posto di premier ha risvegliato i timori sulla concentrazione di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida», spiega. Altri fattori: l’abuso di denunce per diffamazione contro i giornalisti e l’escalation di intimidazioni fisiche da parte del crimine organizzato. Intanto giovedì il Committee to Protect Journalists, un’organizzazione non-profit che lavora per salvaguardare la libertà di stampa nel mondo, ha pubblicato la top ten dei peggiori Paesi al mondo per i blogger. La Birmania guida la lista, seguita da Iran, Siria, Cuba e Arabia Saudita. Sesto il Vietnam, seguito a ruota da Tunisia, Cina, Turkmenistan ed Egitto.

Alessandra Farkas
30 aprile 2009


°°° E’ terribile, amici. Ma questi non querelano per diffamazione (che non esiste) soltantoi i giornalisti, ma se la prendono anche con noi comici e con i vignettisti: vedete il mio processo di due giorni fa intentato da un certo Carta o l’allontanamento sospensivo di Vauro. Siamo in pieno regime. RESISTERE! RESISTERE! RESISTERE!

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bavaglio

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